recensione

Dagli archivi: Terminator 3 – Le macchine ribelli (Jonathan Mostow, 2003)

Terminator 3 – The Rise of the Machines

Di Jonathan Mostow
Con Arnold Schwarzenegger, Nick Stahl, Claire Danes, Kristianna Loken, David Andrews
Durata 109’
Distribuzione Medusa

La storia: Dieci anni dopo avere rischiato la pelle a causa del T-1000 inviato dal futuro per ucciderlo, John Connor deve fronteggiare la temibile Terminatrix, o TX, e anche il sistema Skynet, che ha creato un virus per bloccare l’intero sistema telematico mondiale. Ma, ancora una volta, dal futuro verrà inviato un Terminator per proteggere lui e quella che sarà la sua futura compagna nella vita e nella resistenza degli uomini contro le macchine, quando il giorno del giudizio è ormai imminente.

All’inizio di T3 John Connor ricorda le parole della madre Sarah: il futuro non è scritto, dipende da noi. E ammette di non esserne proprio convinto. Pur non essendo all’altezza del primo episodio, quest’ultimo film della serie Terminator condivide con esso un certo pessimismo di fondo, che fa sicuramente bene, e lo distanzia quindi (per alcuni versi) da Il giorno del giudizio.

John è uno sbandato, non ha una casa, non ha un lavoro fisso, non si sente assolutamente l’eletto, il futuro capo della resistenza. L’eletto. Cosa vi ricorda questa parola? Matrix, ovviamente. Niente di più lontano. Se, infatti, soprattutto nel secondo capitolo della trilogia dei Wachowski la filosofia spicciola, e soprattutto il tema del libero arbitrio, viene continuamente tirata fuori in un insostenibile (a mio avviso) e poco comprensibile eccesso didattico e didascalico, in questo film tutto rimane sullo sfondo, pur essendo presente, per fare spazio all’azione sfrenata. E per fortuna.

Il ritmo di T3 è magistrale, il film non lascia un attimo di tregua allo spettatore ed è divertente, pur non avendo eccessive pretese. I rari momenti di pausa sono stemperati da una buona dose di ironia, cosa a cui già T2 ci aveva abituato, ma senza esagerare, evitando di usarla come ultimo mezzo per mostrare di avere ancora qualcosa da dire. Spesso alcuni luoghi tipici riscontrabili nei due film precedenti sono rivisitati e capovolti.

Per esempio, Terminator appena arrivato nel presente è come sempre nudo e in cerca di vestirsi. Come nel secondo episodio, entra in un bar country&western, dove però, proprio quella sera, c’è una Ladies’ Night: a nessuna, quindi, fa paura l’enorme figura di Schwarzy, anzi, le avventrici guardano ammirate il suo corpaccione ignudo. Esattamente come il poliziotto che la ferma per eccesso di velocità guarda ammirato il seno della Terminatrix seduta in macchina, seno da lei rimodellato aggiungendo qualche taglia per l’occasione dopo avere visto una pubblicità di Victoria’s Secrets. A questo punto si potrebbe iniziare un bel discorso analitico sul corpo, corpo umano, corpo robotico… Ma no, non c’è tempo. E per fortuna.

Perché dopo dieci minuti di film è tutto un turbinio di inseguimenti, sparatorie e di esplosioni, cose a cui anche i due episodi precedenti ci avevano abituato. Cosa poteva rimanere da fare, allora, al valido Jonathan Mostow, per non sfigurare? Nel secondo Terminator l’inseguimento avviene con un camion? Qui c’è un’autogru, con braccio posto orizzontalmente, in modo da sfasciare più cose possibili ai due lati della strada. In una scena un elicottero entra a tutta velocità in una specie di hangar. Basta? No, perché, qualche secondo dopo, ecco irrompere un altro elicottero, secondo una logica dell’accumulo che risulta incredibilmente efficace.

I personaggi, poi, sono come devono essere: la TX è bellissima e spietata (e riconosce le persone leccando il loro sangue e acquisendo notizie sul loro codice genetico). Terminator ha ormai una sua ironia (involontaria per il personaggio, ma assai calcolata e modellata su quella che emerge dal secondo capitolo) e ha in dotazione un programma di lineamenti di psicologia integrato nella memoria (questo gli permette di dire battute che agghiacciano i due protagonisti, del tipo: “La vostra serenità è positiva, allontana l’ansia e la paura di morire”).

