Francesco Locane

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La bellezza di “Tookah”: intervista a Emiliana Torrini

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Ci sono delle interviste che sulla carta non sono più difficili di altre, ma che vengono rese ardue dalle condizioni in cui si svolgono. Da quando mi era stata ventilata la possibilità di intervistare la Torrini a quando la chiacchierata è avvenuta effettivamente è passato più di un mese, ma questo è normale. Meno consueto è che proprio nel momento dell’intervista tutti i telefoni della Rough Trade di New York (dove la musicista si trovava per provare il nuovo tour, che tocca Milano l’11 novembre, unica data italiana) abbiano deciso di andare in tilt e che quindi la chiacchierata sia avvenuta via cellulare. “In questi uffici c’è poco campo”, mi ha detto la Torrini prima che cominciassi a registrare. O almeno, credo abbia pronunciato quelle parole: intendere le sue risposte in certi frangenti è stato davvero difficile. Ecco quello che ci siamo detti.

L’ultimo disco si chiama Tookah. Che significa?
“Tookah” è una parola venuta fuori mentre improvvisavo una canzone: ogni volta che la cantavo mi rimandava a qualcosa di dolce, a qualcosa in me. Mi dà l’idea di essere qualcosa di bello, gentile, legato alla felicità, come se fosse un posto bello. Abbiamo avuto fortuna che sia spuntata così. Ormai è qualcosa legata alla mia essenza interiore: è stata una bella scoperta, e l’ho chiamata “tookah”.

Il disco ha un’atmosfera felice, ma talvolta i testi non lo sono, diventano quasi violenti, come nell’ultima traccia che chiude il disco in un modo piuttosto crudo. Quali erano i tuoi pensieri e sentimenti quando la registravi?
Il disco e la sua copertina parlano molto del dualismo: i due lati di noi, inscindibili. Non possiamo esistere solo con uno. L’album inizia con “Tookah” e finisce con “When Fever Breaks”; ci sono alcune canzoni, come “Blood Red”, in cui due voci si parlano, in cui una parte dialoga con l’altra. Il disco racconta dell’opposizione sì/no, di quella buono/cattivo, di questo tipo di conversazioni. L’argomento mi affascina, perché anni fa, quando ho subito un certo trauma, ho avuto un momento difficile, ho sfiorato la malattia mentale e ho dovuto riconsiderare queste due parti. Trovo il concetto molto interessante. È vero, il disco finisce in maniera violenta, ma si tratta di una violenza particolare: nessuno viene ucciso. Si parla più di passione, di perdita, di un dirottamento dell’amore che confonde.

In che periodo della tua vita esce questo disco? Non sei molto prolifica, quindi immagino che ti prenda i tuoi tempi: quando hai colto la prima scintilla e hai deciso di produrre il disco?
C’è stato davvero tanto tanto lavoro dietro all’ultimo disco. Con il disco precedente sono stata in tour per due anni e mezzo e mancavano tre settimane alla fine del tour quando ho scoperto di essere incinta di mio figlio. Ho quindi deciso che sarei rimasta a casa per un paio di anni, a fare la mamma. E mentre facevo la mamma dedicavo del tempo alla scrittura del disco, forse due volte alla settimana: era un’esperienza meravigliosa, ancora una volta c’erano due lati. C’era questa piccola creatura bisognosa di cure: pensavo che doveva mangiare, un giorno sarebbe andato all’università… Volavo con la mente. Ero molto confusa e ho dovuto prendere una pausa dai momenti creativi dedicati al disco perché non ero pronta. E quando ho deciso che non ero pronta… naturalmente è lì che è iniziato il vero lavoro. Ho fatto una sorta di viaggio del suono, ho sperimentato il comporre con altre persone, una sorta di sinfonia… Così venuto fuori un disco, Tookah.

Come hai lavorato con i produttori e coautori del disco, Dan Carey, Simon Byrt e Ian Kellet? Quali sono stati i loro ruoli e a cosa hanno contribuito davvero?
Con Dan abbiamo un metodo di lavoro per cui siamo completamente collegati in studio: lui suona alla chitarra e io sono al microfono con gli accordi. Se, quando inizia a suonare, io reagisco in qualche modo, registriamo e infine spuntano anche le parole. C’è improvvisazione: lui si occupa della parte di chitarra, io della melodia e delle parole.

Cosa mi racconti degli strumenti usati? Ho letto in rete che Dan ti ha portato dei synth e cose del genere: è stato un regalo, una sorpresa o è stata più una cosa di lavoro?
No, stavamo guardando dei video su YouTube di questi cugini che hanno fatto un nuovo strumento: si chiama Swarmatron e l’abbiamo ordinato. È arrivato dopo mesi, perché andava costruito ex novo. Nel frattempo ne abbiamo visto un altro per caso in cui un nerd del sintetizzatore ne suonava uno chiamato Oppenheim che mi ha veramente colpito. Sono diventata patita del mondo dei synth e abbiamo deciso di usarlo per un progetto collaterale a cui stiamo lavorando, di divertirci suonandolo. Insomma, sono io che ho portato questi synth e le idee a loro legate nel disco. È stato un viaggio bellissimo, perché è stata anche una sfida per Dan il fare musica così, il mischiare bene una musica diciamo folk con l’elettronica e i synth. Dev’essere fatta molto bene, o può venire uno schifo. È difficile tenere tenere un suono piacevole ma avere spazio nella musica, silenzi, le dinamiche giuste. Insomma, è stata una sfida su qualcosa di bello, interessante…

Hai registrato il disco pensando alla sua resa live oppure l’ambito di studio e quello dal vivo sono separati del tutto, per cui pensi all’arrangiamento live dopo che hai chiuso l’album?
Di solito accade dopo, sì. Mentre lavoravamo al disco non pensavamo assolutamente a nient’altro. Non si va oltre a “Che bella canzone, questa!”, quando scriviamo. Si tratta di qualcosa di molto chiuso e intimo, una bolla in cui viviamo. Solo dopo pensiamo ai live: talvolta è piacevole, altre è una specie di lotta, perché alcune canzoni non riescono così bene dal vivo, alcune sono migliori di altre. Ma certo, quando pensi al live entri in un mondo completamente diverso: pensi a come renderle sul palco, ma anche a come provarle. È del tutto differente.

Le nuove canzoni, dal punto di vista dei timbri e dei colori, influenzano la resa dal vivo dei brani più vecchi? Lo spirito di Tookah, insomma, le infonde dal vivo?
Sì, ma è una cosa che avviene col tempo, non subito. È qualcosa che ha a che fare con il suonare insieme. Più si suona insieme, più le cose si inquadrano in un disegno preciso, ma non è una cosa che stiamo facendo ora. Per ora sto ancora sudando con le prove con la band, perché sono in un Paese diverso [gli Stati Uniti, ndr], non posso andarmene troppo, ma le cose inizieranno a evolvere, penso. Lo spero! [ride] C’è una nuova band che deve imparare le canzoni nuove… Gli inizi sono sempre momenti interessanti.

Quali dischi ti sono piaciuti di più, tra quelli usciti quest’anno?
In quest’anno ho ascoltato molto il disco di Ásgeir Trausti, nella versione islandese, che adoro. Ho ascoltato anche John Grant. Faccio dei mix cd per mio figlio, perché non intendo sedermi in macchina e ascoltare le canzoni dell’asilo! Ho fatto questi cd, così li ascoltiamo insieme in macchina. Velvet Underground, Harry Nilsson, i Beach Boys, cose così.

A proposito della versione inglese dell’album di Ásgeir Trausti, quando sono stati pubblicati i primi video su YouTube ho visto alcuni commenti piuttosto critici da parte di utenti islandesi a proposito della traduzione. Tu che ne pensi? E, in genere, qual è la differenza tra cantare in inglese o islandese, una lingua peraltro molto musicale.
Non saprei: credo solo che sia bello che ci siano due versioni del disco per Ásgeir. Va bene, chi vuole l’ascolta in inglese, se no c’è quella in islandese. È bello avere la possibilità di scegliere. Adesso, perchè è Ásgeir, probabilmente potrebbe cavarsela anche cantando solo in islandese, ma credo sia fantastico che ci siano entrambe le versioni. Io sono cresciuta parlando anche molto inglese: ero in Germania, Italia (ma non parlo italiano) e ho cominciato a scrivere in inglese presto. In tutta la mia carriera sono stata molto criticata per non cantare in islandese, ma credo che sia una questione legata ai tempi. La musica su internet è in quantità soverchiante, ognuno ha migliaia di dischi sull’iPad, ma nessuno sa cosa possiede. La gente sta tornando alle proprie radici, davvero tanto. Torna al loro Paese e sta accadendo anche in Islanda. Ásgeir Trausti sta tornando a cantare in islandese, molto di più di quanto facesse prima. I fan a casa sono sempre di più, e questo penso che accada ovunque. Le persone stanno perdendo molti legami con la propria musica e con chi la fa. Comunque non so se farò mai un disco in islandese: dovrei cominciare a scrivere in quella lingua e non l’ho mai fatto!

Qui l’intervista audio, che va in onda nella puntata di Maps di oggi.
Grazie a Emily Clancy per l’aiuto nella traduzione.

“Vogliamo che l’ascoltatore si perda nella nostra musica”: intervista ai MGMT

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Diciamolo subito: l’ultimo disco dei MGMT, il cui nucleo è formato da sempre da Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser, non funziona quanto il predecessore, Congratulations, un album che in molti, a mio avviso, hanno completamente sottovalutato. Ma il self titled uscito a settembre dimostra come la band persegua una propria strada, rischiando e mettendosi in gioco di continuo. Non è un caso che anche l’ultimo disco veda alla produzione di molti pezzi Dave Fridmann, al lavoro su quasi tutti i dischi dei Flaming Lips, una band per molti versi simile ai MGMT. In entrambi i casi c’è una ricerca del tutto personale nei suoni e nei temi, e un flirt da sempre esplicito con la psichedelia, intesa in diverse accezioni. La scorsa settimana, a Maps, ho intervistato al telefono Andrew: abbiamo parlato del disco, della band, della psichedelia e del potere magico della musica. Ecco la trascrizione della chiacchierata, che trovate in versione audio qua.

