I’m Happy Just To Dance With You

Simmons vs. Assante

Se la proprietà transitiva fosse il vettore su cui si regolano le relazioni nel mondo, e se ci fosse una giustizia basata sulla coerenza, potremmo assistere presto allo scontro tra lo storico bassista dei Kiss e il critico musicale di Repubblica. Perché? Perché Gene si è schierato con ferocia contro i download illegali e Assante, nella sua lista sul meglio della musica del 2010, ha inserito il nuovo disco di Iron&Wine, che esce, però, tra un mese.
Ah, manco a dirlo, ma l’articolo su Simmons indovinate chi l’ha scritto?
P.S. Buon anno a voi, miei ormai pochissimi ma fidati lettori!

Buona televisione

Ho vissuto il fine settimana precedente a quello che ci siamo appena lasciati alle spalle in una strana condizione. ISBN Edizioni mi aveva fatto avere il cofanetto di Avere Ventanni appena in tempo, appunto, per il week-end, e sapevo che avrei avuto solo quei giorni per preparare l’intervista a Massimo Coppola. Venticinque ore di documentari in meno di cinque giorni. Sono sei ore al giorno. Mica poco. Ma ce l’ho fatta, a discapito della mia presenza nel mondo reale, come succede sempre quando ci si immerge in qualcosa di totalizzante.
Vedere Avere Ventanni con questa modalità non è una cosa che posso consigliarvi di fare: rischierei la denuncia per ipnosi indotta. Ma vedere di seguito le tre serie andate in onda su MTV tra il 2004 e il 2006 ha anche diversi vantaggi. Il primo è percepire sensibilmente gli aggiustamenti di rotta degli autori (oltre a Coppola ci sono Giovanni Giommi, Alberto Piccinini e Latino Pellegrini) nelle prime puntate della prima serie. Coppola all’inizio prova a fare il suo alter ego (talvolta fastidioso) che c’era in Brand:new o in Pavlov, ma la realtà lo supera a destra. Comincia quindi giustamente a pensare che è un altro Coppola che deve porsi di fronte ai ventenni che incontra in giro per l’Italia: usa allora il retroterra filosofico, ma nel senso più pragmatico possibile. Coppola, quindi, inizia a domandare cose semplici e d’ordine quotidiano agli “eroi” delle puntate: cosa fanno, qual è il mestiere dei genitori, quanto guadagnano, se sono fidanzati. Entra nelle case, nelle stanze degli studentati, nei karaoke bar, nei cantieri, negli androni dei palazzi, nelle macchine, negli uffici. Spesso va in un posto per parlare con qualcuno e scopre che la storia di un altro è molto più interessante: l’obiettivo cambia repentinamente, libero da ogni pesantezza produttiva, considerando che tutto è realizzato con tecnologie digitali portatili. Infine Coppola e i suoi ascoltano, con curiosità e partecipazione, ma senza compatimenti. E, quando arriva la compassione, quando neanche gli autori riescono a trattenere il dolore e la tristezza, semplicemente, abbassano la camera e la spengono.

Interrompere una registrazione è un atto realmente rivoluzionario, in ambiti intimi come quelli raccontati da Avere Ventanni. Nell’intervista potete ascoltare cosa Coppola pensa di quella che ho chiamato “etica della videocamera”, e di cui ho parlato spesso qua sul blog. Che senso ha zoomare sulle lacrime, infilare obiettivi tra le sbarre di cancelli chiusi, nominare ripetutamente le persone uccise, domandare tenendo attaccato il microfono all’altoparlante di un citofono? Nessuno. Eppure è così che la televisione italiana intende l’informazione, nella maggior parte dei casi. Già per questo Avere Ventanni ha un valore programmatico fortissimo ma, ahinoi, del tutto inascoltato. Il pudore e l’intelligenza di questi documentari sono un episodio occasionale e isolato nell’ambito televisivo italiano.
Ma l’importanza di Avere Ventanni va oltre l’aspetto etico e formale a cui ho accennato. Vedere decine di ore di girato in pochi giorni mi ha illuminato sulla rilevanza storico-documentale che questo cofanetto ha. Ricordo ancora quando, nelle prime lezioni di storia delle superiori, il professore ci spiegò che cosa si intendesse per “documento” in quell’ambito. Scorrendo le storie raccontate nel cinque dvd, mi è tornato in mente il significato primo di questo termine molto usato (e quindi spesso abusato): effettivamente queste puntate sono un documento storico importantissimo per l’Italia contemporanea, ogni minuto e ogni inquadratura è portatrice di significato e ben contestualizzata. Assenza di riferimenti politici, disgregazione sociale, povertà, disillusione, ignoranza, violenza. “Erano anni dolorosi”, mi ha detto Coppola, usando il passato solo per coerenza, visto che gli stavo chiedendo di quei primi anni zero in cui Avere Ventanni è stato girato: le cose non sono poi così tanto cambiate. Attenzione, però: si potrebbe obiettare che l’obiettivo dell'”indagine” degli autori fosse la condizione giovanile di quel periodo. Nonostante questo io credo che, alla fine, Avere Ventanni parli del Paese tutto: perché, sebbene le classi dirigenti italiane facciano di tutto per negarlo o ignorarlo, sono i ventenni che iniziano a costruire, ricostruire ed eventualmente a cambiare una nazione. Proprio quelli che oggi stanno abbandonando in massa l’Italia e che, solo sei anni fa, avevano ventanni.