Forse è un po’ debole il personaggio interpretato da Clare Denis, Kate Brewster, ma in questo contesto funziona. E infine John Connor, che rimane lo stesso adorabile cazzone de Il giorno del giudizio, ma con in più, come dicevo, la consapevolezza che il suo ruolo è troppo grande per lui. Il confronto tra lui e Terminator, che potrebbe raggiungere pesantezze “filosofiche” inaudite, si limita a qualche momento efficace, in cui, appunto, emerge il tema del libero arbitrio e delle responsabilità del singolo rispetto alla collettività (ricordando vagamente, in qualche modo, alcuni punti di Spider Man).

Ma questo, lo ripeto, non è fondante. Viene accennato solamente, e tanto meglio per chi lo coglie (non ci vuole molto), ma chi non lo dovesse fare si può godere tutto comunque. John Connor rimane una persona spaesata, che guarda al futuro tra lui e Kate in maniera umana (della serie: ma pensa un po’, avrò dei figli con questa ragazza carina), e che rimane pieno di paure e di incertezze.

La scena finale del film è emblematica: i due rimangono al sicuro in una sorta di bunker e ricevono le prime chiamate via radio da parte dei sopravvissuti all’inevitabile giorno del giudizio: inizia la resistenza, di cui Connor, quindi, sarà il capo. Quando gli chiedono chi è che comanda laggiù, John esita molto, prima di dire il suo nome, e parla quasi mormorando. I due protagonisti si stringono la mano, per cercare un appoggio in un altro essere umano più che per altri motivi. John e Kate non si baciano mica, del resto è appena iniziata una guerra nucleare, a chi verrebbe in mente di farlo? Bravi.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2003

Dagli archivi: Goodbye, Lenin! (Wolfgang Becker, 2002)

Goodbye, Lenin!Goodbye Lenin locandina

Di Wolfgang Becker
Con Daniel Brühl, Katrin Sass, Chulpan Kamatova, Florian Lukas, Maria Simon
Durata 118’
Distribuzione Lady Film

La storia: Christiane, attivista del partito comunista della Repubblica democratica tedesca, cade in coma durante i disordini precedenti alla caduta del muro di Berlino. Si sveglierà solo otto mesi dopo, con un cuore ancora molto debole. La Germania e l’Europa, intanto, sono cambiate radicalmente, ma il figlio Alexander, con la complicità di amici e parenti, cercherà di creare un mondo in cui tutto è come prima, se non meglio.

Come spettatore italiano, mi ritrovo nella stessa situazione di qualche settimana fa, quando ho visto City of God. Esattamente come per il film di Mereilles il mio essere non brasiliano mi faceva percepire alcune cose come se fossero adornate da una sorta di epicità aggiunta, anche nel film di Becker mi sono trovato a non capire del tutto. Con la differenza che mentre in City of God ci muoviamo efficacemente, soprattutto nella prima parte, nei territori della vita e storia come mito, in Goodbye, Lenin! le cose sono confuse e spesso in equilibrio instabile.

Nel film ci vuole essere un po’ di tutto: la Storia, innanzitutto, ma quella recente e vicina a noi, che conosciamo bene (sebbene da non tedeschi, appunto). Una sorta di abbozzo di romanzo di formazione, vedi gli accenni all’infanzia del protagonista e ai suoi eroi, la storia del suo primo amore, il rapporto con i genitori che cambia, la vita adulta. Inoltre il regista spinge sia sul registro del grottesco e del comico, con un uso frequente di accelerati e del commento fuori campo del protagonista, sia sul dramma familiare. E tutto ciò è imbevuto in un tentativo di commedia.

Così alcune realtà che presumo possano essere state all’ordine del giorno nell’ex Germania est, come la disoccupazione, lo spaesamento politico, culturale e umano di vecchi militanti del partito e dei giovani ai quali venivano offerte possibilità tanto nuove quanto effimere, vengono spesso ridotte a macchiette, a stereotipi.

