I Me Mine

Loffi di Capodanno

Nei giorni scorsi un argomento, come sempre, è stato tabù: piuttosto che fare o rispondere alla domanda “che cosa fai a Capodanno?” la gente si immergeva in profonde discussioni sul caso Unipol o si esercitava in appassionati commenti alla biografia del nuovo governatore della Banca d’Italia (Draghi: ragazzi, con un nome così secondo me siamo a cavallo).
Una cosa mi ha colpito, però: che quando l’argomento veniva infine affrontato si dipingevano sui volti delle espressioni inedite. Non la tipica espressione da punto interrogativo, che ha come corollario “qualsiasi cosa tu faccia, contami, ci sono anche io, perché quest’anno sono disperato”. Non la tipica faccia da quello che la sa lunga, ed è stato invitato ad un esclusivo party con modelle e modelli ai quali è stato vietato di indossare qualsiasi vestito che abbia una superficie superiore ai dieci centimetri quadri. Nessuno ha anche urlato cose come “ma che me frega, io ho comprato una pasticca grande come un 33 giri e me la smangiucchio passandomi tutte le discoteche della riviera”.
Piuttosto, tutti avevano stampata sul volto la stessa faccia che ho visto spesso, nell’ultimo anno: una faccia che comunicava apatia, insoddisfazione, scoglionamento, lasciami perdere.

Ecco, allora l’augurio sincero che faccio a tutti per il prossimo anno è questo senso di disagio, insicurezza, stanchezza, impotenza rimanga ancorato all’ultimo minuto del 2005, e che si possa vivere il 2006 più sereni, leggeri, contenti e sorridenti.

Ehi, ragazzi: ma allora il Prozac fa veramente miracoli!

Di |2005-12-30T20:43:00+01:0030 Dicembre 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |3 Commenti

Pringles gusto negro e tortellino

L’autobus numero tredici, direzione est-ovest, intorno a mezzogiorno, è pieno. Lo so e mi rassegno. Come sempre. Tanto ho da ascoltare The Shape of Jazz to Come, sperando di capirci qualcosa. In piazza Malpighi, però, l’autobus magicamente si svuota, in coincidenza con un piano nelle cuffie. Allora mi siedo, sperando di leggere qualcosa. Dopo due fermate, però, in coincidenza con un crescendo e toni alti di sax, entra una scolaresca intera: una ventina di bambini intorno ai dieci anni. Che fa quello che fa una scolaresca: casino, anche se in maniera moderata. L’autobus si riempie all’inverosimile, secondo uno schema che ha come base scientifica la legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi. Stiamo tutti fermi, a parte Gillespie e i suoi, si sa, ma quelli li sento io. Sento anche un odore strano. I bambini non sanno di strada, ma di Pringles, tutti. Ma non vedo patatine in giro: l’odore sale dalla pelle, e si mischia a quello del tredici pieno, direzione est-ovest, poco dopo il mezzogiorno di un giorno feriale d’inverno.
Poi l’autobus si ferma, il disco nelle orecchie no. Qualcuno parla da fuori, la voce proviene dalla porta posteriore, aperta. La voce ha un accento bolognese: è l’autista, aspro e incazzato.
“Dovete andare avanti.”
Nessuno si muove: se lo facesse potrebbe essere tranquillamente accusato di molestie, pedofilia e violazione delle leggi della fisica, in un colpo solo.
“Lei”, dice l’autista.
E gli altri, dietro, tirano un sospiro di sollievo. C’è uno scuro, sull’autobus. È lui. Tutto.
“Parla italiano? Deve andare avanti!”
Ma nessuno, compreso lo scuro, si muove. Nessuno può muoversi. Ma tutti sono tranquilli, perché quello che si deve muovere è lui.
“Insomma, parla italiano? Lei deve andare avanti”, dice l’autista, marcando il “deve”. Lo so, alla prossima frase inizierà ad usare gli infiniti, come nei film di una volta. Si sa che l’italiano coniugato all’infinito è una specie di lingua universale, un esperanto che funziona.
Poi lo scuro parla: “Sì, capisco, ma non posso andare avanti.” E, nel dirlo, tenta di muoversi. Ma non può.
Nessuno si muove, a parte il tempo. Per evitare ritardi, lamentele, note di demerito o chissà che, l’autista torna al suo posto.
Alle dodici e ventitré l’autobus arriva alla fermata Berretta Rossa, e dovrei scendere, ma non posso farlo, se non dalla porta posteriore. Nonostante le mie richieste, la porta dietro non si apre, e io non scendo. Allora affronto il codice penale e le leggi naturali e attraverso tutto l’autobus, ma non sento quello che la gente mi dice, perché, stavolta è più forte la forma del jazz che ha da venire nelle mie orecchie, e penso che sia quella che mi fa andare avanti.
Passa l’odore di Pringles, supero anche lo scuro, che ha ancora lo sguardo spaventato dall’interrogativo alla fine dell’accusa “parla italiano”.

Dopo due mie parole l’autista mi chiede se io voglia insegnargli il suo mestiere. Noto che ha gli occhi azzurri e la faccia buona. Scendo.