Confessional Poetry

Sapevo solo vagamente chi fosse Robert Lowell, a cui è intitolata la prima traccia del nuovo disco dei Massimo Volume, Cattive abitudini. Ho scoperto che è stato il fondatore della “Poesia confessionale”, ma è divertente (e bellissimo) che la pagina Wikipedia dedicata al poeta parli di “poesia confusionale“.
Non c’è nulla di confusionale, in Cattive abitudini: le linee di chitarra traggono forza dal rumore e leggerezza dai silenzi, quando sono più o meno rarefatte. La batteria è una sicurezza, amalgamata al basso: insomma, sono tornati i Massimo Volume, come ce li ricordavamo, e come li abbiamo visti dal vivo dal 2008 a oggi. Dentro e fuori dall’onda ho parlato molte con Mimì, Vittoria, Egle e Stefano:  la reunion è stata un successo e i live ne sono la conferma, ma il disco? La domanda, insomma, che sicuramente oltre che da a me gli è stata posta da tanti altri. “Tanto vale dirlo subito, confessarlo“, avranno pensato.

chi l’avrebbe mai detto
di ritrovarci qui,
giugno 2010
in un pomeriggio
di pioggia e di sole
seduti di fronte
alle nostre parole?

(“Robert Lowell”)

Forse è vero, forse nessuno di voi l’avrebbe detto, ma eccoci, il disco è già iniziato da qualche secondo e sono loro, proprio loro, non c’è dubbio. Non si sono fatti tentare da impasti di riverberi, basi elettroniche più o meno raffinate, né dai sorrisi della gente sotto il palco più giovane di quando loro stessi avevano iniziato a suonare, vent’anni fa. Si sono chiusi in uno studio sulle rive del Po, quest’estate, e hanno tirato fuori un’ora di musica potente e lucida, su cui e con cui Clementi, ancora una volta, racconta storie popolate da luci e sensazioni che in una manciata di righe ti si piantano nella testa. I testi sono scritti su carta intestata di diversi alberghi, dalla Svizzera a Londra, da Rimini a Venezia, e il libretto riporta, oltre ai bellissimi disegni di BJ, solamente quelli e qualche nota tecnica. Mi è venuto voglia, ascoltando il disco, di prendere un atlante e immaginare dei viaggi, seguendo quegli alloggi temporanei con nomi altisonanti, ma le parole mi hanno riportato a loro con pressante dolcezza. E così sono stato a “Coney Island” ,in una stanza chiusa a chiave, tra i deliri di Leo e le asprezze delle donne descritte da Clementi, l’ossessione del tempo, scandito da arpeggi e distorsori, fino al letto di morte di qualcuno, trasfigurato nei ricordi e nella fantasia di un impossibile ritorno.

te ne sei andato docile
tra le mie braccia
nella tua arida notte
che un giorno sarà la mia

(“Mi piacerebbe ogni tanto averti qui”)