Il vecchio collega di Christiane, insegnante del politecnico Karl Marx, si è dato all’alcolismo, la prima cosa che si fa quando si attraversa il confine tra Berlino est e ovest è andare in un sexy shop, la Germania si riunifica veramente con la vittoria della nazionale tedesca ai mondiali di calcio italiani. Va bene, immagino possa essere stato così, ma è questo l’unico modo di rappresentarlo?

Tuttavia altrove il regista rivela un tocco delicato e molto personale. Un esempio su tutti è la creazione di quella bolla temporale che diventa la stanza di Christiane, una volta che la donna viene portata a casa dopo il lungo ricovero. In un primo momento la stanza diventa una specie di parentesi ferma all’ottobre 1989, una specie di teca, in cui tutto viene dal passato.

Divertenti, quindi, le sequenze in cui Alexander e l’amico Denis creano finti telegiornali. Godibile la ricerca affannosa del figlio dei cetriolini “socialisti” per la madre, ormai introvabili e sostituiti da prodotti di importazione olandese, ma la cosa si ripete troppe volte. Poi la stanza diventa un vero e proprio laboratorio, dove il tempo si muove in una sorta di realtà parallela. Quindi viene fatto credere a Christiane che sono i cittadini dell’ovest ad arrivare nella DDR, attratti da uno stile di vita alternativo al capitalismo, con scene decisamente divertenti. D’altro canto, quando viene reclutato il cosmonauta idolo di Alex per interpretare un improbabile successore di Honecker alla guida del paese, si cade un po’ nel patetico.

Il film continua in questa incertezza, caricando troppo delle situazioni, disegnandone alcune molto bene (soprattutto quando si tratta di nascondere alla madre l’enorme pubblicità della Coca Cola e il passaggio del dirigibile West), ma rimanendo insicuro sulla strada da prendere.

Così, nel pout-pourri generale, anche la storia del padre perduto e poi ritrovato (ovviamente ricco, con altri due figli, che vive in una bella villa con giardino) rimane appena abbozzata, sullo sfondo, quasi indistinta. Peccato, perché, ripeto, Becker non è affatto banale sia nelle scelte registiche che nella direzione degli attori, che, la Sass sopra tutti, sono bravi e nella parte.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, giugno 2003

Dagli archivi: Aprimi il cuore (Giada Colagrande, 2002)

Locandina Aprimi il cuore

Aprimi il cuore

Di Giada Colagrande
Con Giada Colagrande, Natalie Cristiani, Claudio Botosso
Durata 93’
Distribuzione Lucky Red

La storia: Caterina vive e studia con Maria, sua sorella, che per mantenersi si prostituisce in casa. Le due ragazze sono unite da un rapporto d’amore assoluto e totale, che verrà messo in crisi con l’entrata nel loro mondo di Giovanni, custode della scuola di danza che frequenta Caterina. L’equilibrio si rompe portando a tragiche ed estreme conseguenze.

Per il suo primo lungometraggio, Giada Colagrande sceglie una storia difficile, facilmente etichettabile. Se si provano a filtrarne i contenuti, emergono tematiche come incesto, prostituzione, cattività, omicidio. Roba da fare gioire molti giovani registi italiani, magari quasi esordienti che, con ogni probabilità, trarrebbero da tutto ciò qualcosa di già visto in tutto e per tutto.

Non è il caso di questo film, scritto dalla stessa regista insieme a Francesco Di Pace, in cui questa (pericolosa) ricchezza di contenuti viene resa con forma asciutta e una messa in scena statica e ferma. Quando parlo di messa in scena, intendo tutto: la scenografia, per esempio. La maggior parte del film è ambientata nell’appartamento delle sorelle (il vero appartamento delle protagoniste), cinquanta metri quadri da cui la sorella minore non esce quasi mai, perché non vuole farlo. Il cielo spunta ogni tanto, ma spesso visto dalla finestra di casa, inquadrato come qualcosa di lontano e irraggiungibile. La luce del sole entra nelle stanze, ma in maniera riflessa. La luna, crescente, marca il tempo che passa, un tempo ipnotico, ritualizzato.