Uno dei nuclei tematici di Congratulations, il disco che precede MGMT, aveva a che fare con le conseguenze del successo del disco precedente, Oracular Spectacular: quali sono le basi del nuovo disco e come si collega al precedente?
Nel nuovo disco ci sono un paio di pezzi che, dal punto di vista tematico, dei testi, si rifanno alle esperienze vissute con i primi due album. Dal punto di vista musicale, invece, ci siamo mossi su terreno completamente nuovo: le nuove canzoni sono basate su improvvisazioni, sono un perdersi dentro alla musica. Abbiamo voluto fare delle canzoni che sembrassero provenire da un’altra dimensione.

Sembra che in MGMT abbiate raggiunto una piena “consapevolezza psichedelica”, dopo averne avuto qualche indizio in Oracular Spectacular e alcune piene conferme in Congratulations: avete quindi ottenuto il suono che cercavate da sempre, oppure questo è solo un altro passo verso una nuova tavolozza sonora?
Io e Ben crediamo che il nuovo disco rappresenti bene dove siamo ora, ma non è che abbia il suono definitivo della band. Speriamo sempre di cambiare suoni in ogni disco, pur rimanendo riconoscibili al pubblico. Ci sono alcune band che si comportano così. Quindi sì, credo che il prossimo disco sarà diverso ancora. Comunque credo che nel nuovo album ci siano un paio di episodi dove portiamo all’estremo la psichedelia, o meglio, la nostra idea di psichedelia che è portare la gente altrove (ride).

Come e dove avete registrato il disco?
A differenza del passato, abbiamo completamente scritto e registrato l’album in studio. Solo in occasione della prima sessione avevamo una canzone fatta, per il resto abbiamo lavorato in studio con Dave Fridmann (il produttore del disco, ndr). Lo studio è nella parte occidentale dello stato di New York, vicino al lago Eerie e ci siamo stati anche da soli, Ben e io, in pieno relax. In quei momento la nostra unica preoccupazione era creare musica che per noi fosse naturale e onesta.

Perché avete deciso di registrare la cover di “Introspection” di Faine Jade?
È una delle mie canzoni preferite del periodo psichedelico-pop, o flower-pop degli anni ‘60, che un mio amico mi ha passato un paio di anni fa. A un certo punto eravamo in studio e ci chiedevamo cos’avremmo fatto: abbiamo deciso di registrare una canzone scritta da altri, così da poterci concentrare solo sul suono, non sui testi o sulle strutture. Ci sono un sacco di album da cui estrarremmo delle cover…

Lavorare a una cover è un modo per rilassarsi e staccarsi dalla routine?
Esatto.

“Plenty of Girls in the Sea” è probabilmente la canzone, insieme alla cover citata prima, che si rifà in maniera più evidente all’era psichedelica “classica” degli anni ‘60. Mi ha ricordato alcune delle canzoni più leggere e meglio confezionate di Syd Barrett. Lui e il suo periodo sono i principali punti di riferimento dell’ultimo disco e della vostra musica in generale?
Syd Barrett e i primi Pink Floyd sono certo un riferimento e sono anche d’accordo su “Plenty of Girls in the Sea”: si rifà agli anni ‘60, anche se noi la vediamo orientata anche verso Harry Nilsson e i Cramps. Tuttavia credo che il disco sia anche influenzato da una serie di musicisti elettronici del periodo tra la fine degli anni ‘80 e i primi ‘90, molto importanti nella definizione del suono. Abbiamo cercato di ricrearli.

In molti testi di MGMT troviamo dei riferimenti all’inganno, all’illusione, anche alla bugia, come nel singolo “Your Life Is a Lie”. Come mai sei interessato a questi concetti, che tavolta come in “Congratulations”, la title track del penultimo disco, sono perfino coniugati in maniera concreta e realistica: lì dicevate che il successo non portava alle conseguenze che uno si aspetta o che gli pare di vedere…
Ben e io amiamo molto il concetto di dualismo nella musica: talvolta creiamo musiche ritmate e felici e le accoppiamo a testi sinistri o paranoici. È una delle cose che amiamo di più del fare musica insieme. Ma il tema delle bugie o, se vogliamo, della cospirazione, è ben presente anche nel primo disco. Nel secondo album un pezzo come “Flash Delirium” parla di come ci sia continuamente un mondo di distrazioni, e si fluttua sulla vita senza rendersi conto che ci sono alcune cose che rimangono a lato che sono molto più vere di quanto si creda. Quello che abbiamo voluto trasmettere in diverse canzoni del nuovo disco: credo sia salutare porsi alcune domande anche solo per pochi secondi, come il chiedersi se la propria vita sia una bugia. Il pezzo non è un modo per imporre qualcosa dall’alto alla gente, è più un suggerimento di porsi questa domanda da soli. Insomma, la psichedelia può essere spaventosa, ma allo stesso tempo portare a viaggi bellissimi.

E torniamo al dualismo…
Esatto.

Un’altra figura ricorrente è quella del narratore che trascina l’ascoltatore nel suo mondo, un mondo magico (o fin troppo reale), talvolta in maniera molto esplicita. Penso all’inizio di “Your Life Is a Lie”, dove canti: “Here’s the Deal / Open Your Eyes” (“L’accordo è questo / Apri gli occhi”). Ma in “Introspection” viene messo in discussione il potere delle profezie, o delle visioni. Quindi: la musica ha o non ha un potere sciamanico?
Penso di sì. Ben e io ci giochiamo, con questa cosa: specialmente nell’ultimo album, dove abbiamo improvvisato molto, come dicevo, e siamo arrivati quasi a stati di semi-trance, dove canalizzavamo qualcos’altro nella musica. È qualcosa che ho provato a fare anche nella scrittura di alcuni testi, perché molti autori che amo usano questo metodo per scrivere e creare. Arrivare a questo stato di semicoscienza, o come lo vuoi chiamare, è un approccio sciamanico, magico per fare arte e musica. Ecco perché abbiamo pensato all’Optimizer, questa componente visuale del disco che pensiamo aiuti l’ascoltatore a concentrarsi sulla musica, senza distrazioni. Vogliamo che l’ascoltatore si perda e venga trasportato dal disco.

Dal Nilo al Tamigi: intervista con i Melt Yourself Down

Melt Yourself Down - 17.08.13 -29

Una delle cose più belle che mi può capitare quando ascolto un disco nuovo, estratto dai pacchi di cd che arrivano, è metterlo nel lettore, magari dando le spalle alle casse o facendo altro e, dopo qualche secondo di musica, venire rapito al punto da lasciare ogni altra attività e rivolgere l’attenzione (anche posturalmente) alla musica. Il debutto dei Melt Yourself Down, band nata da Pete Wareham degli Acoustic Ladyland e formata da membri di Sons Of Kemet, Hello Skinny, Zun Zun Egui, Transglobal Underground e da musicisti che suonano con Fela Kuti e Mulatu Astakte, ha avuto su di me esattamente questo effetto: mi sono letteralmente innamorato del mescolamento di afro ed elettronica del gruppo britannico e sono andato a vederli dal vivo a Londra, in agosto. Su una panchina vicina al Tamigi ho intervistato il sassofonista Pete Wareham.

Come è nata la band? È iniziato tutto per caso o c’era da subito l’intenzione di fare un disco?
No, non ero intenzionato a fare un disco all’inizio, ma solo a creare quel tipo di musica. Con gli Acoustic Ladyland ogni volta andava così: facciamo un disco, registriamo qua, facciamo quest’altra cosa, avevo sempre delle scadenze. Ho scritto un disco, non ha funzionato, non l’abbiamo pubblicato e ho capito che il problema erano proprio le scadenze. Ho sempre pensato di essere bravo con le scadenze, ma poi mi sono reso conto che non lo ero. Quindi stavolta ho pensato: non avrò scadenze né progetti di pubblicazione; mi limiterò a scrivere della musica, mettere insieme una band e vedere cosa succede. Ecco come sono andate le cose. E solamente qualche mese dopo l’inizio di tutto ho pensato che potevamo registrare qualcosa.

Come hai trovato i ragazzi della band?
Ho dato loro un colpo di telefono.

Eravate amici?
Sì, persone che conoscevo e con cui lavoravo da tempo.

Qualcuno che hai chiamato ha iniziato e poi se n’è andato o anche non era interessato dall’inizio?
No, hanno detto tutti di sì.

Quindi hai trovato subito le persone giuste!
Sì, in realtà non è che li abbia chiamati dicendo loro “Ti va di fare parte della band?” o cose del genere. Ho solo chiesto se volevano suonare. Hanno detto “Certo che sì” e poi gli è piaciuto farlo ancora, sempre in maniera rilassata, più come un ritrovo che come le prove per una nuova band.

L’album è un viaggio tra Africa e Europa: quali sono i suoi riferimenti musicali?
La musica nubiana, quella relativa all’Egitto. Ne ascoltavo molta e volevo rifare quel suono. Anche la musica algerina. Quindi praticamente la musica nordafricana in generale. Volevo fare passare questa sensazione, ed ecco perché ho messo insieme questa lineup, che è simile a quella usata da Ali Hassan Kuban. C’è un suo pezzo, “Habibi”, che mi ha fatto pensare che volevo lo stesso tipo di suono. Ci sono gli stessi tipi di strumenti che ha una tipica band nubiana, fiati e percussioni. Volevo fare qualcosa con un sacco di fiati e percussioni. All’inizio c’eravamo solo io e Shabaka [Hutchings, altro sassofono della band, ndr]: abbiamo trovato il cantante più tardi.