Radio S. Stefano – Palinsesto estivo

Andare a leggere in piazza Santo Stefano a Bologna rende automaticamente più belli. Provate a passarci e a buttare un occhio alle persone che stanno sotto i portici con un libro tra le mani: vi sembrerà che la piazza sia invasa da una teoria di bella umanità e pure intellettuale, uau. Questo a colpo d’occhio. Poi, se vi avvicinate alle singole persone, ecco che la cornice meravigliosa della piazza perde di efficacia e quello che vedete è un mucchio di depressi che leggono Baudelaire a trentacinque anni, sottolineandolo, o di studenti che tentano di rendere piacevole qualche esamaccio di analisi studiato su appunti fotocopiati da una ciellina.

Ma in piazza non regna un silenzio da biblioteca, caratteristica che pare, in verità, anche le biblioteche stiano perdendo. No, ci sono delle voci, di vario tipo.
Qualche giorno fa, per esempio, sono andato con il mio bel libro e mi sono seduto sotto il portico vicino a quello occupato da uno che suonacchiava una chitarra. Visto che era privo di bonghi, non mi sono preoccupato e ho iniziato a leggere.
Dopo un po’ la melodia mi distrae. Mi sembra di conoscerla, quindi mi metto ad ascoltare. Il tizio ripete in maniera ossessiva qualcosa sulle farfalle, e mi chiedo: “Sarà di F. De Gregori? Sarà di F. Mannoia? Sarà di F. Venditti?” Continuo ad ascoltare, e mi rendo conto che le farfalle sono il secondo termine di paragone di qualcosa che non capisco. Il tizio continua a canticchiare, con la stessa melodia, qualcosa sulle farfalle. Mi rendo conto che potrebbe trattarsi di un entomologo in libera uscita, quando, finalmente, il mistero si rivela. “Le donne sono come le farfalle”, canta, cercando rime, assonanze e altri accostamenti poetici. E quindi le donne sono “farfalle con le spillette”, immagino nel caso di ragazzine che hanno capito la tendenza. D’altro canto alcune farfalle, non le più felici, hanno a che fare con gli spilloni: una spilletta che sarà mai. E poi, ancora, “le farfalle, come sono belle”, e via dicendo.
Dopo un quarto d’ora si esauriscono due cose: la capacità immaginativa del cantautore e le mie palle. Ed è proprio in quel momento che si svela il succo della canzone. Per non turbare gli animi gentili in ascolto, il nostro intona “le farfalle sono belle ma rompono le palle”, cantando sottovoce l’ultima parola.
A quel punto, soddisfatto, se ne va.

E attacca un omino che vive in piazza, facendo incetta di cianfrusaglie accumulate negli anni, che parla, parla, con una voce roca e nasale simile a quella sentita alla stazione di Genova Porta Principe qualche settimana fa: che sia uno standard? L’omino, però, parla, parla, si e soprattutto inveisce: contro i preti, contro i cibi, contro la storia e la geografia, contro tutto e tutti.
Poi, dopo qualche secondo di silenzio, esclama: “Quando devo cacare e non mi viene, penso all’umanità.”
Tutti sollevano gli occhi dal libro, dagli appunti, dalla donna e uomo che stanno baciando e irrompono in una standing ovation. Interiore.
Solo i turisti stranieri non capiscono e passeggiano canticchiando una melodia che assomiglia tanto alla canzone delle farfalle.

Di |2005-08-29T17:55:00+02:0029 Agosto 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , |11 Commenti

Minestrone cosmico

Era l’estate del 2003, l’estate dopo la mia laurea, quando ho aperto questo blog. Il giorno di Ferragosto. Non sapevo cosa avrebbe portato, quali conoscenze, opportunità, scazzi. Non sapevo neanche dove sarei andato a finire, se a Roma, a Milano, altrove.
Era l’estate dell’anno scorso quando ho iniziato a lavorare, un lavoro vero con orari e busta paga, responsabilità e compromessi, frustrazioni e tutto il resto. L’estate dell’anno scorso, quella che ricorderò sempre. Di solito le estati si ricordano per le vacanze, no? Invece di vacanze non ne feci, o quasi. Ma ero contento, stanco. E uno dei momenti più belli era sentire Enzo al telefono per i suoi servizi che avevamo chiamato “Cartoline da Baghdad”.

Un anno fa tornai di corsa a Bologna, Enzo era scomparso. La pila dei giornali sulle ginocchia, la diretta con la radio sperando che la linea non cadesse e che la batteria del mio cellulare non facesse scherzi. In mezzo a qualcosa che sentivo enorme e schiacciante, senza poter reagire umanamente a quello che succedeva, senza la possibilità di abbandonarsi, se non paradossalmente alle parole di Enzo stesso.
Una sera dell’estate dell’anno scorso ho provato a staccare, ad uscire a bere qualcosa.
Tornato a casa ho ricevuto un messaggio.
Poi sono andato su Internet.
E ho avuto la conferma al telefono da Pino Scaccia, ricordo solo qualcosa come “Sì, Francesco, è vero.”

Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch’io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo.

Impossibile che io mi dimentichi di Enzo, da quando l’ho conosciuto è sempre stato presente, in qualche modo. L’ho scritto anche in queste pagine, un anno fa, ma è nulla in confronto a quello che sento e porto dentro ogni giorno. Leggendo “Piombo e tenerezza” non riuscivo a pensare che non ci fosse più, e ho continuato, durante tutto il viaggio Roma-Bologna, a rileggere le sue mail, quelle della lista EnzoB e quelle che mi ha mandato personalmente.
Il nostro rapporto è stato fatto di parole, come tante delle relazioni che ha creato, e che ho creato anche io, anche grazie a questo blog che ha appena compiuto due anni.

(Continuerò a rileggerti e a riascoltarti, come si fa con i grandi scrittori e le persone a cui si è voluto bene.)

Bloghdad
KubaKuba
Ribelli
Ribelli2
Cartoline da Baghdad
Piombo e tenerezza
Una medaglia per Enzo

Andar di là – seconda parte

Sono stati i miei a farmi assaggiare per la prima volta la Radenska. Ne ho parlato anche qua, ma insomma, la Radenska è una delle acque minerali più naturalmente gassate del mondo. Diuretica, aiuta la digestione (e vorrei vedere), ha un leggero gusto salino: una meraviglia che ancora in Italia non si trova facilmente: d’altro canto siamo il paese delle acque minerali. Fidelizzo subito i miei compagni di viaggio all’acqua miracolosa e quindi, vista la pioggia, andiamo a vedere la fabbrica della Radenska. Dopo qualche domanda per eliminare il sospetto che fossimo delle spie industriali, ci accompagnano a vedere una delle linee di produzione. Sfortunatamente alla fine non ci danno neanche un gadget. E nemmeno una bottiglietta omaggio. Io mi sento come fossi alla gita d’istruzione delle elementari.

Mi sono chiesto perché non mi abbiano mai portato in gita in Slovenia, mai. Forse perché la mia maestra era una di quelle che non considerava molto l’esistenza di quel paese, o perché pensava che il comunismo si contraesse respirandone l’aria, non so. Quindi ho girato un po’ da bambino, grazie ai miei e ad una loro amica di origini slovene. Mi affascinava quando parlava con le persone del posto, e non vedevo l’ora che mi spiegasse il significato delle parole. Poi, un inverno, siamo andati a Kranijska Gora. Non l’avevo mai visto scritto prima, forse per questo non ho mai sbagliato a pronunciarlo, e, forse per questo non sono mai diventato un commentatore sportivo, non so. Un giorno siamo andati al lago di Bohinj e al lago di Bled: erano ghiacciati e bellissimi. Il loro scongelamento sarebbe durato quasi quindici anni, per me.

La differenza che passa tra il lago di Bohinj e quello di Bled è lo stesso che passa tra le grotte di San Canziano e quelle di Postumia (Postoijne, se lo volete sapere). Anche per questo non troviamo posto a Bled, neanche a pagarlo, o forse a pagarlo sì, ma insomma, e stiamo in una “penzion” privata a Bohinjska Bistrica, un paese a qualche chilometro dal lago. In questo caso credo che bastino le foto.
La signora della pensione parla solo lo sloveno: appena arrivati le mie due parole due la illuminano e ci spiega tutta la questione stanze-doccia-chiave-colazione in sloveno. Per fortuna gesticola abbastanza perché i miei “ja” siano a tempo.
L’ultima tappa del viaggio prevede la discesa della valle dell’Isonzo-Soča, ma il tempo è brutto. Decidiamo quindi di andare in un museo, quello di Kobarid. Il nome, forse, non vi dice niente.

Quando andavo in vacanza da piccolo e dicevo che ero di Gorizia, pochi sapevano dove fosse. Quei pochi che lo sapevano erano adulti e, a seconda dell’età, ricordavano i tempi della “naja”, passati in qualche caserma dell’isontino, oppure intonavano “Gorizia tu sei maledetta”. La maestra delle elementari ci parlava della Grande Guerra. Ungaretti anche, con uno stile un po’ diverso, a dire il vero, ma il legame c’è, visto che la mia scuola elementare è intitolata al poeta. I miei compagni di classe, ogni tanto, tornavano da gite solitarie e domenicali con pallini di granate. Qualcuno anche pezzi di elmo. Le ossa, no. Quelle marciscono. “Sacra terra”, “Isonzo fiume sacro alla patria”, il “Sacrario di Oslavia”. Manca solo l’odore di incenso. Dopo, solo dopo, Caporetto, Kobarid, una cittadina nella valle dell’Isonzo, tra le montagne. Ottobre del 1917. La più grande battaglia montana della storia dell’uomo. Una delle più grandi disfatte mai subite da un esercito. Il fronte che arretra, in una settimana di un centinaio di chilometri, in una guerra che era combattuta a metri.