La vita delle sorelle, soprattutto quella di Caterina, è scandita in maniera ossessiva. La ragazzina studia in casa, mangia in casa, fa l’amore con la sorella in casa. Sente i gemiti dei clienti della sorella e il rumore ritmato della rete del letto che cigola, un suono acuto, opprimente, invadente e pieno che, insieme ai pesanti e cupi silenzi, fa letteralmente da colonna sonora.

Dopo ogni amplesso, un altro rituale, antico e (fin troppo) simbolico: il lavaggio. Caterina aiuta Maria a fare il bagno, e, quando sarà la sorella minore a prostituirsi, i ruoli ovviamente si invertiranno. Caterina è un animale in gabbia, che non ha la minima voglia di uscire, a parte per andare a scuola di danza. Talvolta la vediamo appoggiata alla finestra mentre getta un’occhiata sul mondo esterno, ma con indolenza, senza curiosità.

L’entrata del mondo esterno, l’irrompere di elementi estranei nel mondo emotivo ed emozionale delle due sorelle segna le svolte della storia. Prima Giovanni, che non può non esclamare “Che cazzo di situazione!” quando viene a sapere dello stato di cattività in cui vive Caterina. Poi, alla fine del film, è l’entrata nell’appartamento della moglie di uno dei clienti di Maria, disperata perché il marito è scomparso da una settimana senza lasciare tracce (“Siamo così innamorati”, dice la donna in lacrime a Caterina), a portare alla conclusione della vicenda.

Tutto, come ho detto, è ripreso in maniera sobria, distaccata, con la macchina da presa spesso distante dai corpi, immobile o quasi. Anche quando i corpi sono impegnati in amplessi freddi e squallidi, la camera si tiene spesso a distanza, ma non per pudore, quanto per una forma di non-partecipazione consapevole.

L’abbondanza dei contenuti e dei simboli, quindi, viene ben bilanciata (come già detto) dalla messa in scena. Nonostante tutto, si sente a volte una sensazione di eccesso. Prima di tutto nell’intermissione di rappresentazioni pittoriche della Madonna, dall’annunciazione fino alla morte. Una delle due sorelle si chiama Maria, il discorso è esplicito fin dall’inizio: non si tratta assolutamente di voler giocare sul filo del blasfemo, quanto di rappresentare un tipo di femminilità, che comprenda maternità, amore, sesso. In questo discorso, coerente e chiaro, l’introduzione dei quadri risulta quindi a volte sovrabbondante.

Inoltre il film è spesso segnato da innumerevoli e coltissime citazioni: Caterina studia da sola, non va a scuola, e quindi ripete alla sorella, e a noi, passi di Dante, poesie di Donne, interpretazioni leonardesche e michelangiolesche del dualismo corpo e anima, teorie cosmologiche di Tico e Keplero. Il tutto con un tono poco più che scolastico, che sicuramente alleggerisce i vari simbolismi. Un discorso a parte, infine, va fatto per la musica, praticamente sempre diegetica e, anche in questo caso, a volte fin troppo autoreferenziale: uno dei brani portanti del film è Chiarina di Schubert, dedicata dal compositore alla moglie Clara, molto più giovane di lui, e i titoli di coda sono accompagnati da un’Ave Maria fadista.

Sono questi, comunque, piccoli difetti, forse attribuibili alla normale paura di non essere capiti fino in fondo che molti registi esordienti hanno. Giada Colagrande dimostra di avere un occhio attento e una sensibilità non comune nel trattare quelli che sono temi universali e, quindi, molto difficili e pericolosi da rappresentare.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, maggio 2003

Dagli archivi: Sex is comedy (Catherine Breillat, 2002)

sex is comedy locandinaSex is comedy

Di Catherine Breillat
Con Anne Parillaud, Grégoire Colin, Roxanne Mesquida, Ashley Wanninger, Dominique Colladant
Durata 92’
Distribuzione Sharada

La storia: La regista Anne, alle prese con il suo nuovo film, sta cercando di girare una difficile scena d’amore, ma gli attori coinvolti faticano a darle quello che chiede.

Ogni film che parla di cinema è una potenziale arma a doppio taglio. Da un lato affascina e coinvolge, ma dall’altro rischia di voler risolvere in maniera metaforica, semplicemente mostrando la macchina-cinema, temi universali e difficili, arrivando talvolta a risultati quanto meno didascalici, se non addirittura banali.