Hai pensato di usare anche strumenti antichi e tradizionali, che non fossero percussioni e fiati?
Sì, ci ho pensato e magari ci sarà spazio per loro, ma mi piace l’idea di non fare capire facilmente da dove veniamo e cosa facciamo. Diventa un misto di cose diverse, una sorta di geografia della psiche: mi piace fare le cose a modo mio. Io vivo a Londra, be’, un po’ fuori, ma insomma: sono britannico e non sono mai stato là. Non voglio fare un omaggio a quel tipo di musica, ma suonare la mia. Se usassimo gli strumenti tradizionali, ci legheremmo troppo a quel genere e sarebbe qualcosa di troppo definito. Ma magari in futuro…

Mi racconti della produzione e della registrazione del disco? C’è stato spazio per improvvisazioni che poi sono finite, in qualche modo aggiustate, sul disco, per esempio?
Ho registrato le canzoni sul mio computer, inizialmente usando strumenti midi, campioni e loop, suonando il sassofono, cantando e giocandoci un po’. Poi ho trascritto le partiture, ho messo insieme la band, gliele ho date, le abbiamo suonate, abbiamo registrato le prove. Quindi me le sono riportate a casa, ho editato queste prove, aggiungendovi più fiati e altre cose, le ho riportate alla band… e avanti così.

Il disco è sperimentale, suona fresco e, allo stesso tempo, richiede attenzione allo spettatore. Inoltre ha una schietta attitudine “live”: le canzoni sono state create pensando alla loro resa dal vivo?
Non in maniera precisa, a dire il vero, ma siamo tutti musicisti che suonano soprattutto dal vivo: non passiamo la vita in studio, ma sul palco. Poi, ogni tanto, registriamo. Quindi sì, volevo che fosse una cosa entusiasmante da fare dal vivo, ma non perché ho pensato che la gente dovesse rispondere in un certo modo, ma perché volevo suonare così, volevo che la band avesse quel suono.

Parlando sempre di live: visto che provenite da band diverse, non dev’essere facile trovare del tempo libero comune a tutti per fare dei concerti. C’è un tour in vista?
Sì, faremo qualcosa in Belgio, abbiamo un concerto in Francia, al festival Rencontres Trans Musicales di Rennes, una bella manifestazione a cui partecipa un sacco di gente e anche molti promoter, quindi spero che dopo avremo più lavoro all’estero. Diciamo che dove ci vogliono, ci avranno e andremo a suonare per loro. Semplice.

Qual è il ruolo delle parole nelle canzoni? Ci sono dei collegamenti tra i brani, da quel punto di vista?
Kushal [Gaya, il cantante, ndr] ha un approccio alla musica simile al nostro. Talvolta ci improvvisa sopra, lo spezzetta e lo rimette insieme in una canzone, si inventa una sua lingua. È delle Mauritius, quindi parla il creolo, il francese, l’inglese e qualche altra lingua. Si inventa delle parole, ma poi ripete le stesse, non è che improvvisi ogni volta: sono parole, ma non è che devono significare sempre qualcosa. Quello che mi piace di molta della musica nubiana che mi aveva ispirato all’inizio è che è parte del desiderio di preservare la civiltà nubiana. Quel popolo, infatti, inizia a essere disperso anche a causa della diga di Assuan: molti sono andati a vivere al Cairo e c’è una buona possibilità che quella cultura sparisca. Quindi realizzarono molte cose in quella lingua, per preservarla e ovviamente io non la parlo per nulla: di molta della musica che amo non capisco le parole. Non sono parole inglesi su cui costruisco una storia, ma puramente suoni. Quindi mi piace che le parole di Kushal non significhino nulla, perché così la voce ha a che fare con un lato estetico, non con la narrazione. Ma se vuole avere il lusso di usare parole inglesi può farlo: è libero.

Ultimamente molta musica africana è arrivata tramite musicisti anglosassoni: penso alla musica del Mali portata da Damon Albarn, ai Dirtmusic e al lavoro fatto da Dan Auerbach insieme al chitarrista Bombino. Conosci questi dischi?
A dire il vero non ho sentito quasi niente di quelle cose, ho fatto le mie ricerche, ho trovato delle cose per caso, le ho ascoltate e le amate, ma senza pensare di volere fare parte di una certa scena o movimento. Sento musiche che mi piacciono e penso: voglio fare un suono così.

Ti ricordi delle emozioni che hai provato quando, come hai detto tu, sei incappato in queste musiche per la prima volta?
Sì, è stato nel 2000, un bel po’ di tempo fa. In biblioteca ho trovato un cd, la guida di Rough Guide alla world music: c’era un cantante algerino, Dahmane El Harrachi, e una band nubiana contemporanea che vive al Cairo, i Salamat e ho pensato “Wow, incredibili!” e ho continuato da lì.

Quali sono i tuoi cinque dischi dell’isola deserta?
Intendi classici senza tempo della mia vita? A Love Supreme di John Coltrane, Astral Weeks di Van Morrison, e poi… Dio… che domande mi fai! Pink Moon di Nick Drake, Ready To Die, di Notorius B.I.G. e 2001 di Dr Dre. Non c’è musica africana, perché non sono album interi, ma raccolte. Dai, aggiungo anche Walk Like A Nubian di Ali Hassan Kuban.

Un paio d’ore dopo, Pete e i suoi hanno letteralmente infiammato il piccolo palco dell’altrettanto piccolo Propstore, un locale adiacente al National Theatre. Il live è stato uno dei più intensi visti quest’anno (in cui di concerti belli ce ne sono stati proprio tanti). Vedendo la band dal vivo si percepisce qualcosa che sempre più raramente affiora durante un concerto: l’urgenza di suonare. Basterebbe anche solo questo per fare dei Melt Yourself Down una delle band da tenere d’occhio e da non perdere quando saranno in Italia per alcune date nel prossimo dicembre.

Qui l’intervista audio. Qui la galleria fotografica del live al Propstore.
Grazie a Emily Clancy per l’aiuto nella traduzione.

Non si può scrivere altro che d’amore: intervista a Miles Kane

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Lo ammetto: pur amando molto la musica britannica, ci sono alcune band che vengono dalle isole lassù che mi lasciano indifferente o non mi piacciono proprio: gli Arctic Monkeys sono una di queste. A parte il primo disco (o meglio, il primo singolo) la band di Alex Turner mi ha sempre detto poco. Ciononostante, penso che Turner sia musicalmente davvero dotato e la dimostrazione di questo talento sta a mio avviso nel disco realizzato insieme all’amico Miles Kane qualche anno fa, firmato The Last Shadow Puppets. Quando mi hanno proposto l’intervista all’ex-voce dei Rascals, quindi, ho accettato subito e sono andato a riascoltarmi i due dischi pubblicati da solista, scoprendo delle cose interessanti nell’ultimo album, uscito a giugno.
Giovedì scorso ho incontrato Miles Kane per una breve intervista nel backstage di piazza Castello a Ferrara, poco più di un’ora prima che salisse sul palco. Se volete ascoltare il suo meraviglioso accento di Liverpool, andate ad ascoltare l’audio sul sito di Radio Città del Capo, che inoltre trasmette l’intervista oggi intorno alle 11 e, nel pomeriggio, verso le 15.

Il tuo ultimo disco si intitola Don’t Forget Who You Are, cioè “non dimenticarti chi sei”. Chi è Miles Kane e quanto è ancora quel ragazzino che ha avuto la sua prima chitarra in dono dalla madre, considerando il grande successo che hai?
Penso che in fondo non cambierò mai. Credo di essere lo stesso ragazzo che suonava quella chitarra, ma vedi, si cresce e si evolve allo stesso tempo. L’importante è non rimanere impigliato nelle cose. Gli Arctic Monkeys sono l’esempio perfetto di chi ha successo, ma non cambia. Sono sempre loro stessi e continuano a tenere alla musica. Ecco quello che voglio anche io.

C’è un fattore, qualcosa, qualcuno, o un pensiero che ti tiene con i piedi per terra?
Probabilmente mia madre: siamo molto vicini e lei è un esempio per me.

Paul Weller ha contribuito al tuo ultimo disco. Sembra che la vecchia generazione di musicisti britannici non riposi per nulla sulle glorie del passato, ma voglia invece aiutare i giovani. Che ne pensi?
Paul è davvero un buon amico, ora, e ho una grande stima per lui. Mi ha incoraggiato molto, anche se non era obbligato a farlo, ma sa che ho grinta, che volevo fare il disco e farlo bene. Ero intenzionato a lavorare duro per arrivare dove volevo. Penso che sappia che sono vero.

Come si è comportato con te? Era il fratello maggiore, il padre, una specie di amico, il collega…
(ride) Un po’ tutto! Lui è per me una fonte di ispirazione… Vorrei essere come lui a 55 anni, stare qui seduto con te a parlare del mio nuovo disco, capisci? Mi voglio giocare tutta la partita, anche se ci sono alti e bassi… Le cose non nascono all’improvviso, ma vorrei fare questo, scrivere buona musica, per sempre.

Secondo te in cosa è meglio il tuo ultimo disco, se confrontato con l’album di debutto?
Penso sia più diretto. Le canzoni sono più consistenti. È un disco più conciso e brillante. Questa era l’idea di partenza che volevamo seguire. È un disco da suonare dal vivo, per darti energia.

La tua esperienza live quindi è stata determinante quando hai scritto le canzoni nuove…
Sì, tantissimo.

E le hai registrate pensando poi a quando le avresti suonate dal vivo…
Sì, al cento per cento. Sì.

C’è qualcosa o qualcuno che ha ispirato questi nuovi brani? Una specie di riferimento, un posto, una persona…
Tante cose, sai. Cose che mi sono accadute nell’ultimo anno. Non si può scrivere d’altro… cioè, per me si è trattato dell’innamorarmi del tutto e del disinnamorarmi davvero per la prima volta. È stata davvero la prima volta che mi sono innamorato sul serio e non si può scrivere altro quando ti capita, no? Forse nel passato ci sono andato vicino, ma stavolta volevo davvero essere onesto con i testi e esprimere i miei sentimenti, che fossi arrabbiato o felice.

Si tratta di messaggi molto diretti o li hai un po’ “lustrati”?
Be’, sì: penso che siano abbastanza diretti.

