I Me Mine

Sapere elettronico

Credo che tutti i negozi che vendono materiale elettronico, quei posti in via d’estinzione in cui si può comprare dallo stereo alla presa tedesca, dalla videocassetta al televisore al plasma, abbiano qualcosa in comune. Più precisamente credo che chi gestisce questi negozi sia un tipo ben definibile.

A Gorizia, da ragazzino, frequentavo un posto del genere, vicino casa. Mentre io andavo lì per comprare caterve di musicassette vergini, altri clienti trattavano su testine al platino, termostabilizzatori ionici e raggi laser. Era un negozio che, nel magazzino, aveva probabilmente tutti i pezzi per costruire uno Shuttle, a saperli montare.
Il gestore di questo negozio si chiamava Furio, e lo era di nome e di fatto. Perdeva la pazienza se uno esitava nella scelta, gli metteva le mani alla gola se osava dubitare della qualità della sua merce o del prezzo che aveva. Capite bene che Furio mi faceva aspettare ore, dall’altra parte del bancone, quella vicina alle cassette, per darmi cinque Sony HF da 60, mentre lui si intratteneva mostrando componenti che, per quanto mi riguarda, potevano andare bene in una lavatrice o in un reattore nucleare. Capite bene quanto poco potessi soddisfare l’incazzoso (questo era uno dei soprannomi di Furio), chiedendogli semplicemente di aderire alla sua personalità di negoziante (chiedo, ottengo, pago), cosa che, giustamente, fa andare in bestia chiunque, soprattutto se ha un negozio. La situazione migliorò leggermente quando passai dalle semplice HF alle musicassette con nastro al cromo e guida in ceramica, ma lui si stufò presto comunque, appena prima di quando finirono i miei risparmi, accumulati a suon di paghette.

Ho trovato un negozio del genere a Bologna, in centro, a pochi passi da casa. È un posto piccolo e stipatissimo di cose, compresi i genitori del gestore, piazzati perennemente su due sedie, ai due lati di un espositore, che credo in origine fosse rotante, ma che immagino l’ultimo scampolo di buon cuore del negoziante abbia fermato, per non rendere troppo aspro il contrasto con i suoi vecchi.
Caratteristica del gestore è che possono esserci cinquecento clienti in attesa, lui comunque vorrà finire la spiegazione dettagliata delle caratteristiche tecniche dell’oggetto che sta vendendo, e che venderà sicuramente, prendendo per sfinimento l’acquirente con dettagli che annoierebbero anche chi, l’oggetto, l’ha progettato.
Ogni volta che entro in quel negozio, quindi, vengo preso da sentimenti contrastanti: da un lato l’ansia di rischiare di perdere un’ora della mia vita assistendo ad una lezione della Scuola Radio Elettra, dall’altro con la consapevolezza che il tipo ne sa, i prezzi sono buoni, e quindi ogni volta potrebbe scapparci la dritta o l’affare.

Una volta ci sono entrato, con fare baldanzoso, sicuro di me, e ho detto: “Vorrei una spazzolina in fibra di carbonio per pulire i vinili.” (Anni di attesa dall’incazzoso mi hanno formato, almeno un po’.) Il gestore è rimasto un po’ spiazzato, mi ha preso la spazzolina, e lì ho commesso un errore gravissimo: ho chiesto quanto costasse. Assurdo. Il vero compratore professionista chiede e paga. Il prezzo, in un negozio, è un dettaglio marginale. “Nove e novanta”, mi ha detto, con un’espressione che significava qualcosa come “Ti rendi conto? Te la do a nove e novanta! No, se vuoi discutere di questo prezzo, fai pure, eh, voglio proprio vedere se la trovi a meno.” Ho ovviamente pagato senza batter ciglio, ho fatto per uscire, quando il negoziante mi ha chiamato. “Sai come si usa?”, mi ha chiesto. Ora, voi che faccia avreste fatto? Ecco, proprio quella, quella che indica un momento di smarrimento tale che dubitereste anche del vostro nome di battesimo. Al che lui, pietosamente, mi ha dato il prezioso consiglio di non toccare le setole (di carbonio) con le dita, se no si ungono. E io che pensavo di dare alla spazzolina una ripassata in padella, per migliorarne le qualità.