E d’accordo, a nessun poeta o scrittore piace sentirsi rivolgere la domanda “Ma quanto c’è di autobiografico in tutto questo”, però l’idea che Lowell fosse messo là in cima non per caso è arrivata, ma è stata subito spazzata via da un’apertura melodica e armonica che i Massimo Volume hanno raramente mostrato. Un trio femminile (Vittoria Burattini e Marcella Riccardi, una titolare e una “ex”, e Angela Baraldi) accompagna e innalza la consapevolezza, il cui dolore sfocia poi in “Fausto”, disperata e urlata: non a caso quest’ultimo brano contiene una citazione da “L’urlo” di Ginsberg, dove però la distruzione della generazione del poeta avveniva per follia; nel nostro “mondicino” basta scegliere di apparire per una serata in tv per perdersi rimanendo vestiti (lontani dalla nudità primitiva e folle di Ginsberg), “intonando il vestito al tema della puntata”.
Ma lo si può anche non fare: si può anche scegliere di ricordare, di non tradire. Così come si può tornare, quasi dieci anni dopo essersene andati, perché si ha davvero qualcosa da dire. E lo si fa alla perfezione.

(Ancora una volta avrò i Massimo Volume ospiti a Maps, venerdì 15 ottobre alle 16. E neanche a dirlo, Cattive abitudini è il nostro disco della settimana).

Let's Dance (Ourselves Clean)

James Murphy è un buon furbacchione: non è uno che frega o se ne approfitta, per intenderci, ma semplicemente uno che da anni e anni è molto attento a quello che accade nel mondo musicale. Sente, percepisce, intuisce, riprende, rimastica, ripropone con varianti. Tanto di cappello, eh, mica stiamo sempre a cercare l’originalità assoluta (un concetto, peraltro, che nel 2010 lascia davvero il tempo che trova).
Un altro grande furbastro è, da sempre, David Bowie. Anche lui, soprattutto negli ultimi trent’anni, è stato fondamentalmente con le orecchie ben tese su quello che accadeva in ambito musicale nel mondo, USA e Regno Unito principalmente, per cogliere poi i frutti appena sbocciati delle nuove tendenze e personalizzarli.
Perché mettere insieme questi due personaggi, apparentemente non così vicini? Perché il concerto di Ferrara degli LCD Soundsystem ha confermato quello che io (e altri) abbiamo sentito non appena è giunto alle nostre orecchie This is happening, l’ultimo album dei newyorkesi: c’è un sacco di Bowie negli LCD Soundsystem, soprattutto del Bowie della trilogia berlinese, di quei brani più lenti e ipnotici, che sfruttano armonizzazioni vocali e tappeti di sintetizzatori.

Assistendo allo splendido spettacolo di Ferrara, inoltre, si è sentita questa influenza, o richiamo, in tanti altri brani della scaletta, anche dei dischi vecchi. Non si è trattato di allucinazioni uditive, per carità, ma di alcuni attimi, suggestioni e brani che, effettivamente, mi hanno riportato alla mente alcuni arrangiamenti dei pezzi di Low, Lodger e “Heroes. L’altra sorpresa è stata il notare le grandi doti di cantante di Murphy: una voce profonda, quasi da crooner, che non aveva paura allo stesso tempo di sfidare registri più acuti, rimanendo sempre in totale controllo. Anche qui non riesco a non pensare alla versatilità vocale di Bowie, che ci posso fare? E, infine, l’attenzione a quello che accade oggi nel mondo musicale di cui si parlava sopra: il finale del concerto degli LCD è stato esemplare, com la splendida “New York I Love You” che è sfociata in una versione piano e voci di “Empire State of Mind”, spogliata del tutto dall’iperproduzione di Jay-Z e, in qualche modo, rifatta lì, dal vivo, davanti ai nostri occhi, come se James Murphy l’avesse scritta e ce la restituisse come lui la intendeva. E pazienza se la mania di controllo totale del musicista lo rendesse quasi ridicolo, per il continuo comunicare col fonico di palco e per l’aggiustamento senza sosta di aste e microfoni: tanto più che tutto questo perfezionismo è stato spazzato via da un blackout dell’impianto di diffusione, con il pubblico che non sentiva più niente mentre la band, assordata dai volumi dei monitor sul palco continuava a suonare come se nulla fosse accaduto. Pazienza, perché il concerto dell’altra sera è stata l’ennesima prova della statura di Murphy. Staremo a vedere, quindi, che ne sarà di lui, con o senza LCD Soundsystem. Che possa convincere Bowie a tornare sulle scene? Fantasie da inizio settimana…