Cosa provi quando canti queste parole e quando lo fai dal vivo?
Diciamo che si formano delle piccole immagini nella mia testa che mi ricordano alcuni periodi, quando le scrivevo. Sento queste cose… Molte di queste canzoni erano dei demo e li ho ascoltati tantissimo. Mi ricordano di questo momento dell’anno scorso, quando eravamo presi dal tour ma scrivevo comunque, preparavo questo nuovo disco, mi succedevano un sacco di cose… Ecco cosa provo; ma c’è una canzone sul disco, “Out of Control”, un brano piuttosto lento, che talvolta mi emoziona. Non la suoniamo, cioè, l’abbiamo suonata solo un paio di volte, perché mi commuove. Cazzo, è pazzesco…

Pensi che a ogni concerto le cose migliorino da questo punto di vista? Il fardello emotivo si assottiglia, ne lasci un po’ su ogni palco, per sentirti più leggero?
Sì, forse sì.

Ne lascerai quindi anche un po’ a Ferrara, speriamo…
Speriamo. Sono felicissimo di suonare qua, perché non sono mai stato in Italia prima. Non ci ho mai suonato, se non ieri sera. Sento che la mia musica può funzionare qua. Il concerto di ieri a Roma è stato bellissimo, la gente è stata fantastica. Voglio venire qua spesso in modo da potere organizzare poi il mio tour. Non capisco come mai non sia venuto prima in Italia, perché ho fatto tanti concerti in Europa, molte volte. Sono stato molto in Francia, ho dato tanto là. Mi piacerebbe venire qua come ho fatto in altri Paesi, passare del tempo per farmi conoscere. Mi piace! Sono stato a Milano un paio di settimane fa per quattro giorni e a Roma per tre. È stato bello. Insomma, viaggio ovunque, in Paesi diversi, ma non so: dev’essere l’aria, mi piacciono le persone di qua.

Apriamo una breve parentesi su The Last Shadow Puppets: innanzitutto ci sarà un altro disco?
Non è pianificato, ma di certo ci piacerebbe farlo, un giorno.

Visto che Scott Walker era uno dei riferimenti principali del disco, cosa pensi del suo ultimo album, Bisch Bosh? L’hai sentito?
No, è un disco strano. Ho The Drift, ma è troppo.

Troppo cupo?
Non mi rende felice, non mi dà niente. Non riesco ad ascoltarlo. È troppo strano.

Mi dici al volo tre cose che ti rendono felice? (Miles ride un po’ imbarazzato) Ok, puoi dire “il sesso”, senza bisogno di scendere in dettagli… Allora altre due, dai.
Cose che mi rendono felice… C’è un disco che amo. È di Charles Bradley, un sessantacinquenne che nella vita fa il sosia di James Brown. Hai presente quella band, Sharon Jones and the Dapkings? Be’, l’hanno voluto per la loro etichetta: l’hanno visto, gli è piaciuto e ha firmato. Sono usciti due dischi: ti consiglio No Time for Dreaming, di Charles Bradley. Mi rende felice e lo ascolto ogni giorno. Poi fare un bel concerto, sudare e andare fuori di testa, senza problemi sul palco: anche questo mi fa felice.

Una domanda un po’ più ampia delle altre: sei un giovane britannico e vorrei conoscere il tuo punto di vista sulle giovani generazioni del tuo Paese, sia in generale sia parlando di quelli che, come te, hanno a che fare con l’arte. Ci sono speranze, soldi, posti, gente, attenzione…
Be’, è dura, lo è sempre. Raccogli, nella vita, solo ciò che semini. Qualunque cosa tu voglia fare, che sia il giornalista, il cantante o il pittore, devi volerlo al cento per cento. Da ragazzini ci si distrae e io mi sono distratto molto, ma quando vuoi qualcosa davvero ci possono volere un sacco di anni per ottenerlo, ma devi crederci molto. Non perderti in cazzate.

C’è un pensiero o qualcosa che tieni a mente per evitare di distrarti, o che usi quando sei pigro, quando non dai il cento per cento e più?
Abbiamo tutti quei giorni o quei momenti in cui vorresti prendere in mano la chitarra e scrivere, ma non lo fai. L’importante è non perdere di vista l’obiettivo.

Grazie a Emily Clancy per la revisione della traduzione.

Raccontare con gli arrangiamenti: intervista a Matthew E. White

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Big Inner è uno dei dischi dell’anno scorso che mi sono un po’ sfuggiti: capita di appuntarsi mentalmente di ascoltare un album che poi, per un motivo o per un altro, non riesce mai a meritarsi il tempo necessario ad apprezzarlo. Qualche tempo fa, finalmente, mi ci sono messo e l’ho ascoltato più volte da cima a fondo. Ciò che mi ha fatto impressione è stato il primo approccio. Mi ha fatto tornare in mente What’s Going On di Marvin Gaye: gli strumenti che arrivano un po’ alla volta, senza una intro vera e propria, come se l’ascoltatore entrasse gradualmente in una casa dove già si suona, scoprendo la musica che viene da dentro un po’ alla volta. Quest’immagine mi è rimasta impressa nella mente fino a quando ho incontrato Matthew E. White in un albergo di Barcellona: il musicista era là per un concerto al Primavera Sound. E quindi l’intervista è iniziata con questo parallelo tra i due dischi che, l’avrei capito alla fine della chiacchierata, non era poi così peregrino.

Se Gaye si poneva delle domande sulla violenza e sui violenti cambiamenti della società degli anni ’70, c’è una domanda che Big Inner si fa o fa al suo pubblico di ascoltatori?
No, non in senso proattivo: non credo ci sia un tema dominante o una domanda che viene posta lungo il disco, oppure se c’è è qualcosa di inconscio. Non ho scritto l’album con grandi temi in mente: dopo averne parlato con un po’ di gente, ritengo che ci sia un senso di speranza opposto al turbamento. Èin effetti un argomento importante, ma ancora una volta è stato qualcosa di inconscio, non il risultato di un tentativo di fare emergere quel messaggio.

Quando hai capito che era arrivato il momento di realizzare il tuo disco? È stata solo una questione materiale, di tempo, oppure c’è stato qualcosa di più profondo che ti ha spinto?
Credo che sia dipeso dal rapporto con la comunità nella quale vivo. Per dieci anni sono stato prima uno studente all’università, poi una specie di organizzatore con ruolo da promoter e quindi ho messo in piedi la mia prima jazz band… Con queste esperienze ho pensato che sarebbe stato bello creare un’etichetta discografica che fosse basata sull’idea di fare musica insieme alle persone con le quali già la facevo: si trattava di dare un nome a tutto questo e di organizzarsi meglio. Quando l’ho fatto, ho chiamato l’etichetta Spacebomb ed è cominciato un processo che mi ha portato a pensare che forse dovevo uscire io per primo, che io dovevo essere la prima persona a provare quello che cercavo di realizzare: soprattutto perché, se fosse andata male, ci sarei andato di mezzo solo io, visto che l’idea era mia. Insomma, non si è trattato di una reale scelta forte, quanto di una serie di eventi che sono successi in molto tempo e che mi hanno naturalmente portato a fare un disco. Ecco, penso che sia il modo più facile per spiegarlo.

La Spacebomb è un altro esempio, come ce ne sono negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, di etichetta-collettivo, un po’ famiglia, un po’ legata ai rapporti di amicizia, oltre che di lavoro. Ci racconti di più?
Guarda, io vengo da Richmond, in Virginia: è un posto che ha una tradizione, dove vivono musicisti e da dove altri musicisti provengono. Tuttavia penso che negli ultimi dieci anni abbia acquisito uno slancio particolare: gente con cui andavo a scuola ha deciso di rimanere invece di spostarsi altrove. Penso che ciò che rende una comunità speciale non sia il decidere consciamente di fare qualcosa insieme, ma il valore di ciò che si fa insieme. Chiunque può dire con i suoi amici “facciamo musica insieme”, ma è ancora meglio fare buona musica insieme. Molti a Richmond hanno detto “stiamo qua e facciamo musica” e credo che ciò che hanno prodotto (e non parlo solo di Big Inner) sia qualcosa di davvero molto speciale. È un posto speciale perché abbiamo deciso di rimanerci, ma anche perché la musica che facciamo lo è. È la musica che possiamo fare solo noi, questo gruppo di persone… Ed è un gruppo nutrito, siamo in 30-40, interagiamo tra noi, è davvero bello farne parte: in questo momento io sono un leader, nel senso che ho la possibilità di andare in giro per il mondo e parlare con te e altri di cosa facciamo. Per esempio il mio amico Reggie… Eravamo in una band insieme e poi l’ha voluto Bon Iver nella sua per il tour. Quindi prima c’era lui a girare, a fare da predicatore per Richmond, ora tocca a me… È stato divertente farlo negli ultimi due o tre anni: questa piccola comunità ha avuto modo di viaggiare ed è bello che sia stata notata sempre di più.

Pensi che fare base a Richmond faccia un’enorme differenza rispetto a vivere a Los Angeles, New York o Austin, che sono città di riferimento per la cosiddetta scena indipendente statunitense?
Sai, in realtà credo che quello che è accaduto negli ultimi anni con internet e i media digitali abbia decentralizzato l’industria. Certo, gli uffici delle case discografiche sono a New York e Los Angeles, ma il modo in cui lavorano i direttori artistici, l’andare nei club, non è più lo stesso. Le cose si muovono e, insomma, non ho trovato alcun reale svantaggio a stare dove sono, anzi! Lo dico spesso, ma non potrei fare altrove quello che faccio. E non sto a Richmond perché voglio stare a Richmond, ma perché Richmond è l’unico posto dove posso fare la musica che voglio, questo è ciò che la rende unica. Non è questione di orgoglio o di avere molti amici in città: ci vivo perché è ciò che è più giusto che faccia per la mia carriera. Non potrei trasferirmi a Austin, Los Angeles o New York e continuare con la musica che faccio.