Ultimamente, invece, ci sono andato per comprare dei cd e dvd vergini. Ovviamente ho sbagliato ancora, insistendo stupidamente per sapere il prezzo della merce. Ma questo non ha semplicemente fatto scaturire la solita espressione di sfida e pietà al tempo stesso. Coadiuvato da un’altra cliente, sicuramente una complice, il negoziante mi ha iniziato a fare un discorso sulla “politica dei prezzi in Italia” (sic). La sua conclusione è stata semplice: in Italia i prezzi sono falsi (arisic). Ma esiste un modo per uscire da questa sorta di Matrix del commercio, il gestore del negozio di elettronica me l’ha detto, e io voglio condividere le sue parole. “Sai come faccio io? Vado a fare la spesa in Germania: perdo una giornata, ma risparmio anche cinquecento euro.”
Quindi, donne e uomini che mi leggete, se il vostro partner o la vostra partner esce di casa dicendo “Vado a comprare le sigarette” e poi non si fa vedere per ore, state tranquilli: non siete capitati in una brutta situazione da film. Accendete Isoradio: sicuramente ci sono code sul Brennero, in entrambi i sensi di marcia.

Neighbooks

E così, dopo varie peripezie, ho una nuova libreria. Un evento. Non tanto per la fatica che ci è voluta per metterla insieme (nonostante il gentile pubblico richieda con tale forza nuovi episodi della Ikea Experience che sarebbe disposto a pagarmi la navetta per mandarmici, non posso fare di questo blog un continuo match tra me e il colosso svedese, ma fidatevi: ci sono andato spesso, negli ultimi tempi, anche solo per comprare delle viti mancanti), quanto perché per la prima volta dopo dieci anni ho praticamente tutti i miei libri con me.
Avendo sognato questa cosa, e avendoci smadonnato sopra a lungo, ho pensato a tante cose: a che libreria comprare, a dove metterla, ma soprattutto a come ordinare i libri.
Nel mio mondo ideale e malato, seguirei l’ordine alfabetico per autore che seguo per cd e dvd (e lo so, ridete, ridete), ma per questioni di spazio è assai poco pratico. Le mie libraie preferite mi hanno caldamente suggerito che il modo migliore per sfruttare lo spazio è raggruppare i libri per formato e, quindi, per editore. Ovviamente la sistemazione è ideale, nel senso che poi le dimensioni fisiche degli scaffali mandano a quel paese ogni proposito. Ma per un po’ ci sono riuscito, creando – come effetto collaterale – delle strane vicinanze.

Partiamo dall’alto: i libri di grande formato sono insieme. Ecco quindi che Vini d’Italia 2006 dialoga da vicino con il mio libro di storia del liceo, che è tentato alla sua destra dalla Guida per l’uomo di Men’s Health – un simpatico regalo di compleanno che di per sè è un incitamento alla violenza sessuale. Più in là ci sarebbe il Dizionario storico del lessico erotico italiano, un volume interessante, ma purtroppo la Guida non sa leggere.

Lo scaffale immediatamente sotto è dedicato all’opera quasi omnia di David Lodge e da quella omnia di Bret Easton Ellis. “Ottimo lavoro, squartatore!”

A destra di Ellis, Dick. Tranquilli, sono separati, almeno nella realtà della mia camera. Poi qualche Rizzoli, qualche Baldini e Castoldi, qualche DeLillo, Morozzi quanto basta, e un trio fantastico: Gifford, Tondelli, Bollani.

Un paio di scaffali più in giù, uno degli accostamenti di cui sono più orgoglioso: Il barone rampante, ultimo esponente di una serie di Calvino, fa cheek-to-cheek con gli Scritti corsari di Pasolini. Se ne diranno un sacco, di cose. A fianco l’unico libro di Culicchia che posseggo ascolta e – speriamo – impara. Immediatamente a destra, schierati come soldati, gli Einaudi. Martin Amis, in prima edizione, guarda gli Stile Libero e i nuovi formati della casa torinese come un anziano maggiordomo guarderebbe un b-boy. Oppure:

Gli Stile Libero son allineati
gialli e diritti come soldati.
Alla loro sinistra un vecchio inglese
freddo, crudele, eppure cortese
dice loro: “Ragazzi screanzati,
urlate parole coi pantaloni calati”

(Scusate, è che là vicino c’è Esercizi di stile di Quenau, non resisto).