La Breillat non sfugge a tutto questo. Sex is comedy è un film gradevole, ma discontinuo. È piacevole quando rimane sul set e narra delle vicissitudini delle giornate di riprese, delle lunghe attese, dei piccoli accorgimenti tecnici: in questo modo, ancora una volta, la finzione magica del cinema viene svelata, pur rimanendo intrigante. È assolutamente pretenzioso quando, attraverso alcune battute della regista, vengono veicolate massime e verità “assolute”, soprattutto sul cinema e sul mestiere della regia.

Nonostante le smentite della stessa Breillat, Anne non può non ricordare la regista stessa, e il film pare confermare questa tesi, con infiniti rimandi ai lavori precedenti dell’autrice. Non si tratta, infatti, di perseguire in maniera, appunto, autoriale le tematiche costanti della sua filmografia, sesso e verginità su tutte, ma di vere e proprie citazioni.

La scena centrale del film e, ovviamente (?), anche del film nel film (che si chiama Scenes intimes), in cui la protagonista si trova a fare sesso per la prima volta, è identica a una sequenza del precedente A mia sorella: stessa l’attrice (Roxanne Mesquida, brava come tutto il resto del cast), stessa la posizione della macchina da presa, stesse le battute pronunciate dagli attori.

Siamo ben oltre la strizzatina d’occhio, andiamo quasi verso un trattato autocelebrativo, tanto più che il film è narrativamente basato, o addirittura sbilanciato, sulla figura della regista, che sceglie gli attori “come gli uomini scelgono le donne, per poi consumarli”. Il rapporto tra attore e regista con sfumature erotico e sadomasochistiche? Già visto.

D’altro canto, però, la Breillat sa guardare con ironia al suo cinema. Esemplare, a questo proposito, la scena in cui l’attore si trova a dovere mettere un fallo di plastica, a mo’ di protesi. Non può non venire in mente il clamore suscitato da Romance, film in cui, sebbene soltanto a livello pubblicitario, aveva fatto scalpore la “comparsata” del pene di Rocco Siffredi.

Come molti registi, la Breillat è innamorata del cinema e di se stessa. Questo fa sì che non voglia quasi staccarsi da questo piccolo e, tutto sommato, gradevole film. Dopo alcuni cartelli di titoli di coda, ecco comparire di nuovo, sebbene solo per qualche secondo, la regista Anne.

La scena d’amore centrale (e onnicomprensiva, aggiungo) del film Scene intimes (ma anche di Sex is comedy e dei film della Breillat), è stata finalmente girata, con emozione, partecipazione e pathos da parte di tutta la troupe. Anna/Catherine si può finalmente rilassare, mangiando una banana e sorridendo. Ci sono altre “scene intime” da girare, nient’altro importa.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, marzo 2003

“Feed Me Through the Power Line”

swansjamsmall

Sono passati due mesi, eppure riesco ancora a percepire sulla pelle la sensazione che gli Swans mi hanno trasmesso dal vivo al Locomotiv Club. Sono stato letteralmente investito da un concerto colossale, durante il quale anche i blackout hanno avuto una funzione scenica. Una serata che ha lasciato tutti attoniti e che, come accade con alcuni eventi (nel senso proprio del termine, per una volta), ha in un certo modo unito i presenti a un livello superiore rispetto alla semplice compresenza nel locale bolognese.
Ho cercato di raccontare il concerto in una recensione che si trova sul numero di gennaio di Jam, che trovate ancora in edicola: se volete leggerla è quassù, a portata di clic. Se il 30 novembre scorso eravate anche voi al Locomotiv e vi va di raccontare quello che avete visto o sentito, sentitevi liberi di farlo.

Di |2024-05-12T19:15:35+02:0029 Gennaio 2013|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , , , , |0 Commenti

Gente che suona divinamente

Non è per sfiducia, ma se dovessi dare sempre ascolto a tutti quelli che mi dicono “Devi ascoltare/vedere/sentire la band X: è la cosa più incredibile del cosmo“, non avrei neanche tempo per mangiare. Come però feci per Springsteen, riconosco in questa sede che tutti quelli che mi hanno detto cose magnifiche dei Wilco dal vivo, avevano ragione da vendere.