Torniamo al disco: c’è spesso un contrasto tra ciò che canti e il modo in cui lo fai. È una scelta precisa o deriva solo dal tuo stile e quindi canteresti a proposito di qualsiasi argomento così?
Ancora una volta, non credo che si tratti di qualcosa di intenzionale. O meglio, lo è nel senso che il modo di cantare che ho e di affrontare i temi che ci sono nel disco mi rispecchia molto come persona. Ho uno stile vocale che uso e mi è capitato di scoprire che mi si adatta bene. Quindi per me c’è una bella corrispondenza tra come sono qui, mentre ti parlo, e come sono sul palco: non ci sono maschere da indossare. Questo è molto bello e mi permette di scrivere di alcuni argomenti su disco. È per me qualcosa di molto personale, introspettivo e intimo. D’altro canto questo mi permette di esprimere emozioni più grandi con i suoni, la musica, gli arrangiamenti. Così si può raccontare una storia a tre dimensioni o raccontarne due: da un lato cantando, diciamo, in maniera piatta, o non troppo emotiva e rilassata. Dall’altro ci sono questi grandi arrangiamenti che rappresentano l’altro lato della narrazione. È significativo, perché se cantassi la stessa canzone al piano o alla chitarra si perderebbe la natura tridimensionale della storia, e questa è la peculiarità di lavorare con gruppi numerosi di persone e arrangiamenti estesi: si può raccontare molto della storia senza farlo propriamente.

Si è parlato del tuo album anche come un disco gospel, ma in un brano dubiti della tua stessa fede. Qual è il tuo rapporto con la religione e il cristianesimo? So che i tuoi genitori hanno a che fare con questo e vorrei saperne di più.
Sì, sono cresciuto in un ambiente molto religioso, molto cristiano. I miei genitori erano missionari oltreoceano e tutto questo ha fatto parte della mia vita a lungo. Da dieci anni a questa parte, però, ho intrapreso il mio viaggio, qualunque sia: talvolta ci sono molti dubbi, talvolta non mi sento a mio agio con alcune delle ripercussioni che la fede porta con sé, ma ci sono diverse cose del mio passato che rispetto molto. Penso che tutti abbiano un percorso di fede, unico, basato su come hanno affrontato alcuni eventi: è un lungo viaggio. Per me si è trattato di documentare questo sul disco e affiancare questioni religiose di fede ad altre cose, perché la nostra vita è così. Qualunque cosa facciamo, che sia stupida, formativa, importante, è affiancata da un lato spirituale: devo essere sincero e dire che questo fa parte della mia vita così come lo è una brutta relazione, o la morte di qualcuno. Si tratta di creare un dialogo onesto, che rifletta un po’ anche il mio percorso.

Un altro riferimento forte legato al disco è quello con la musica nera, con etichette quali Atlantic, Stax, Motown, insieme alla cosiddetta “americana”: ascolti questi generi?
Sì, sono davvero le prime cose che ho ascoltato. La musica afroamericana dai primi del ‘900 agli anni ’80 è ciò che ascolto, che amo: il ragtime, il jazz di New Orleans, l’R&B, il soul… Tutto questo viaggio, la storia della musica americana che ha fatto il giro del mondo, è così influenzato dalla musica afroamericana; se poi pensiamo anche alla musica folk e a come si è sviluppata nel rock and roll… Per me è la musica migliore del mondo, e sono felice che tu abbia citato la Atlantic perché di solito tutti parlano della Motown e della Stax, ma per me la musica migliore di quegli anni è della Atlantic. È la migliore etichetta di sempre, fosse anche solo per tutta la musica che ha pubblicato, per come fosse sempre avanti agli altri. Adoro le loro cose, sono un grande fan della loro musica, quindi… non posso dire di non ascoltarla (ride).

Torniamo al tuo passato: riesci a raccontarci la tua prima memoria musicale?
Sì, i miei avevano due cassette che ascoltavo: un greatest hits dei Beach Boys e uno di Chuck Berry. Le ho scoperte da piccolo e me ne sono innamorato. Mi ricordo che ero alla Filippine, seduto sul divano con un registratore e premevo play e poi rewind e ascoltavo quelle cassette di continuo…

Abbiamo parlato di musica e radici musicali americane, ma tu hai vissuto qualche anno appunto nelle Filippine. C’è mai stata nella tua testa la sensazione di uno scontro tra la cultura che vedevi intorno a te, quella dei tuoi genitori. La cultura con la quale sei stato cresciuto non era quella nella quale vivevi: un fattore che apre la mente, ma che può anche portare a disagi…
Sì, crescere oltreoceano… Non è che poi là pensassi in questi termini, non avevo una tale consapevolezza, ma una cosa interessante è successa quando sono tornato a casa, negli Stati Uniti: la cultura americana, le canzoni… Tutto è di più: l’aria è più pulita, ci sono i condizionatori, il traffico è incasinato, alla radio parlano del tempo… È casa. C’è una distanza che ti permette di vedere la natura unica di una serie di cose. Vivere identificando la propria casa con gli Stati Uniti è qualcosa di peculiare, anche se io mi sono sempre sentito un po’ un outsider, perché non è lì che ho vissuto i miei primi cinque anni… cioè, otto, a dire il vero. È interessante essere un outsider da un lato, e d’altro canto identificarsi molto con gli Stati Uniti: i miei vengono dal sud del Paese, le loro radici sono lì. Quindi per me è stato molto bello essere conscio delle mie origini, ma allo stesso tempo non esserne completamente preso. Ho fatto il disco, e non è un disco di musica “southern”, o di “americana”: è solo quello che ho fatto, ed è bello che non sia associabile del tutto ai luoghi da dove provengo. Non so se quello che ho detto ha senso, ma comunque: ci sono dei vantaggi a essere cresciuto oltreoceano e a tornare poi a casa. Dà libertà, anche nel modo in cui vedi la tua musica.

Non so se l’intervista ti sia piaciuta finora, ma la facciamo crollare: mi dici i tuoi cinque dischi da isola deserta?
Uno è il best of degli Staples Singers degli anni su VJ… Un box… La musica che hanno inciso per la VJ prima di passare alla Stax. È la musica più bella che sia mai stata fatta, secondo me… What’s Going On di Marvin Gaye. Qualcosa di Ray Charles…

Tipo Modern Sounds in Country & Western Music?
Sì, Modern Sounds in Country & Western Music. Good Old Boys di Randy Newman… Ho bisogno di qualcosa di New Orleans… Life, Love & Faith di Allen Toussaint, uno dei suoi primi dischi. Quindi, ce n’è uno di New Orleans, uno di Ray Charles, uno di Randy Newman, uno di Staples Singers…

e Marvin Gaye, con cui abbiamo iniziato l’intervista: il cerchio si chiude.
Sì, è vero. Ecco fatto!

Sul sito di Maps trovate l’intervista audio.

The End of the Season

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Oggi alle 1535 va in onda l’ultima puntata della sesta stagione di Maps, il programma che conduco su Radio Città del Capo dall’ottobre del 2007. Questa sesta stagione segna, probabilmente, un punto di incontro tra due estremi: la massima realizzazione per quanto riguarda la mia “carriera” fin qui e uno dei periodi più difficili della mia vita, finora in effetti assai facile. Tra le altre cose, per la prima volta ho dovuto fare tutto da solo, senza collaboratori diretti alla trasmissione, senza nessuno vicino che, una volta a casa, mi consolasse delle difficoltà e mi mandasse a quel paese per le troppe lamentele. Ho condiviso, sì, le tantissime gioie di questi mesi, ma in maniera diversa, trovandomi per lo più da solo con me stesso a ripensare agli errori fatti (spero non molti) e all’affetto ricevuto (sorprendente).

Come al solito, ecco il post che trovate sul sito della radio dove potrete ascoltare in streaming o scaricare anche il sesto volume dei live fatti a Maps (74 brani, più di quattro ore e mezzo di musica, con una splendida copertina realizzata appositamente da Giacomo Nanni). Riascoltare le session per comporre la raccolta è stato un modo per ripercorrere questi mesi che posso solo definire intensi. Questo post, originalmente, era una sorta di “guida all’ascolto” della raccolta, pezzo per pezzo, in cui annotavo alcuni ricordi personali legati al tempo passato con i musicisti, ma ho deciso di cancellare tutto. Anche perché una delle cose che questi mesi mi hanno insegnato è stato che forse esporsi non è sempre saggio, considerando quanto lo faccio normalmente (e forse con un po’ di incoscienza).

Rimane solo la fine di quel post originario e cioè un grazie enorme a tutti, ma proprio tutti quelli che se lo meritano. Per chi dovesse essere “preoccupato”, si consoli: oggi finisce Maps, sì, ma domenica sono in onda e da lunedì (come l’anno scorso) passo al mattino con Aperto per ferie. Qualcuno sarà felice, altri si rassegneranno: del resto blaterare in onda è la mia vita da tanti, tanti anni. Per come è andata questa stagione di Maps, posso dire che, evidentemente, se inondo l’etere un motivo c’è e quindi c’è anche un motivo per migliorare ancora. Di strada ce n’è, eccome, ma, se me lo permettete, per un po’ mi riposo, penso alla strada (stradina) fatta e mi godo il panorama, sorseggiando (che immagine estiva) la proverbiale bibbita.

“Non fare niente che non ami”: intervista esclusiva ai Dead Can Dance

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Brendan Perry e Lisa Gerrard spiccano ancora di più nello splendido delirio del Primavera Sound: seduti nella hall di un albergo vicinissimo al Parc del Forum, sono a loro agio e, allo stesso tempo, distaccati, senza risultare freddi. Sanno di essere altro, da trent’anni, e l’ultimo disco Anastasis dimostra che perseguire la propria strada premia: è un album bellissimo, che contiene un paio di brani che non avrebbero sfigurato nei titoli migliori dei Dead Can Dance. Il tempo di sistemare portatile e microfono e inizia un conto alla rovescia: ho un quarto d’ora per l’unica intervista di una testata italiana a una delle band più attese della manifestazione spagnola, una band che può definirsi di culto in molti sensi.

Oggi inizia una nuova parte del tour: cosa provate, quasi un anno dopo la pubblicazione di Anastasis?
Brendan Perry:
Be’, è stato un anno decisamente fantastico. Dalla pubblicazione del disco siamo stati in tour praticamente di continuo, suonando dal vivo l’album per intero. È una novità, per noi, non l’abbiamo mai fatto prima. Sta anche vendendo molto bene, ricevendo ottime critiche. È come se non ci fossimo fermati, tutto continua dal punto in cui abbiamo smesso, tutti quegli anni fa. Insomma, è bello essere tornati.