Appena sotto, un altro esercito, quello dei minimum fax: sono talmente belli e fighetti che ti viene voglia di chiedere loro un drink. Sapendo, peraltro, che avrà un nome stranissimo e lo pagherai un botto.

E poi ancora i Mondadori, i classici, ma anche i tascabili, con il Seminario sulla gioventù di Busi attaccato a Sulla strada di Kerouac (accostamento del tutto involontario, ma greve). E lo scaffale degli orrori, da Dracula (in un’edizione Longanesi di cui vado fierissimo) a Stephen King. In mezzo a mostri, vampiri e licantropi, ll decamerone di Boccaccio, che si crede vittima di uno scherzo crudele, presumo.

In fondo, i fumetti: ecco, secondo me là, al piano terra, si divertono un casino. A tenere le fila, potete immaginarvi, ci sono i personaggi di Andrea Pazienza, tentatissimi di strappare le pagine degli spartiti alla loro sinistra: per evitare danni li fornirò di cartine.

Mi sa che dico sempre le stesse cose

Non per altro, ma perché l’immagine qua sopra, gentilmente elaborata e donatami da Vito Hi-NRG Mc per l’altro blog, e che immagino possiate usare liberamente, però dicendo che è opera di Vito Hi-NRG Mc, sintetizza il mio ultimo post e il primo in assoluto che ho scritto.
Che uomo palloso. Io, eh, mica Vito Hi-NRG Mc.

Di |2007-01-23T21:46:00+01:0023 Gennaio 2007|Categorie: I Me Mine, The Word|Tag: , , |5 Commenti

Conti

C’è chi vede questo giorno come l’ultimo di qualcosa – giorno di bilanci, quindi. Altri preferiscono pensare a domani, il primo giorno di qualcos’altro – giorno di propositi, progetti, ricominciamenti (si dirà?).

Io invece penso solo con ansia a un momento tra qualche ora. Penso al conto alla rovescia per la mezzanotte. Ecco, quei quindici-venti secondi (che possono arrivare a quaranta-cinquanta nei momenti di particolare sadismo) sono per me un momento tremendo. Un tempo c’era la televisione accesa, per dire “menodieci” insieme al presentatore di turno (anche se questo era mascherato da scuse come “E vabbè, mica vorrai festeggiare la mezzanotte quando non è mezzanotte?”). Poi c’è stato il momento in cui uno prendeva l’iniziativa, diventava l’ora di riferimento e iniziava il conto, con lo stesso piglio con cui si iniziano ad urlare gli slogan nelle manifestazioni di piazza.
Ultimamente, invece, si va completamente a cazzo, ed è bellissimo. Tutti sono persi o comunque già non perfettamente sobri prima della mezzanotte, e quindi qualche minuto prima dell’ora fatidica partono conti alla rovescia a caso, fermati da cori di “Ma no!” e poi ripresi. Chissà che succederà stasera. Comunque, visto che starò a casa mia, vieterò la televisione e servirò parecchio da bere, tanto per ricreare le condizioni di casino a me propizie.

A voi tutti un buon inizio di 2007. Vogliatevi bene, sul serio. E mica solo oggi o domani.

Di |2006-12-31T16:35:00+01:0031 Dicembre 2006|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , |15 Commenti

Decontextualising is not a crime: parole sparse di un fine settimana natalizio a nordest

22.12.06
“Questo pelinkovec ha un gusto internazionale.”

23.12.06
“In fondo fare i dj adesso non è così difficile: non devi mica usare i dischi. È un po’ la stessa differenza che c’è tra la fotografia analogica e quella digitale.”

24.12.06
“Basta, il prossimo anno non festeggio più il Natale, non mangio, niente.”

25.12.06
“Io le ragazze slovene le brucerei. Entrano nel mio negozio e non salutano e parlano tra loro in sloveno.”

26.12.06
“D’un tratto, come si dice, tra il rusco e il brusco.