Cliccando sull’immagine qua sopra potete leggere perché ho dato quattro stelle e mezzo su cinque nella recensione scritta per Jam di questo mese sul concerto tenuto dalla band di Tweedy all’Estragon ormai due mesi fa.

Di |2024-05-13T00:10:29+02:0014 Maggio 2012|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , , |0 Commenti

L’elettricità

Quando ho avuto la conferma che Nada sarebbe passata da Maps non solo per un’intervista, ma anche per un minilive in studio, mi sono davvero emozionato: non mi aspettavo che una musicista con una carriera tale sarebbe venuta a suonare nel mio programma. Preparandomi, però, per l’intervista, ho riguardato e riascoltato molto della lunga carriera della musicista.

E in effetti ciò che l’ha sempre animata è stato uno spirito di indipendenza e di purezza sinceramente lontano dalle famigerate “scelte commerciali”, tant’è che mica le è andata sempre bene. Questo spirito, in scala minore, è un po’ quello che vorrebbe avere la trasmissione e a cui tende la programmazione della radio tutta. La sua presenza in onda, quindi, poteva avere ragione di esserci, così, fantasticandoci su.

Quest’introduzione per dirvi che quel pomeriggio di più di un mese fa alla fine è stato davvero bellissimo, e mi è rimasto dentro al punto tale da pervadere anche le sensazioni della serata, quando Nada e i Criminal Jokers hanno suonato in un Locomotiv sold out.

Quassù trovate il resoconto della serata, pubblicato nell’ultimo numero di Jam: un breve pezzo in cui non si accenna alle canzoni che vedrete e sentirete presto sul sito di Maps, ma di cui mi è rimasta una sorta di elettricità nell’animo. E capirete che quando è un set acustico a provocare queste sensazioni…

Qui non si sa
se restare nell’oscurità
o andare verso il futuro
in un mondo diverso
spinti da un vento leggero
come un fucile alla nuca
(Nada, “L’elettricità”)

I know a song to sing on this dark night

Esce oggi Crazy Clown Time, di David Lynch: sebbene non si tratti della prima incursione del regista in ambito musicale (basti ricordare che Lynch ha messo le mani nello splendido Dark Night of the Soul, oltre che in svariati album, per non parlare delle colonne sonore dei suoi film e corti), questo è il primo disco firmato tutto da David Lynch, che lo suona insieme a Dean Hurley, ma soprattutto lo canta.

L’uscita del primo singolo, “Good Day Today” (che ha un video, non troppo bello, realizzato dal vincitore di un concorso indetto dallo stesso Lynch), sono stato sviato completamente: ero convinto che il disco si sarebbe rivelato completamente costruito su quei ritmi electro morbidi e che la voce di Lynch fosse un cameo, un’eccezione.

E invece, sebbene l’apertura del disco sia affidata alla riuscita “Pinky’s Dream”, con l’ormai onnipresente Karen O, le seguenti 13 tracce vedono un uso multiforme della voce dell’autore. Una volta è con l’eco, un’altra col vocoder, un’altra ancora resa metallica e quadrata. Ecco il vero debutto del disco: la voce di Lynch. Una voce che pensavo di non riconoscere, ma che ho individuato subito (con stupore) all’uscita della prima anticipazione dell’album.

Allora però non mi sbagliavo solo sulle parti vocali, ma anche sui timbri: Crazy Clown Time è basato spesso, sì, su tappeti e ritmiche elettroniche, ma ci sono diversi brani suonati: solo una batteria e una chitarra, spesso piena di riverbero, che incede lenta su accordi ondeggianti (“Football Game”, “The Night Bell With Lightning”, l’unico strumentale del disco), come se si trattasse di una versione agonizzante di un lento da ballare nella penombra dell’One Eyed Jacks o, chissà, nel nuovissimo Club Silencio, aperto da poco a Parigi.

Non è un caso citare il bordello di Twin Peaks, perché è impossibile separare la musica di Lynch dal suo mondo visivo, oltre che – ovviamente – sonoro. Tutto Crazy Clown Time è inquietante: il titolo del post è preso dal testo di “Noah’s Ark”, ma provate a sentire il brano (tutto il disco è ascoltabile sul sito della NPR), che arranca su una voce spezzata e poi risolve dicendo che la canzone di cui si parla “è la canzone dell’amore”.