Sembri sorpreso dei buoni dati di vendita e delle critiche…
BP:
No, non sono sorpreso del successo del disco, anche perché non avremmo mai fatto uscire qualcosa che pensassimo fosse al di sotto di uno standard. Siamo felici, davvero felici del lavoro fatto in studio. La cosa che ci stupisce, ma dipende probabilmente da questo lungo stacco temporale, è che abbiamo un pubblico sorprendentemente giovane. Questo mi ha colpito. Ne parlavo l’altro giorno con una persona… Mi ha detto: sono i figli della baby boom generation che vi ascoltavano quando erano giovani, perché i loro genitori gli facevano ascoltare quella musica che amavano. Quindi apprezzano davvero la nostra musica. Questo mi sorprende, ma è uno stupore molto appagante. La nostra musica va oltre il tempo e le mode, ma ora supera anche le generazioni. È quello che abbiamo sempre voluto che la nostra musica diventasse: classica, ma anche significativa per diverse generazioni.

È la vostra prima volta al Primavera Sound: è anche la prima volta che vi assisto io e sono davvero sommerso dalla quantità di musica che viene proposta ogni giorno. Come vi sentite a suonare per la prima volta in questo festival, quali sono le vostre aspettative, se ne avete?
Lisa Gerrard: 
È davvero difficile suonare ai festival… Voglio dire: è bello stare all’aperto e naturalmente è bello suonare per un pubblico così ampio. Ma, per esempio, suonare al Coachella è stato difficilissimo, perché abbiamo dovuto sacrificare alcuni dei nostri brani, quelli più delicati: i volumi degli altri palchi potevano entrare in competizione con il nostro. Non so bene come sarà qua con tante persone che suonano insieme…
BP: Qui è meglio, molto meglio…
LG: È stato un peccato perché si perdono alcune sottigliezze della musica e nella nostra ci sono salite, cadute, dinamiche e dettagli. Penso che in ogni luogo il pubblico abbia diritto al silenzio, almeno tra le canzoni. Un po’ di silenzio, almeno. E lì non ce n’era. Era difficile concentrarsi, ma insomma, bisogna provare tutto. Volevo anche dire la mia su quello di cui parlavi con Brendan, mi interessa. Per nostra fortuna molte persone prima dell’avvento di internet hanno registrato molti video dei nostri concerti. Quando è arrivato YouTube, questi filmati sono stati pubblicati, permettendo a molti di scoprire un brano che non conoscevano e di iniziare a cercare, accedendo a un vero e proprio archivio che non avrebbero altrimenti mai avuto modo di sentire. Questo è stato un collegamento incredibile che ci ha portato un pubblico nuovo, più giovane. Lo faccio anche io: se sento una canzone alla radio o se un amico me ne fa sentire una, la cerco e inizio a navigare nell’opera di qualcuno. Siamo stati fortunati perché chi ci ha ripresi è stato molto attivo nel caricare in rete i materiali più vecchi. Si può andare indietro nel tempo davvero di molto: è interessante, e ci aiuta. Anche perché allora non sapevamo che qualcuno ci stesse riprendendo, è un bel modo per… Ed è anche un po’ nostalgico.

Ti cerchi su Google o su YouTube per vedere se ci sono video caricati da poco?
LG:
Sì, mi capita quando devo fare un brano dal vivo: rivederlo ripreso in concerto mi permette di ricatturare l’essenza di quel live, spesso diversa da quella su disco. Sì, lo faccio… Ripercorro la memoria (ride). L’argomento è interessante, perché oggi i tempi sono proprio diversi.

Questo si collega alla mia prossima domanda: quando avete iniziato a fare musica, chi vi ascoltava poteva scoprirne di nuova attraverso i vostri album, che sono spesso dei viaggi musicali. Oggi apparentemente tutta la musica del mondo è a portata di mano per chiunque abbia un computer in rete: avete tratto vantaggio anche voi da questa disponibilità, talvolta schiacciante, di musica?
BP:
Sì, internet è una risorsa incredibile. La velocità con la quale puoi accedere alle informazioni è pazzesca, ti permette di rimanere ancorato a un’idea, a un pensiero e di andare poi nel dettaglio per cercare quello che ti interessa. Puoi ascoltare un tipo di musica diversa, che poi ti porta a un’altra ancora… Seguire le diramazioni. Sì, è schiacciante, ma ho imparato la disciplina grazie a infinite visite alle biblioteche pubbliche. Quando si va in biblioteca ci si orienta tra branche, libri e autori diversi, se si rimane concentrati sull’idea originale, sulle intenzioni iniziali: insomma, internet è una risorsa eccezionale, la uso sempre.

Com’è stato tornare a lavorare insieme? Mi chiedo se vi siate ritrovati subito, se abbiate ascoltato la musica che faceva l’altro in questi anni: forse questo è stato d’aiuto.
LG:
C’è sempre stato un interesse: quando Brendan faceva uscire qualcosa di nuovo ho sempre cercato di ascoltarlo, perché ero curiosa di cosa stesse combinando. E penso che in qualche maniera ci sia anche nelle mie prove da solista, anche se stavamo lavorando a cose diverse. Bisogna fare così, perché così si ampia la tavolozza, si capisce quello che si può fare, si può provare altro. Ma nel lavoro svolto insieme c’è qualcosa di unico, l’energia di quei dischi, il modo in cui hanno colpito il pubblico… Tra l’altro con il nostro pubblico c’è un rapporto lungo, che dura da tanti anni. E’ tenera, come cosa: per la mia personale esperienza, mi ricordo di come hanno cominciato alcune band che ho amato e poi ho visto la loro evoluzione negli anni e amo ancora la loro musica, ne fanno ancora. Mi sento molto vicina a questo tipo di percorso e penso che anche noi abbiamo fatto quell’effetto: abbiamo intrapreso un viaggio con un grande numero di persone che lentamente è andato avanti per anni. In trent’anni di lavoro abbiamo fatto tantissimi concerti: nei primi tempi erano molto umili, modesti, ma anche emozionanti e toccanti per il pubblico, che aveva già allora con noi una relazione meravigliosa. Questo è ciò che vogliamo fare passare. Per esempio ho visto anni e anni fa The Fureys dal vivo e ancora ricordo quel concerto, perché è stato davvero emozionante: erano musicisti straordinari con un legame emotivo straordinario con il loro pubblico. Mi sono commossa. Quando vai a un grande concerto, non te lo dimentichi. Penso che tanti di quelli che sono arrivati a conoscerci l’hanno fatto tramite un passaparola, da amici che gli suggerivano di vederci o di ascoltarci. Anche perché abbiamo sempre fatto pochissima promozione: anzi, penso che ne stiamo facendo di più per quest’album che per tutti i trent’anni di carriera passata (ride), davvero!

In un’intervista, Lisa, hai parlato del concetto di responsibilità dell’artista: ce lo spieghi e ci dici anche come si fa a riconoscere un artista, visto l’abuso continuo di questa parola?
LG:
Credo che la maniera migliore di spiegarlo sia “non fare niente che non ami”. È semplice: se ami qualcosa, basta, ecco la sincerità e la responsabilità del e nel lavoro. Quando uno comincia a fare qualcosa verso la quale non ha un legame intrinseco, quando non si è mossi da qualcosa dentro, che senso ha? Come artista, la responsabilità è quella di reagire alla realtà in maniera tale da mostrare in maniera passionale ciò che ti spinge a fare questo lavoro.
BP: Dal mio punto di vista ci dev’essere una dedizione all’immaginazione, al fine di portare in evidenza all’altro ciò che vede realmente, o che percepisce nella mente, o che ascolta. È un prodotto delle arti immaginative, direi. È quello che cerchiamo di fare, nel senso che proviamo a trasmettere un’ambientazione… Ti faccio un esempio. Quando ero giovane ero solito leggere molto: andavo in biblioteca, già da quando avevo sei o sette anni, e amavo aggirarmi nella sezione relativa a miti, leggende e fiabe, mitologia della Grecia antica… E non leggevo altro: portavo i miei quattro libri a casa, li leggevo durante la settimana per tornare a prenderne altri il sabato seguente. Oppure andavo al British Museum a vedere mostre sull’antica Grecia, Roma, sui Fenici… Ero infatuato… Era come avere trovato la cultura perduta di Atlantide e non capire come fosse connessa alla società moderna. Mi affascinava, questa cosa. Dovevano essere esistite, perché erano reali, tangibili, ci sono gli artefatti… Per me la musica è un ponte sul vuoto dell’immaginazione: serve a rievocare l’odore, il gusto, l’ambientazione…
LG: Il mondo, il mondo dell’immaginazione in cui entri…
BP: Che sia anche un mondo di fantasia… Mi attrae la musica del vicino, medio e lontano Oriente. La stessa parola “fantasia” ha origini arabe, credo che derivi da Le mille e una notte. È un concetto che descrive un fiorire dell’immaginazione… Questo è più o meno ciò che facciamo: se si tolgono le mie parole, la poesia di quello che dico… comunque sono estensioni della musica.

Qui la versione audio. Grazie a Emily Clancy per la revisione della traduzione.

Brian di Liverpool

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Di fronte a quello che può sembrare l’ennesimo libro sui Beatles, è più che legittimo domandarsi che bisogno ci sia anche di Una cantina piena di rumore, l’autobiografia di Brian Epstein pubblicata in questi giorni da Arcana. Innanzitutto è bene precisare che qui non si parla solo dei quattro di Liverpool: i Beatles, infatti, sono di certo il gruppo più famoso tra quelli gestiti da Epstein, ma non l’unico. Diverse pagine sono dedicate alle altre band che il giovane uomo d’affari di origini ebraiche aveva a libro paga: da Derek and the Dominos a Cilla Black, l’unica che compete con i Fab Four in quanto ad affetto dimostrato nel libro. Ma c’è forse un motivo più importante per leggere Una cantina…: in esso il clima dell’epoca è colto secondo una prospettiva diversa da quella solitamente analizzata in tanti altri titoli; si parla (e non potrebbe essere altrimenti) di music-business, un settore commerciale giovanissimo, così come erano giovani i soggetti che lo animavano ai tempi. Nel 1964, l’anno in cui il libro è stato pubblicato per la prima volta nel Regno Unito, i Beatles avevano tra i 21 e i 24 anni, Epstein 30, George Martin meno di 40 e Derek Taylor (il ghost writer del volume, nonché ufficio stampa dei Beatles) 32. Si percepisce, riga dopo riga, l’entusiasmo e la riconoscenza di Epstein per quello che gli sta succedendo: si rende conto che il mondo sta cambiando anche grazie a quei musicisti, ma (per quanto è chiaro che un’autobiografia non sia per forza veritiera anche quando è scritta senza altre persone) rimangono ben saldi alcuni principi che provengono dai decenni precedenti, dalla ricca famiglia a cui Brian apparteneva, da un mondo che aveva dei parametri rigidi (tavolta troppo) e una sua moralità anche negli affari. Un mondo che vedeva in quegli anni la sua fine, non senza timore.