Di |2006-12-27T17:11:00+01:0027 Dicembre 2006|Categorie: I Me Mine, I've Just Seen A Face, There's A Place|Tag: , , |6 Commenti

Dieci anni e un mese circa

Un post come questo che si rinvia, si rinvia e si rinvia ancora, ha una caratteristica: il suo titolo si allunga e cambia, se uno volesse essere preciso, ogni istante.
Se l’avessi scritto un paio di settimane fa, sarebbe stato “Dieci anni”, e forse per correttezza avrei dovuto aggiungere “più o meno”. Già, perché non ricordo esattamente quando mi sono trasferito a Bologna. Era l’ottobre del 1996, di questo ne sono certo. Potrei risalire alla prima lezione all’università, ma in fondo sono passati quattro anni (meno un mese circa) da quando mi sono laureato: l’università è finita, la mia permanenza a Bologna, no.
Non ricordo bene quel mese, perché è stato difficile, difficilissimo, ed esaltante allo stesso tempo. Avrei vissuto e fatto l’università a Bologna, che ai miei occhi era un po’ come fare l’università a Disneyland, senza avere però pupazzi enormi come docenti: poi ho avuto di fronte solo pupazzi normali, per la maggior parte.
Abbandonavo la cittadina del nordest senza rimorso alcuno, a parte quello di allontanarmi dalla mia ragazza di allora: lei si era fermata a Venezia, io avevo esagerato di un altro paio di centinaia di chilometri, ed ecco, ero a Bologna.
Quell’ottobre di dieci anni fa mi ha visto conoscere i primi di una decina abbondante di coinquilini che avrei avuto. Mi ha visto stare ore al telefono, e segnare poi gli scatti su un quadernino: un gesto che adesso sembra assurdo, ma allora era – o meglio: avrebbe dovuto essere – l’ultimo vero atto della chiamata. E sulla carta il numero degli scatti era proporzionale all’intensità della telefonata: tanti scatti significavano comunque qualcosa di forte: un litigio o una serie infinita di “mi manchi” declinati in ogni modo.  E talvolta ho pensato che, sommando quei numeri, avrei ottenuto qualcos’altro oltre alla cifra da pagare a fine mese.
In quell’ottobre di dieci anni fa giravo per Bologna perdendomi, ritrovandomi, iniziando a conoscere delle persone che mi accompagnano tutt’ora.
Una sera, tornando a casa dall’università, uno dei primi giorni di lezione, guardai il cielo, da via Rizzoli, verso le torri, e pensai a quanto era bello, a quanto era bella questa città. E a me in mezzo a tutto questo.

Adesso, dieci anni dopo, Bologna è diventata il luogo dove vivo, mangio, lavoro, abito. Ma ogni tanto, per fortuna, continuo a guardare il cielo e a perdermi.

Di |2006-10-31T21:34:00+01:0031 Ottobre 2006|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |10 Commenti

Agosto(s)

Sono passati, dunque, tre anni, da quell’agosto fatto di Bacardi Breezer, caldo e zanzare tigre. Se ci penso adesso, al momento in cui ho aperto il blog, non ricordo nulla, o quasi, a parte quello che c’è scritto in queste pagine. È un bene? È un male? È un così così? Non lo so.

Sono passati, dunque, due anni, da quell’agosto di ansia e dolore, che si è concluso con una telefonata nella notte e i miei occhi che vagavano da un sito internet all’altro, ché tanto parevano sempre gli stessi: cambiava solo la grandezza del titolo e la foto scelta per annunciare la morte di Enzo Baldoni.

È passato un anno dall’ultimo agosto, e mi sembrano quattro anni, o quattrocento. Le pareti intorno a me sono mie, per la prima volta, e diverse, bianche come non lo sono mai state (e leggeteci pure, voi che potete, sapete, volete, tutte le simbologie che vi pare: probabilmente saranno tutte valide). Di quel che c’è dentro di me è impossibile parlare qua: quando mi capita di farlo, devo accoccolarmi  sul divano, e fare come quando, nella casa dei miei, rimettevo a posto la libreria della mia stanza. Buttavo tutto per terra, per poi rimettere tutto a posto, lentamente, magari nello stesso ordine di prima, ma trovando sempre qualcosa di cui mi ero dimenticato l’esistenza, e buttando qualcos’altro.