O anche la titletrack, che narra il punto di vista di un bambino “su una festa in cortile”, dice la pur bella recensione della Radio Pubblica statunitense. Ehm, no: Suzy e Molly si strappano le camicie, Buddy rovescia addosso alle donne della birra e poi sputa e urla forte. Non si tratta esattamente di un barbecue tra vicini.

La voce di Lynch, quindi, è al centro di tutto, anche dell’ossessiva litania al vocoder di “Strange Unproductive Thinking”, del blues distortissimo di “I Know” (altro video, migliore, “realizzato” con la stessa modalità del primo), delle atmosfere “badalementiane” di “Speed Roadster”, di ogni storia narrata con assoluta serietà e normalità.

È proprio questa attitudine che attira da sempre l’ascoltatore e lo spettatore nel mondo di Lynch: dove sembra tutto normale, perché tutto viene presentato in maniera apparentemente canonica. Le canzoni hanno una struttura riconoscibile, i film sono girati con rispetto assoluto (scena per scena, si intende) per le regole basilari della grammatica: eppure, nascosto tra le ombre c’è un orecchio in un prato, un misterioso ciondolo a forma di gong, una stanza rossa, un sussurro inquietante, talvolta un cantato stridulo che parla d’amore.

Questi tipici indizi lynchiani sono arricchiti dal fatto che, in questo “artefatto”, Lynch non si limita a mettere in scena, ma interpreta: diventa l’amante depresso, il bambino, il folle, mettendosi in prima fila. Ecco perché la voce di Lynch è il vero debutto di questo disco.

Crazy Clown Time non è un capolavoro, perché è troppo lungo, tanto per citare il primo difetto che balza alle orecchie, e non tutti i brani sono riusciti: è un album faticoso, che però ripaga l’ascoltatore quanto più egli vi si lascia andare.

Così come non si può guardare una puntata di “Rabbits” stirando, né perdere l’attenzione durante la visione di un qualsiasi lungometraggio di Lynch, è fuorviante cercare di capire questo disco senza dedicargli completamente l’ora abbondante della sua durata, magari cercando di capire o intuirne i testi mentre lo si ascolta. Dopo ciò, a prescindere dal vostro giudizio, di una cosa sarete certi: questo album non è un bluff, o il curioso hobby di un geniale e bizzarro visionario.

Questo album è David Lynch, come lo è The Alphabet, INLAND EMPIRE e le previsioni del tempo che ha curato. Prendere o lasciare.

Riportando la guerra a casa

Con la presentazione di La guerra in cucina che terrò domani alle 16 alla Libreria Ubik di Gorizia, si conclude, almeno per ora, il primo breve tour di promozione del libro. Ed è bello che si concluda nella mia città natale, dove, in realtà, diversi racconti che compongono il libro sono stati pensati (molti) e ambientati (qualcuno).
Ovviamente, se qualcuno di voi ha contatti con librerie, circoli vari, associazioni e simili, in una delle vostre città, non esiti a contattarmi: vorrei fare girare il libro ancora un po’. E attendo sempre le vostre mail, per capire, nel caso l’abbiate letto, se vi è piaciuto o no.

Update
: l’articolo de Il Piccolo di oggi. Però.

La guerra a Milano

Ebbene sì, lettori milanesi del blog (ma ce n’è qualcuno?). Vabbè, comunque: io e il mio libercolo La guerra in cucina sbarchiamo venerdì 15 gennaio alla Libreria Centofioridi piazzale Dateo. Là alle 19 Gianluca Morozzi e Matteo B. Bianchi presenteranno me e i miei racconti, e io li ringrazierò. Accorrete numerosi: ringrazierò anche voi, firmerò le copie, stringerò mani e bacerò bambini e statuette-ricordo.

Peraltro Matteo ha anche recensito il mio libro sul numero di Linus in edicola in questi giorni: se cliccate sull’immagine la vedete grande e potete leggere le belle cose che ha scritto sui miei scritti (ops). Fatevi vivi!

Torna in cima