Spesso Epstein “valuta” il suo lavoro e la sua condotta, contrapponendoli ai primi segnali di pan-spettacolarizzazione della società che verranno propriamente analizzati criticamente solo negli anni seguenti, dalla fine del decennio. Racconta di offerte rifiutate, di come le richieste di cachet non venissero gonfiate dopo la firma degli accordi, per quanto le “azioni” di molti musicisti (Beatles in testa) aumentassero di valore settimana dopo settimana. Parla apertamente della fauna musicale: band, certo, ma anche discografici, giornalisti, dj. Non fa finta di disconoscere la beatlemania, anzi: la ritiene però uno dei fattori con cui lui e i “ragazzi” devono fare i conti, ben conscio che fama e ricchezza portano a costrizioni della libertà personale.
E di personale, appunto, nel libro cosa c’è? Di certo il modo tenerissimo con cui Brian guarda George, Paul, John e Ringo: cerca di essere distaccato, ma alla fine non resiste e spesso dichiara apertamente l’affetto che prova per loro. Un affetto su cui si è ricamato tantissimo: la questione dell’orientamento sessuale di Epstein è stata menzionata più volte, spesso in maniera del tutto pretestuosa, ma nel libro non ve n’è traccia, o quasi. Risulta infatti curioso come spesso il narratore “classifichi” alcuni dei personaggi menzionati facendo riferimento (brevissimamente, quasi in un soffio) alla loro avvenenza: un accenno, qualche parola, niente di più; eppure è una caratteristica che si nota. È facile capire il perché di questo velo se torniamo all’anno di pubblicazione del libro, il 1964. Se da un lato i Beatles hanno conquistato Gran Bretagna, Europa e Stati Uniti, contribuendo a portare nel mondo un’aria nuova e per certi versi rivoluzionaria, i Paesi e le nazioni sono ben più difficili da cambiare davvero, nel loro complesso, anche quando molte teste di chi li popolano sono coperte da capelli sempre più lunghi e piene di idee sempre meno affini a quelle del passato. Nel 1964, per dire, secondo l’ordinamento britannico è illegale essere omosessuali. Già la sessualità è vissuta in maniera assai particolare dai sudditi della Regina, figuriamoci “l’andare contro natura”. Epstein, come molti altri, ovunque, si trova in una condizione di estrema difficoltà, ma sappiamo che la cerchia più stretta di amici era a conoscenza della sua omosessualità, Beatles compresi: per quanto fossero dei postadolescenti cazzoni di una città portuale della provincia britannica, quando firmarono il contratto con Epstein, nel gennaio del 1962, sapevano, ma hanno sempre dichiarato che non gliene importava nulla. Quello che contava, tra Epstein e i suoi musicisti, i suoi colleghi, era l’onestà e l’etica del lavoro: anche questo fa parte dei tanti ingredienti magici che hanno creato quel fenomeno musicale, sociale e culturale che in dieci anni ha rivoluzionato il mondo.

Ci si chiede sempre cosa sarebbe successo se Epstein non fosse morto, nell’agosto del 1967 (pochi mesi dopo l’omosessualità sarà depenalizzata nel Regno Unito…). Avrebbe spinto i ragazzi a continuare a fare dei tour? Avremmo così avuto le sperimentazioni da studio dei mesi successivi? Sarebbe stato ancora un collante forte, quasi familiare, tra i quattro, al punto da impedirne lo scioglimento? Non lo sappiamo. Leggendo però Una cantina piena di rumore si comprende come il ruolo di Brian Epstein sia stato spesso sottovalutato, nel leggere ciò che accadde alla musica negli anni ’60. Partendo da una piccola impresa familiare di provincia quest’uomo arrivò (grazie a un’intelligenza e un gusto sopraffini e a un fiuto infallibile) a Londra, alla televisione americana, sconvolgendo le classifiche di vendita (così presenti nel libro da segnare una cesura evidente con il nostro mondo musicale), arrivando a cambiare il modo di vivere di noi tutti. E, soprattutto, raggiungendo questi obiettivi con onestà, semplicità e un commovente, inguaribile ottimismo.

Suppongo che potrei essere enormemente ricco, ma non capisco che me ne verrebbe di buono. Vivo bene, spendo tanto e compro tutto ciò che voglio, ma l’ho sempre fatto e se domani dovessi smettere di guadagnare, potrei facilmente ridimensionare il mio tenore di vita e avere ancora una vita agiata. È vero, adoro mangiare e bere al Caprice di Londra, tanto per fare un esempio, ma mi sento contento anche in un piccolo ristorante di periferia.
Se è vero che ho socializzato con persone grandi e famose, preferisco ancora un tranquillo pomeriggio con George Martin e sua moglie Judy, a cercare di vincere qualche bigliettone alle corse di Lingfield Park. E più di tutto, al di là di quello che mi può comprare il denaro, adoro appoggiare i miei gomiti alle transenne del backstage e guardare il sipario che si alza su John, Paul, George e Ringo, su Gerry, Billy, Tommy e Michael, o su quel meraviglioso uccellino che è la figlia di uno scaricatore del porto di Liverpool, battezzata Priscilla Maria Veronica White, la quale ha stupito il mondo come Cilla Black.
Domani?
Credo che domani splenderà il sole.

Brian Epstein, Una cantina piena di rumore, Arcana edizioni, Roma 2013, pp. 161-162, traduzione di Rosario Rox Bersanelli

Dell’accettazione della vita: intervista a John Grant su Pale Green Ghosts

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“Buongiorno, Francesco”, mi dice John Grant al telefono, lunedì scorso. Mi saluta in italiano, perfetto nell’accento, e sarei tentato di sapere se ha deciso di includere anche la nostra lingua tra quelle che già padroneggia (sono almeno cinque o sei). Ma proseguiamo la telefonata in inglese. Pale Green Ghosts, il secondo album solista del musicista, dopo l’esperienza con gli Czars, viene pubblicato il giorno dopo (martedì) ed è uno dei dischi più attesi di questo inizio 2013. La prima traccia, quella che dà il titolo al lavoro, ha disatteso ogni aspettativa: i battiti di Biggi Veira (degli islandesi Gus Gus) pulsano contro il ricordo delle armonie e degli arrangiamenti dei Midlake, che avevano accompagnato le canzoni di Queen of Denmark, uscito nel 2010. Dopo i primi ascolti dell’album, però, mi tornano in mente due cose che John mi aveva detto alla fine del 2011, nel camerino del Covo. La prima è che il disco successivo a Queen of Denmark sarebbe stato autobiografico e con molta più rabbia, ironia e “vaffanculo”. La seconda: tra i dischi dell’isola deserta scelti da Grant in quel pomeriggio del novembre di due anni fa c’erano Stella degli Yello, Touch degli Eurythmics, Voulez-Vous degli Abba e The Man Machine dei Kraftwerk. Gli ricordo queste sue affermazioni ed esclamo “Ora tutto mi è chiaro”. Lui ride, in quel modo sincero e profondo che comparirà un altro paio di volte nella ventina di minuti passata insieme al telefono. Iniziamo quella che, come sempre con Grant, non è una semplice intervista, ma una specie di chiacchierata intima, quasi confessionale.

Hai usato l’ironia in Pale Green Ghosts per stemperare la rabbia così presente nel disco o è qualcosa che avresti usato comunque?
No, lo faccio sempre, nella vita di tutti i giorni: penso sia naturale per me usare l’ironia anche nelle canzoni. Non si possono prendere le cose troppo seriamente, altrimenti è impossibile godersi la vita. In ogni caso, lo humour nero è una parte molto importante della mia personalità: è sempre stato, o almeno è stato in parte, un forte meccanismo di difesa per me. Credo sia proprio il modo che ho di affrontare le cose.

Hai scelto due pezzi molto elettronici, la title track e “Black Belt”, come anteprime del disco: questo perché volevi mettere una distanza netta tra l’ultimo e Queen of Denmark?
Sì, in un certo senso… Diciamo che sono le canzoni che meglio definiscono il tono del disco, non solo dal punto di vista musicale, ma anche tematico. In particolare “Pale Green Ghosts” è quella che rappresenta meglio l’album anche per quanto riguarda i testi: parla della mia adolescenza. Queen of Denmark riguardava la mia infanzia, negli anni ’70; questo disco invece ha più a che fare con l’adolescenza e gli anni ’80. Ho scelto quelle canzoni perché per me sono più rappresentative della altre, ma sono comunque molto fiero di “Pale Green Ghosts” perché è come annunciare che si tratta di un disco che non è lo stesso, che non è quello che avete sentito la volta scorsa. Ne sono orgoglioso, volevo esporla, come quando si mette qualcosa di fronte alla finestra, o in vista, in modo tale che chiunque venga a trovarti la possa vedere. Una cosa così.

Il tuo approccio nel comporre i nuovi pezzi è stato diverso?
Sì, qualche volta. Per qualche brano ho fatto dei demo con Reason, sul mio computer, e con qualche altro programma elettronico. Non le ho scritte tutte al pianoforte, come ero solito fare, come è stato con i brani di Queen of Denmark. Sì, il processo è stato diverso: registravo i demo al computer, poi andavamo in studio ad ascoltarli e quindi Biggi cercava i suoni sui suoi strumenti; il responsabile della maggior parte dell’elettronica è lui, ma anche io ho programmato qualcosa.