Quest’anno vado in vacanza il 21 agosto. Anche questo, credo, è significativo. Farò che il mio settembre (mese di cominciamenti da sempre) inizi da lunedì prossimo, con un trucco tanto semplice quanto spudoratamente esplicito. Rilasserò il corpo e la mente, farò sguazzare nel mar di Sardegna le mie braccia, le mie gambe, e le mie parole. Tornerò qui alla fine del mese, con i capelli bagnati e, speriamo, un ritmo placido del respiro.

P.S. Un’ultima cosa: grazie a tutti voi, che leggete da tre anni queste pagine. In fondo queste parole esistono anche perché centinaia di migliaia di paia d’occhi (senza offesa per eventuali lettori ipovedenti, che giustamente si lamenteranno del carattere extrasmall di questo post scriptum) si sono posati su di esse. Grazie, quindi. E a tra un po’.

Di |2006-08-18T17:44:00+02:0018 Agosto 2006|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |13 Commenti

Mondo Bizzarro

Non credo nelle coincidenze, nei segni del destino, non sono superstizioso. Credo di essere un materialista, o almeno così mi ha detto il mio parroco. Però devo dire che negli ultimi tempi sono successe delle cose strane.
La prima serie di coincidenze, di stampo prettamente musicale, è iniziata venerdì scorso, quando ero in macchina con il dottor M., diretti all’isola d’Elba. Non so perché, ma mi è venuta in mente la canzone di Venditti che fa “Autostrade deserte”*, eccetera. E per innervosire l’autista ho cominciato a tradurla in inglese maccheronico. Sapete, quel placido cazzeggio da viaggio. Ovviamente dopo dieci minuti non riuscivamo a togliercela dalla mente.
Il giorno dopo il dottor M. ha deciso di condividere con delle persone appena conosciute la follia, cominciando una perversa versione del “gioco della torre”. Non ha fatto in tempo a chiedere “peggio Venditti o Baglioni”, che la radio del bar dov’eravamo ha suonato una canzone dell’Antonello nazionale. Forse proprio quella, non so. Sorpresa, ma non è finita qua.
Sempre il dottor M., più tardi, è stato preso dalla quasi-voglia** di ballare il trenino: una prospettiva accolta dagli altri del gruppo con tentativi di suicidio all’arma bianca. Comunque, abbiamo iniziato a speculare su Disco Samba, ovverossia il medley di canzoni-da-trenino. Sapete, quel placido cazzeggio da vacanza. Visto che non andavamo oltre “Meu amigo Charlie Brown”, “A E I O U ì-psilon” e “Brigitte Bardot-Bardot”, abbiamo deciso di mandare degli sms a Violetta e al dottor N., che hanno puntualmente colmato le nostre lacune, con il titolo dei due pezzi restanti.***
Il giorno dopo andiamo a comprare del vino per la cena, in un paesino dell’Elba. Incrociamo una prima enoteca, ma andiamo avanti. Entriamo nella seconda e, nel momento stesso in cui varchiamo la soglia del negozio la radio inizia a mandare Disco Samba. La signora dietro il bancone si stupisce del nostro stupore, e noi le spieghiamo delle coincidenze. A quel punto la signora scuote la testa e dice: “Eh, ma questa versione qua non è mica quella dei nostri tempi.” E continua: “Questa è una versione di Gigi D’Alessio, anche le parole di Brigitte Bardot, sì, sono un po’ quelle, ma mica tutte.” Io mi stupisco ancora, e dico alla signora: “Ci hanno veramente preso tutto.” La signora annuisce e batte lo scontrino.
L’epilogo risale a lunedì sera. Torno a casa, stanco e nostalgico, come dopo ogni bella vacanza. Soprattutto con la prospettiva che la prossima vacanza (anche brutta) chissà quando sarà. Accendo la televisione e mi distendo sul divano. A Fuori Orario danno un film muto, su cui Ghezzi sovrappone un disco dei Pink Floyd: è Meddle, lo stesso che ascoltavo seduto su degli scogli un paio di giorni prima. In quel momento si è alzato un po’ il vento e il divano mi è parso meravigliosamente rigido e roccioso.