Il museo è un casino dal punto di vista storico, diciamolo subito. Ma, com’è ovvio, colpisce allo stomaco. Il macello della prima guerra mondiale in scala “ridotta”. Il solito esercito italiano comandato da quel Cadorna che ha ancora vie, monumenti e stazioni a lui dedicate: sbaglia tutto quello che si può sbagliare.
I cartellini esplicativi sono, oltre che in inglese, in italiano, tedesco e sloveno, così come i documenti, i reperti, i diari dei soldati, i manifesti, i giornali In una stanza, lungo la parte superiore della parete, sfilano le bandiere sotto le quali è stata Kobarid: sono decine, a volte si ripetono, e finiscono con quella slovena, e la data dell’indipendenza.
Il fiume sacro alla patria scorre in una patria per la quale credo non sia sacro. Ma se ne sbatte e ci dona il suo colore cobalto per me tuttora inspiegabile.

Non ho mai considerato l’Isonzo, non ho mai considerato il confine, l’entità del confine, fino a quando non me ne sono andato da Gorizia. Non riuscivo ad avere la prospettiva sulle cose, solo adesso, dopo quasi dieci anni che sono a Bologna, riesco a sentirle. Quello che per gli altri era un altro stato, comunista, per giunta, per me era solo qualche metro più in là. Quello che era un confine era una sbarra, doganieri, poliziotti e finanzieri a cui mostrare la prepustnica o, molto più raramente, la carta d’identità. Documenti che non venivano quasi mai guardati, soprattutto se la macchina aveva una targa GO, uguale per le due città divise arbitrariamente tracciando dei segni sulla carta.

La lingua, mano a mano che si va verso ovest, sfuma verso suoni conosciuti, fino al cameriere del caffè di Štanijel che parla un italiano perfetto, e il vecchio vinaio che ci vende il terrano che produce che parla lo stesso italiano con accento sloveno che parlano alcuni anziani a Gorizia. Sto tornando verso dove sono nato.

Sono nato a qualche metro da una riga tracciata sulla carta.

“Guardate”, dico ai miei compagni di viaggio poco prima di tornare in Italia, “l’ospedale di Gorizia è quello là.” Del confine, neanche l’ombra.

Andar di là – prima parte

Non so con precisione dove si trovi il reparto di ostetricia dell’ospedale civile di Gorizia, ma devo comunque essere nato al massimo ad un centinaio di metri dalla Yugoslavia. “Yugo”, la chiamavamo. “Sciavi”, li chiamavano.
A dodici anni ho avuto il lasciapassare, prepustnica, per allungare le passeggiate domenicali. Mia madre mi comprava le scarpe Adidas in un grande magazzino di Nova Gorica.

Andare in Slovenia passando da Gorizia è piuttosto particolare. Anche senza attraversare la piazza Transalpina, già definita “il muro di Gorizia”, anche se era una rete alta un metro che impediva lo sguardo alla bellissima facciata della stazione ferroviaria “di là”. Rete già presa a picconate da Fini nel 1989. Quello che ci frega, a noi italiani, è la voglia di emulazione.

Da piccolo sapevo parlare un po’ di sloveno. Avevo una donna che aiutava mia madre nelle pulizie (e mi sono sempre chiesto se fosse giusto, adesso ho smesso) che mi parlava in sloveno. Nelle scuole a Gorizia non si è mai insegnato lo sloveno. Forse adesso lo si insegna, ma fino a quando ero piccolo io, e c’era ancora la Yugoslavia, anche senza Tito, la Yugo era sciavi e pericolo rosso. Comunismo. Minaccia. Altro. Yughi. Tutta roba che non doveva esistere, e che veniva fortemente contestata da persone che avevano il padre, il nonno, o al massimo il bisnonno, sloveno.

Adesso mi ricordo solo qualcosa, e insegno qualche parola ai miei compagni di viaggio: hvala, prosim, dober dan, kruh, voda. Tanto per non morire di fame ed essere educati. L’altra cosa che insegno è la pronuncia: la c si legge z dura, la č c dolce, la ž come il suono “j” in francese, la š “sc”. E, con buona pace dei commentatori sportivi, si dice “kranska gora”, e non “kraniska gora”, perché la j in mezzo alla parola spesso non si legge. Gli accenti? Mistero.

Si andava di là, quindi, a passeggiare o a fare grandi mangiate, in una gostilna in cui la cameriera ti sciorinava il menù cantilenando, in quell’italiano così simile al goriziano e allo sloveno insieme, “domače”, “casalingo”, lo chiamano, alla faccia della purezza dell’italiano. “Gnoki con šugo rošto, conilijo, karne feri (o ferji, chissà), čevapčiči.” E poi si passeggiava per il Carso.

La zona del Carso è la prima che andiamo a vedere, e in particolare le grotte. Non quelle di Postumia, stupende e monumentali, ma quelle più nascoste e spettacolari di Škočijan, San Canziano, in italiano. In un antro di quel complesso scorre in un canyon enorme il fiume Timavo, un fiume che appare e scompare e riappare e scompare, giocando a rimpiattino tra la Slovenia e l’Italia.