La rabbia che si sente nelle tracce è spesso rivolta a un uomo, o forse a più uomini: sono quelli i fantasmi verde pallido di cui parli nella prima canzone? “Pale Green Ghosts” è il brano più evocativo, meno diretto, del disco.
No, i fantasmi verde pallido rappresentano qualcosa di positivo. Credo sia una metafora, intendo dal punto di vista figurativo, per cui si può dire che io stia anche parlando di fantasmi, ma in realtà in “Pale Green Ghosts” racconto di Denver e di come attraversavo la città sulla Interstate 25, guidando verso Boulder. Gran parte della rabbia del disco è rivolta verso una persona specifica o me stesso, ma i fantasmi verde pallido della canzone sono in realtà degli alberi ai lati della strada che percorrevo su e giù tutto il tempo. Anche allora era un periodo caotico, ma ci sono stati alcuni momenti di assoluta bellezza nell’adolescenza. Ecco, in “Pale Green Ghosts” io racconto uno di quei momenti: il guidare  lungo l’autostrada, con l’aria tiepida tra i capelli, ascoltando il rumore dell’oceano alla radio. Sì, perché c’era questa stazione che talvolta trasmetteva delle cose per una settimana intera, come suoni dell’oceano.  Comunque, i fantasmi sono degli alberi: in inglese si chiamano “olivo russo” [in italiano oleastri, ndr] e alla fine di maggio fanno dei piccoli fiori gialli che profumano in maniera incredibile, puoi sentirne la fragranza nell’aria. Insomma, ho cercato di fermare un momento, un momento felice della mia adolescenza: sembra una cosa semplice, ma è stato un periodo molto caotico.

Che mi dici del video? Oltre a recitarvi, hai partecipato alla sua ideazione?
Il video non rappresenta molto la canzone. Il regista ha scritto la sceneggiatura e io, niente, mi sono presentato sul set e ho fatto quello che mi dicevano di fare. Non so se capisci…

Sì, certo, le atmosfere del video e della canzone, per come l’hai raccontata, sono un bel po’ diverse!
Esatto! Ecco, non c’entra molto con la canzone… Il che, insomma, è una cosa un po’ disgraziata.

I film sono sempre presenti nelle tue canzoni: a questo proposito troviamo, tra le altre cose, un bel cambiamento in uno dei nuovi brani. Si va dal “qualche volta mi sento Sigourney Weaver” dell’album precedente a “cosa farebbe Ernest Borgnine” di Pale Green Ghosts: una bella differenza! Ma sono curioso di questa costante del “se fossi in un film”, che si ritrova nei due dischi…
I film sono una parte grande, molto grande della mia vita. Sono un grande fan di Woody Allen e mi piace parlare di cinema. Sono anche un fan di Ernest Borgnine e ho avuto l’occasione di incontrarlo una volta a New York, quattro, ormai cinque anni fa. Aveva appena compiuto 91 anni. Adoro parlare di film con la gente, è una delle cose che preferisco, è fonte di enorme piacere per me. Quindi il cinema deve fare parte anche della mia musica, perché fa molto parte della mia vita.

Come hai detto prima, oltre a un tu “altro” generico o specifico, spesso sei tu stesso il bersaglio della tua rabbia: sembra che lotti prima di tutto per venire a patti con la tua persona, con i tuoi errori, con il tuo dolore. Com’è mettere tutto questo in musica in maniera così diretta?
Farlo è molto importante per me. Passo molto tempo cercando di evitarmi, di scappare dai problemi e da me stesso, rifugiandomi nei film, nell’alcol, nella droga, nel sesso, eccetera. Cerco insomma di non affrontarmi. Quindi penso che per me sia decisivo affrontare di petto anche le piccole cose, in maniera netta e sincera. Non so, credo che mi aiuti. Per me buona parte dei sentimenti sta nella comprensione e il punto è che non capisco davvero bene cosa mi sia successo perché sia diventato quello che sono. Provo a capirlo, lo vorrei sul serio, ma spesso davvero non colgo quale sia la cosa giusta e quella sbagliata da fare. Tuttavia, alla fine di una giornata spesa a fare musica, non penso che ci sia il giusto e lo sbagliato. O quanto meno so che mi sono attenuto alla verità della situazione, di quello che sto facendo, capisci?

Sì, certo. Una famosa citazione di Keats dice che la bellezza è verità e che la verità è bellezza. Secondo te è così?
Non so dirti della bellezza, perché parlo molto anche di cose brutte. Ma direi che la vita è verità. Che la verità è vita.

Non pensi che comunque rappresentare artisticamente, diciamo, la bruttezza, magari parlandone in una canzone, sia un forma di bellezza? Lo so, è una banalità, ma si può parlare di una bella bruttezza, quando questa è rappresentata in una buona poesia o canzone…
Sì, credo che le persone siano affascinate dalla bruttezza, ma che in realtà non vogliano avere a che farci tutti i giorni. Insomma, è come se nella vita quotidiana le persone non vogliano considerare le cose brutte, ma quando le trovano nell’arte, nelle canzoni o nei film ne subiscono il fascino. Le guardano, ma non vogliono affrontarle nella normalità. Le trovano affascinanti, o meglio, le troviamo affascinanti quando sono poste a una certa distanza, quando hanno a che fare con qualcun altro o quando non le affrontiamo davvero ogni giorno. Credo che sia bellissimo riuscire a esprimere la verità di una situazione nella tua lingua, ma d’altro canto credo che sia difficilissimo: la verità non è affatto una cosa semplice da trovare, perché ha una prospettiva diversa sulle cose, un modo di guardarle differente.

Torniamo all’intervista di un po’ meno di due anni fa: mi hai detto che, dopo qualche tempo, sei riuscito a capire chi sei, almeno un po’ più di prima. Come ti senti ora, con un nuovo disco, la solita giostra di concerti, obblighi promozionali e stanze d’albergo? Come affronti nuovamente questa vita di vagabondaggi? Hai trovato un posto dove tenere tutti i tuoi libri e riposare?
Oh, sì, ormai vivo a Reykjavík, in Islanda, da più di un anno, ma i miei libri sono tuttora sparsi ovunque. Non sono riuscito a tornare in Texas per prenderli, non ce l’ho fatta a recuperare altri libri che ho a Denver, e ne sono rimasti un po’ in Svezia e a Berlino… Ora ho un posto dove tenerli e devo solo portarli là. (ride)

Ti voglio chiedere qualcosa a proposito di un’apparente contraddizione che puoi aiutarmi a capire meglio. Penso che la disciplina sia una delle qualità necessarie per fare musica, scrivere e registrare un disco. D’altro canto una delle cause di caduta e ricaduta nelle dipendenze è la mancanza di disciplina. Come si è combinato tutto questo in te?
Non penso di avere mai avuto tutta questa disciplina… Quando usavo droghe e bevevo molto non ne avevo proprio e questo era parte del problema. Ma in agosto è nove anni che sono sobrio. Ho realizzato Queen of Denmark da sobrio, e lo stesso vale per quest’ultimo disco. Ecco il punto: per me è molto facile essere disciplinato quando sto lontano da certe cose, perché se no prendo il largo. In realtà è complicato avere disciplina anche quando non ti droghi e non bevi, o almeno, per me è così: non sono mai stato tanto disciplinato, non ho mai imparato molto sull’argomento. Quindi combatto ogni giorno per esserlo, è una specie di lotta quotidiana che però permette di darti una certa struttura. Ho lavorato con Biggi in Islanda e lui ha una famiglia, tre figli e una moglie: quindi dovevamo iniziare alle nove o dieci del mattino, per andare avanti fino alle cinque, sei del pomeriggio. Un po’ come diceva Nick Cave: si va in ufficio ogni giorno. Per uno come me questo è buono. Da quando sono sobrio, inoltre, sono riuscito ad avere una sorta di etica lavorativa. L’anno scorso in Islanda avrei potuto fare un sacco di cose: mi hanno invitato a unirmi a viaggi, ad andare in altri posti, nelle case estive di certa gente, anche di fare delle gite in autostop, ma non ho fatto nulla di ciò, perché sapevo che avevo bisogno di rimanere concentrato sul disco. Mi sa che invecchiando sto diventando più disciplinato, o almeno riesco a obbligarmi ad esserlo quando ne ho bisogno.

L’ultima traccia del disco, “Glacier”, mi ha molto colpito: l’hai messa alla fine dell’album e sono rimasto a interrogarmi se quella del ghiacciaio che scava e distrugge la terra nutrendola al tempo stesso sia soltanto un pensiero, un’immagine in sé, o se fosse un modo per concludere positivamente il disco.
Ho scelto di metterla alla fine perché credo sia una canzone molto potente, così come la metafora che ci sta sotto: il dolore è qualcosa che ti trasforma così come il ghiacciaio cambia il territorio che attraversa, scavando, come dico nella canzone, “nuove vallate e spettacolari paesaggi”. Sì, è una specie di lieto finale: tutte le cose brutte che ti accadono possono essere usate in maniera buona nella vita, o almeno… Qualunque cosa si può prendere anche dall’altro verso e lasciare che ti distrugga, ma il disco gira interamente intorno al concetto di accettazione. Accettare la vita vuol dire anche accoglierne tutto il dolore, i momenti difficili e anche tutti i momenti in cui si compiono degli errori dei quali poi bisogna pagare le conseguenze: ma comunque la vita può essere bella e se ne può godere, imparare a viverla, a trarre piacere da ogni singolo giorno, anche se prima non lo sapevi fare. Diciamo che è un messaggio positivo dopo un disco particolarmente scuro.

Rimaniamo ancora un po’ a parlare di cinema e ci diamo appuntamento a Milano, per il concerto dell’11 aprile. Quando chiudo la telefonata penso che non abbiamo minimamente accennato all’ennesimo trauma della vita di Grant, che ha scoperto di essere sieropositivo proprio quando stava per mettersi al lavoro su Pale Green Ghosts: ma non serve. L’ultima risposta, così come l’ultima canzone del disco, sono sufficienti per comprendere la grandezza dell’uomo e del musicista. E capisco cosa mi ricorderò sempre di quest’intervista.

L’intervista audio è ascoltabile sul sito di Maps.

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