* E ogni volta mi chiedo: ma perché mi sono dimenticato, che ne so, le date delle Guerre di Indipendenza, che pure conoscevo, e invece i neuroni occupati da Venditti sono irremovibili e immutabili?
** Il “quasi” è messo solo per evitare che il dottor M. mi faccia causa.
*** Che ovviamente, adesso, non ricordo: probabilmente quei neuroni sono impegnati da “Brutta” di Alessandro Canino.

Una premura fuori dal Comune

Sapete, esiste la tassa sulla spazzatura, che qui a Bologna si chiama tasshashulrushco. E’ una cosa a cui uno di solito non pensa: una tassa sulla monnezza sembra quasi un paradosso. Invece essa c’è, e di solito uno se ne accorge quando gli arrivano i bollettini delle tasse arretrate non pagate, con cifre che superano abbondantemente il migliaio di euro: quando arrivano tali comunicazioni, la prima cosa che si fa di solito, instintivamente, è abbracciare il cestino della carta straccia, giurandogli eterno amore, per poi tentare di venderlo su e-Bay.
Per evitare brutte conseguenze, insomma, sono andato all’ufficio apposito un paio di mesi fa, per denunciare la mia abitazione, e la metratura della stessa. Eh già, perché la tassa è calcolata sul metro quadro: conviene, quindi, spargere ogni superficie del pavimento della propria residenza con dei rifiuti, urlando cose come: “Oh, sono quaranta metri quadri, ma me li godo tutti”, prima di svenire per i miasmi della decomposizione. Ma non divaghiamo: due mesi fa ho riempito il mio bel modulo, venendo a sapere, che ne so, il foglio catastale con il quale è registrata la mia abitazione e altre cose assurde, come l’orario di apertura dell’uffiziodelrushco. Poi, come tutti, ho aspettato paziente l’arrivo del bollettino, che è arrivato. Tasse per l’anno 2006, da pagare in comode rate in numero di quattro (4), da aprile a ottobre. Il punto è che tra poco più di un mese cambio casa, quindi nuova metratura da riempire di rifiuti. Come fare? Basta chiedere, e infatti telefono. La domanda, l’avrete capita anche voi, è semplice: quante rate devo pagare relative a questa casa, visto che la cambierò a metà anno?
Ci ho messo due giorni per trovare qualcuno al telefono: forse dovevano ogni volta superare mucchi di monnezza prima di arrivare alla cornetta, fatto sta che ce l’ho fatta, in una giornata nervosa e stancante. “Lei intanto paghi”, mi dice l’impiegata, “poi quando cambia casa, ce lo comunica perché cambia la metratura e l’importo dell’imposta.” “Sperando che non cambi neanche il tasso della tassa”, penso io. Ma la risposta non mi soddisfa, ovviamente, e rifaccio la domanda. Inizia un gioco snervante di dialettica, in cui l’impiegata mi ripete sempre le stesse cose, ma con parole diverse. Mi chiedo se di cognome faccia Bartezzaghi, e nel frattempo sento che sto per perdere: la pazienza, innanzitutto. Lei mi coglie alla sprovvista. “Ha capito?” “Sì”, dico io mentendo. “Secondo me no”, ribatte lei. “Infatti”, dico io e sento che sto per mettermi a piangere. “Eh, ma quando non capite le cose, mica vi dovete vergognare, insomma”, dice l’impiegata, e mi rispiega, stavolta senza anagrammi, cambi di vocale o figure retoriche. E io capisco, e mentre capisco spero che non mi metta un brutto voto, che quelli, come la tasshashulruscho, si pagano a fine anno.
“Vediamo la sua pratica”, continua lei. Io ormai sono sotto interrogazione, devo resistere. “Lei risiede in via Riva di Reno 58”, legge l’impiegata. “Veramente no”, dico io, e comunico il mio vero indirizzo (che, per inciso, non è neanche lontanamente avvicinabile da un punto di vista anagrammatico, fonetico o enigmistico a quello che mi ha detto l’impiegata). “Ci dev’essere un errore”, dice Madame Lapalisse. “Lei lo ha scritto bene?” Evito la domanda trabocchetto e lei ammette che potrebbe essere stato un errore loro. E mi chiede il numero di telefono: per non essere bocciato, penso, me la porto anche a letto, la prof.ssa Monnezza, e glielo do.