Per me il fiume Timavo era una rupe con dei lupi in bronzo, sulla strada per Trieste, la costiera, una delle strade più belle e pericolose che abbia mai visto. E sotto c’era una frase di Virgilio, tratta dall’Eneide. Guardavo le parole in latino come in una striscia dei Peanuts Linus affermava di guardare soltanto e di non leggere i nomi russi de “I fratelli Karamazov”. Sapevo che lì sotto il Timavo si concedeva alla vista dell’uomo, per poi tornare sotto, nascosto, a scavare e a nutrirsi di roccia bianca. Virgilio sapeva dell’esistenza nascosta del fiume, e ne ha parlato. La cosa ancora mi emoziona.

Nessuno parla, invece, di quello che è accaduto prima della fine della seconda guerra mondiale. L’argomento dominante (e tremendo) sono le violenze titine nel 1945: anche loro, come il Timavo, hanno sfruttato gli anfratti carsici. Ma c’è altro, come l’ospedale partigiano di Franija, che ha preso il nome dalla dottoressa che l’ha diretto dal 1943 al 1945. Un miracolo di ingegneria, un ospedale tra le rocce, con tutto, dalla camera per le radiografie alla sala operatoria, dalla cucina alla centrale elettrica. I tedeschi non l’hanno mai trovato. I feriti vi venivano portati risalendo un torrente gelido. È la seconda volta che lo visito, e rimango sempre colpito dalla commistione di dolore e speranza che trasuda dalle baracche di legno.

“Potremmo andare a Lubiana”, si era detto con il mio fratello di parole, la sua mamma e la sua ragazza di allora quando sono stato a Franija per la prima volta. Alla fine non ci siamo andati. C’ero stato poco tempo prima con P. e, lo ammetto, eravamo rimasti colpiti da ogni tipo di bellezza che ci si presentasse davanti. Lubiana, per me, è una bella ragazza che sorride (e Guccini non me ne voglia se gli rubo la banale metafora).

Ljublijana è, prima di tutto, difficile da scrivere. Perdonatemi, quindi, se la chiamo Lubiana. Lubiana ricorda Gorizia, Trieste, Vienna e Praga, ma si è data qualcosa in più e qualcosa in meno. Non ha il mare ma ha la Sava, ha i turisti ma non sono così allucinantemente italiani come a Praga. E soprattutto respira, a differenza del rantolo di Gorizia. A Lubiana, come in tutta la Slovenia, ci sono giovani-che-fanno-cose. Hanno percepito la fine del regime, ma, per qualche miracolo, non sono andati tutti fuori di testa. Hanno sentito il mercato, ma, per un altro miracolo, sono rimasti attenti al loro patrimonio storico, culturale, e ambientale, soprattutto. A Lubiana l’italiano già non si parla più tanto: quasi tutti sanno l’inglese, e ti senti di essere in una capitale europea. Nello stesso tempo senti l’odore di casa, quell’odore che veniva “da là”, poco oltre la finestra della mia cucina.

Quando ci fu la dichiarazione d’indipendenza slovena, nel giugno del 1991, mio padre ancora lavorava in dogana. Gli dissero di mettere il giubbotto antiproiettile, e lui ce lo raccontava ridendo. Io ridevo un po’ meno. Poi ci fu la battaglia di Nova Gorica, ed esplose un carrarmato: la veranda di casa mia fu velata dal fumo e dall’odore di bruciato. I goriziani andarono in alto, su al castello, forse sperando di vedere qualche sciavo sbucherellato. Se ne andarono annoiati dopo un po’. La Slovenia non seguì la catena di massacri che si stava per compiere. Noi non andammo di là per un po’. Quando ci tornammo, la stella sulla bandiera era scomparsa, iniziammo ad imparare che quella era la Slovenia, non più “la Yugo”. Molti continuano a dire Yugo ancora adesso. Per distinguerla sempre e comunque dall’Italija, pardon, Italia.

Anche la Slovenia finisce un po’ prima del suo confine. C’è una zona che si chiama Prekmurije, cioè oltre il fiume Mura, una zona che per motivi geografici è molto di più legata all’Ungheria che alla Slovenia: i nomi sono diversi e sulla cartina stradale che abbiamo, esattamente come al confine con l’Italia, l’Austria e la Croazia, sotto a molti nomi di città ce n’è uno più piccolo, spesso con qualche zeta e gi in più. Niente più montagne, ma pianura. E le “tipiche fattorie a l” (come dice la Lonely Planet) sono ovunque e punteggiano una zona altrimenti perfettamente piatta. Alloggiamo in una di queste, che odora di legno ed erba. Vediamo un cavallo bianco, chiaramente un “lipizzano”, originario cioè di Lipica, una cittadina vicino al confine italiano. Vediamo anche due gattini, di cui uno malato e uno soriano. Un rospo. Ma capisco che siamo in Ungheria, perché sui pali, in alto, ci sono le cicogne.

Sono stato a Budapest per la prima volta nel 1986, credo. Era la festa nazionale, ci davano mele verdi in ogni negozio. Ne ho mangiate due. Non ho capito molto, all’epoca.
Ci sono tornato dieci anni dopo: le cose erano notevolmente cambiate. Quella volta, però, non ho visto le cicogne, che invece mi avevano affascinato, forse anche grazie ai miei otto anni. Avrò pensato ai bambini portati da questi enormi uccelli? No, perché, lo ricordo bene, nel mio librino di educazione sessuale, prima di “mammaepapà” c’erano le api (davvero!), i cani (giuro) e, appunto, “mammaepapà”.

continua

C'è modo e modo

L’altro giorno ho chiamato l’Automobile Club d’Italia della città estramemente orientale che mi ha dato i natali per avere delle informazioni sul viaggio che farò in Slovenia la prossima settimana. In particolare ho chiesto se bisognava davvero tenere con sè un documento particolare: pare infatti che non sia il caso di viaggiare su una macchina che non è intestata ad uno degli occupanti, anche se è di proprietà, per esempio, della madre di uno dei passeggeri. E la madre lo sa, si intende.
“Sì, bisogna farlo”, mi dice l’impiegato.
“Capisco”, dico io. “Ma immagino sia consigliabile averlo, ma non obbligatorio…”
“Sì.”
“Quindi, diciamo, se non ce l’abbiamo dietro si rischia qualche casino…”
“Sì”, dice l’omino, “ha detto bene, si rischia. Condizionale.”
Ma forse ho capito male e si è mangiato delle parole, tipo “unapenafinoaseimesiconla”.

Di |2005-07-27T12:37:00+02:0027 Luglio 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |6 Commenti

Ricapitar, infine, nella Capitale

Dall’arguto titolo, lo avrete intuito, me ne vado a Roma. “Ma come”, dice, “te ne vai a Roma adesso? E la paura degli attentati?” Fatevi un giro dal mio fratello di parole, che, oltre ad ospitarmi, ha scritto un post proprio su quello che potrebbe succedere a dei terroristi a Roma.
Incontri previsti: sciampiste in via del Corso, Pulsatilla, che ha millantato di portarmi a mangiare il migliore tiramisù d’a Capitale, due miei cugini, di cui uno straordinariamente rassomigliante a Silvio Orlando, lei, e… chiunque altro voglia aggregarsi alla compagnia mi scriva.

Ah, importante. L’intervista a Tori Amos andrà in onda in tutto il territorio italico durante la puntata di lunedì 18 di “30° all’onda“, dalle 14.30 alle 15.30. Qui e qui le istruzioni per ascoltarla. Statemi bbuono.

Update. Se ve la siete persa ieri, potete sentire l’intervista qui, in streaming.

Ma l’intervista è anche qua!

Ferramenta

Non ci andavo mai, in ferramenta. Ho iniziato a frequentare quei negozi quando ho cambiato casa, ma sempre con la frenesia e la fretta di chi ha veramente tanto altro da fare: in quel particolare caso si trattava della ricerca impossibile di un fermacassetto dell’Ikea. Detta così sembra un congegno inventato da Q di 007, invece no. Fondamentalmente è una vite, ma non ce l’ha nessuno, tranne il mobilificio svedese. E quindi aspetto da mesi e mesi un pacchetto prepagato con dei fermacassetti Ikea. Nel frattempo i cassetti sono stati fermati da italicissimi chiodi.
Insomma, ieri sono andato con calma in ferramenta, per fare delle copie delle chiavi di casa, da dare a persone care. Ho dovuto aspettare un po’, e mi sono guardato intorno, realizzando alcune cose. Prima di tutto che non ho idea quale sia la funzione (ma neanche l’entità) della maggior parte delle cose esposte. Cioè, immagino stiano da qualche parte, e presumo che ne sia quotidianamente circondato, ma questo accade anche per le polveri sottili, i bacilli e quelli che votano Forza Italia. Ci sono, ma non si vedono, o (come talvolta ha voluto la natura per proteggerli) non si fanno vedere.
La seconda cosa che ho realizzato in ferramenta è che mi sono dovuto trattenere da un desiderio inarrestabile di comprare le cose di cui capivo l’uso, o per un mio innato (e inedito) istinto, o semplicemente perché ho letto i cartelli e i cartoncini sopra gli oggetti stessi. Lo Svitol, e una specie di tampone per togliere la muffa dalle intersezioni delle piastrelle della doccia (nove euro, vi pare tanto?). Cutter di precisione che non assomigliano per niente a cutter, ma piuttosto a strumenti nati dalla fantasia di Moebius, e poi tante, tantissime forbici di vario tipo. Tutte della stessa marca, che immagino sia leader nazionale nella produzione di oggetti da taglio.