Epilogo. Due giorni fa, alle nove di mattina, ricevo una telefonata. “È il Comune di Bologna”, dice una donna al telefono. Io sono sveglio da cinque minuti, e spero solo che non ci sia un compito in classe a sorpresa. “Salve, sono quella dell’altro giorno”, mi dice un’altra donna al telefono. E storpia il mio cognome. Io la correggo, e lei: “Sicuro? Guardi che mi ha detto così l’altro giorno.” Evito di dirle che è anni che pronuncio il mio cognome, e la lascio continuare. “Il suo indirizzo… Abbiamo sbagliato noi a scriverlo, è stato un nostro errore, sa? L’ho chiamata solo per comunicarglielo.”
Per sicurezza aspetto che si pronunci la Corte di Cassazione.

Alcool

E così, anche per queste feste comandate, mi sono trovato nella piccola cittadina alla periferia nordorientale dell’impero che mi ha dato i natali. Ultimamente a Gorizia pare vada moltissimo passare le serate sul Corso principale della città, più precisamente ad un incrocio che presenta sui due dei quattro lati tre locali: uno fighetto, uno medio, uno alternativo. La perfetta alternanza e scelta in scala, in un raggio di cento metri quadrati scarsi. Mi sono trovato lì, quindi, sia venerdì che sabato sera, un po’ a disagio, per la noia e per il non sapere che fare quando vedi delle persone che non incontri da cinque o anche dieci anni. Che si fa, in questi casi? Si accenna ad un saluto con la mano o con la testa, li si ignora, ci si sbraccia in gesti plateali? Ogni volta che penso ad una possibilità credo sia quella sbagliata, quindi di solito faccio dei piccoli gesti plateali e silenti, per lo sconcerto di chi mi sta vicino, che crede sia preso da un attacco epilettico.
La cosa che mi ha sconvolto, però, è un’altra. Quando sono in mezzo alla gente e non sono coinvolto in una conversazione non posso fare a meno di sentire le parole degli altri. Pezzi di discorsi, rimasugli di frasi, colgo tutto. Venerdì e sabato sera più di metà dei discorsi che ho captato aveva a che fare con l’alcool, o perché le persone che parlavano erano ubriache, o perché parlavano di bevute immonde e colossali, o perché parlavano delle conseguenze delle stesse. Spesso tutte e tre le cose insieme.
E mi sono reso conto di come a Gorizia più che in altri posti ci siano numerosissime persone, anche giovani, ad un passo dall’alcolismo inteso come malattia, ad un passo dal tavernello di mattina o dalla vodka del primo pomeriggio. L’alcool e il quasi alcolismo sono cose socialmente accettate, anzi, sono incentivate e, in un certo senso, protette. E ve lo dice uno che, forse per reazione a tutto questo, ha fatto l’astemio fino a che non ha lasciato quella città. Questo fenomeno è immerso in un clima stagnante, in cui altri tipi di discorsi si spengono dopo poco, suicidandosi, in cui l’innalzamento del tono di voce è assolutamente proporzionale alla mancanza di contenuti. Siamo oltre il discorso fàtico, siamo al nulla on the rocks.
“Ghiaccio, non rocce”, come diceva Eddie Valiant in Roger Rabbit, quando ordinava un drink al Club Inchiostro&Tempera.
“I am a rock, I am an island”, invece, cantavano Simon&Garfunkel. E ogni goriziano è un’isola. Vi basti questo esempio. Tra le altre persone ho incontrato anche un ragazzo che non vedevo da tempo, ovviamente in un luogo-da-aperitivo, che mi ha detto che adesso fa il contadino vicino Ancona. Un uomo di mezza età si avvicina a noi e sente i nostri discorsi. Ovviamente è ubriaco, e attacca bottone col ragazzo.
“Dov’è questo posto?”, gli chiede.
“Vicino ad Ancona”, risponde lui.
“Non me ne frega un cazzo. È lontano”, ha detto l’uomo, e se n’è andato barcollando fino al bancone. Quello è sempre e comunque un posto vicino.

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