Nella ferramenta dove sono andato, in via Farini, a Bologna, per chi volesse darci un’occhiata, c’è un’aria di antico. Dietro il bancone, una parete fatta tutta a cassettoni di legno, che mostrano campioni del loro contenuto: sui cassetti sono incollate (avvitate, fissate, brugolate, che cacchio ne so) un’infinità di manigline, tiranti, pomelli, cerniere, chiavi, tondini, dadi e dadini. E i clienti chiedono sicuri, indicano, confrontano e scelgono. I clienti insicuri, invece, vanno incontro a due sorti diverse: se si mostrano umili, vengono guidati nel mondo degli oggetti a me sconosciuti. Se invece fanno i gradassi e sbagliano nomi o funzioni, vengono liquidati con rapidi gesti. Le clienti donne, invece, possono essere di due tipi. Ieri è entrata una donna incinta, molto carina. Il titolare l’ha accolta con un grande sorriso, così come tutto il resto del personale e della clientela. Mi sono accorto che aveva il naso malamente rifatto solo quando ha scelto un orrendo pomellino di cristallo per la sua vetrinetta. C’era anche un’altra cliente: una signora anziana che però non si rassegnava al passare del tempo, e neanche alla misura delle chiavi che il commesso le proponeva. Ha optato per una soluzione di ripiego, un taglia e cuci, per entrambi i suoi problemi.

Mi piace andare in ferramenta, mi piace vedere i commessi che fanno i conti sulla carta da pacchi, la stessa che poi usano per avvolgere viti e vitine. Mi piace il rumore della macchina che fa le chiavi, che altro non è che un incisivo fortissimo sul silenzio che di solito regna tra gli scaffali. Mi piace il fatto che tutto sembra vecchio e funzionante, anche il miniventilatore made in China, che si sentirà un pesce fuor d’acqua e non vedrà l’ora di sollazzare per qualche minuto la faccia di qualcuno, prima di amputargli il naso con una pala di plastica.

E., una meravigliosa persona, frequentatrice e commentatrice di questo blog, e amica speciale di lunga data, ne ha aperta un’altra, di ferramenta, e ha reso pubblico il fatto a tutti noi amici proprio mentre io ero nel negozio che ho descritto. Nel suo, di negozio, non ci sono orari. La sua ferramenta è sempre aperta, qua.

Di |2005-07-12T18:31:00+02:0012 Luglio 2005|Categorie: I Me Mine, I've Just Seen A Face|Tag: , , , |5 Commenti

Pretty Good Day

La stazione di Modena alle tre del pomeriggio di domenica è deserta. Anche Modena è deserta, tanto che si fa fatica a trovare qualcuno che ti dia un’indicazione su dove sia questo maledetto Parco Novi Sad. Quando lo trovo, anche il parco è coerentemente deserto. Eppure l’appuntamento con Keith, il tour manager di Tori Amos, uno che ogni volta che lo senti al telefono ti chiede prima come stai e solo dopo ti rendi conto che non è ben sicuro dell’identità della persona con cui sta parlando, l’appuntamento, dico, è alle quattro e manca poco. L’unica persona che vedo vicino all’arena è un uomo, africano o afroamericano, con la camicia della security. Gli spiego in inglese che ho un’intervista con Tori Amos e non ci crede. Mi chiede come mi chiamo, gli mostro il tesserino, dico che ho un appuntamento con Keith. “Chiamalo”, mi dice. Lo chiamo. “Ehi, come stai? Ah, sì, stiamo arrivando. Intanto chiedi di Jojo e fatti dare i pass.” Chiudo la telefonata. “Mi ha detto di cercare un certo Jojo”, un nome per me assolutamente plausibile, beatlesiano come sono. “Ah, Giorgio”, mi dice l’uomo con perfetto accento italiano. Scopro poi che viene dalla Costa d’Avorio, che lavora in una tv locale e che vive in Italia da anni. Mah.
Comunque, arriva Jojo accompagnato dall’altra promoter del concerto (molto bellina) che mi dice “L’artista non è ancora arrivata”, accomodati pure. Mi siedo, quindi, aspettando l’artista. E penso che è dieci anni che aspetto questo momento, quindi “Fate pure con comodo”, aggiungo sincero. Rimangono tutti colpiti dalla mia accondiscendenza. Come se uno dicesse “Eh, no, e che cazzo, l’appuntamento era alle quattro, scusate ho da fare, grazie e arrivederci.”

Poi mi chiama Keith. Mi alzo in trance e vado nel backstage. La promoter carina mi accompagna in una stanza, poi dice “no, andiamo in un’altra che c’è il ventilatore”, mi offre da bere, ci manca solo che mi faccia un massaggio.
La prima “cosa” di Tori che vedo è la sua meravigliosa bimba cinquenne, Nathasya o Tash. Mi gironzola attorno un po’, fino a che la bambinaia le dice che la mamma deve fare un’intervista in quella stanza. Tash, a malincuore, se ne va, con io che le faccio ciao-ciao con la mano.
Tori arriva e ci sorride. “Hi guys, please, let me stay for one minute with my daughter.” E allora capisco. Capisco che il fatto che il personaggio centrale della sua autobiografia sia la figlia non è un caso. Prima di qualsiasi cosa Tori, adesso, è una mamma. E quindi deve rassicurare la figlia che tornerà, comunque. Io sono già commosso, il cuore ha smesso di battermi da un paio di minuti buoni. Dopo un altro paio di minuti (e di pulsazioni), Tori arriva, mi sorride ancora, mi stringe la mano ed entriamo nella stanza. Keith mi ammonisce: “Tra dieci minuti busso”, e mi verrebbe da dire “ma come, ieri al telefono avevi detto quindici, oltre a chiedermi come stavo”, ma lascio correre. Che mi frega, sono seduto davanti a Tori Amos, io e lei in una stanza, con lei che è pronta a rispondere alle mie domande, che mi frega. Respiro e vado con la premessa all’intervista, che ho preparato più dell’intervista stessa. Mi confesso. Insomma, le dico che è vero, io sono lì in quanto giornalista, ho le domande pronte, dieci minuti, Keith, sì, sto bene, ma. Ma per me tu, Tori, la tua musica, insomma, sono importanti. Quindi c’è in me un dualismo. Da una parte il giornalista con un occhio al cronometro, ma dall’altra c’è il diciassettenne che si fa consolare da Under the pink e che sussulta ogni volta che sente la tua voce, Tori, e questa parte qua devo farla venire fuori. Facciamo un minuto solo dopo l’intervista, ok?
Tori ride, poi sorride e dice “Ok.” E inizio.
La mia mano sinistra, che regge il microfono, smette di tremare dopo qualche minuto. La voce di Tori è stanca, lei sembra stanca, ma mi fissa negli occhi, quando parla. Ora voi, miei piccoli lettori, mi direte: “Ma come, ti fissa negli occhi e tu riesci a scrivere queste cose? Dovresti essere morto più di ventiquattro ore fa”. E invece no. Perché è come si dice, ve lo giuro. Questa donna è speciale. Ti mette a suo agio senza apparentemente fare niente, anche se è stanca è attenta a quello che le viene detto, ci pensa prima di rispondere ad una domanda (e per quanto mi sia sforzato, è improbabile che le mie domande le risultino del tutto inedite). Tant’è che mi sblocco dal mio mutismo adorante e inizio a conversare con lei, e la sento vicina come l’ho sempre sentita. (Ogni tanto una voce mi ripete “Ma ti rendi conto? Tori Amos è seduta qui davanti a te e state parlando”, ma le dico che deve studiare per il compito di mate e lei torna buona nei miei diciassette anni.)
Quando finisco le domande, il contatore del minidisc segna i dieci minuti. Allora prendo Under the pink e glielo faccio firmare. Poi le dico “Foto?” e ce la facciamo, e poi io penso sia finita. E invece no. Inizia lei a farmi delle domande, e finiamo a parlare della traduzione della sua autobiografia, di Bologna, e poi bussa Keith. “Ho finito”, gli dico. Lui sorride e richiude la porta. Le chiedo scusa. “Mi sento stupido, sai, dopo l’intervista, questa parte da fan sfigato…” Lei sorride (sì, ancora), mi dice che è normale, anzi, le fa piacere, e mi fa i complimenti per l’intervista.
Ora, giornalisti che state leggendo. Quante volte qualcuno che avete intervistati vi ha fatto i complimenti per le domande che gli avete rivolto? A me non è mai capitato, davvero. E lo so, maliziosi, che pensate che lei lo dice a tutti. Ma lasciatemi questo regalo, su. Stronzi.
Usciamo nel caldo torrido. Lei mi abbraccia. “All the best to you.” E se ne va.
Torna la promoter. “Tutto bene?” “Arsadsgasvb”, dico, confidando che lei capisca dal sorriso che voglia dire “sì.” Non contenta, mi regala due biglietti per il concerto. Ma niente massaggio.

E poi, il concerto, ma che ve lo dico a fare. Potrei mai essere obiettivo dopo un pomeriggio del genere? No. Quindi, visto che si è fatta una certa, vi dico solo due cose. Che a metà di ogni spettacolo di questo tour, il concerto si trasforma nel Tori’s Piano Bar. Ricordando il suo passato di pianista di piano bar, appunto, Tori suona un paio di cover. La prima è per me sconosciuta. Nella pausa tra una e l’altra, penso che vorrei urlare e dire “I’m on fire”, e lei sicuramente ci farebbe una battuta sopra. Non riesco a finire il pensiero che inizia a suonare proprio la canzone di Springsteen. Ho le lacrime agli occhi, davvero.
E le ho di nuovo quando penso che non ho mai sentito “Pretty Good Year” dal vivo, nonostante questo sia il terzo concerto che vedo, e lei la fa come primo bis. Il diciassettenne che è in me torna alla ribalta, e pensa a collegamenti psichici da abbraccio, a lei che ride, al rumore dei cubetti di ghiaccio nel suo bicchiere, a Greg che scrive lettere. Non ho maniche su cui si poggiano le mie lacrime*, ma sono sicuro che ci sono.

Quindi, lettori del mio blog, sappiate che state leggendo le parole di un ragazzino che ha realizzato uno dei sogni della propria vita. Perdonate l’eccesso di entusiasmo, la mancanza di arguzia e di senso critico. Una volta tanto tutte queste cose belle e intelligenti possono andare a farsi fottere. Ora vado a ripassare, perché domani ho il compito di latino.

* Sì, è una citazione, ad uso e consumo di chi leggendo queste parole sentirà un nodo allo stomaco.
Un grazie particolare a C., che mi ha sopportato (anche) in questi giorni così intensi.

L’intervista.

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