Letture d'attesa

Ok, ora sono in onda, ma tra qualche ora sarò a Ferrara per il concerto dei Pixies. In occasione della prima data all’aperto di Ferrara sotto le stelle 2010, quei mattacchioni di Ciccsoft distribuiranno un foglio sulla band americana a metà tra il buffo e il nostalgico che si avvale di firme prestigiose, e della mia, anche.
Vasco Brondi, Enzo, Accento Svedese e Simone sono stati chiamati a raccontare chi sono i Pixies per loro. Io ho usato la parola “sbilenco”, più di una volta. Se non siete in piazza Castello stasera, potete scaricare il tutto qua.
Grazie a voi che leggete e ai Ciccsoft boys per la preferenza.

"Quando sento gli Amor Fou, mi viene voglia di invadere Modo"

Lettrici, lettori, domani c’è un altro appuntamento con OffMaps@ModoInfoshop, la rassegna che sposta il chiacchiericcio musical-radiofonico di Maps negli spazi della libreria di via Mascarella a Bologna.
Siccome venerdì gli Amor Fou portano il loro nuovo disco I Moralisti al Locomotiv Club, per un live da non perdere, noi abbiamo chiesto a Alessandro Raina e Leziero Rescigno (rispettivamente voce e chitarra e polistrumentista della band) di chiacchierare insieme di pop italiano. Faremo un bell’excursus (si spera) tra i primordi della “musica impegnata”, passando per l’invenzione del cantautorato, fino ai giorni nostri, in cui la canzone italiana si divide tra numerose proposte di qualità e la monnezza dei talent show, o presunti tali.

Non solo chiacchiere, però, c’è anche della musica: i ragazzi, infatti, suoneranno un paio di canzoni dal vivo, apposta per la serata.
Appuntamento quindi alle 2130 da Modo, domani. Per saperne di più, cliccate qua.

The Residents, The Texas Chainsaw Massacre e l'inossidabile Sigmund

Non sapevo davvero cosa aspettarmi dal concerto dei The Residents di venerdì scorso all’Estragon. La band, in attività da una quarantina scarsa d’anni, è davvero uno dei casi più strani della storia della musica del secolo scorso. Non si sa chi siano, non rilasciano interviste, non appaiono mai senza maschere e, soprattutto, da decine di anni fanno esattamente la musica che vogliono, senza alcun tipo di compromesso, perseguendo la loro visione artistica (e quanto è bello usare questo termine quando ha senso).
Il locale alla periferia nord di Bologna, l’altra sera, si presentava già in maniera diversa dal solito: tutti seduti, un palco che ricordava una sorta di salotto, con tanto di abat-jour, televisione e poltrona. Tutti si chiedevano come sarebbero apparsi sul palco Randy e soci (i nomi li sappiamo, ma vuol dire ovviamente poco). Vestiti da conigli? Nel classico costume a forma di globo oculare?

Poco dopo le 22, i tre Residents rimasti hanno fatto la loro comparsa: Randy con una calotta di gomma che gli copriva metà faccia e gli dava le sembianze di un vecchio dai capelli lunghi e l’aria spettrale, gli altri due con delle maschere nere e parrucche. Ed è iniziato lo spettacolo. Già, perché dire che quello della band californiana (si sa anche questo) sia un concerto è scorretto, non solo riduttivo. La musica e le “canzoni”, si alternano a video e lunghe narrazioni di Randy: tutto è esplicito. “Benvenuti nel nostro salotto, oggi vi racconterò delle storie. Alcune di esse sono spettrali.”
E via con gente sepolta, il “popolo dello specchio”, apparizioni e fantasmi, tutte storie narrate come si farebbe intorno a un camino, ma con un livello di inquietudine, trasmesso dall’impatto visivo dei tre, decisamente maggiore.

Durante lo spettacolo ho riflettuto su quello che stavo vedendo, a partire da un dato curioso: il primo disco dei The Residents è uscito nello stesso anno di Non aprite quella porta. Un caso? Forse, ma le assonanze tra i due eventi (e lo spettacolo di venerdì) sono tantissime.
Il film di Tobe Hooper, lo sapete, è agghiacciante: trenta e passa anni dopo la storia di alcuni ragazzi “normali” che vengono massacrati da una famiglia non tanto normale, che abita in una casa ordinaria, in una città come ce ne sono migliaia negli USA, è uno stereotipo. Ma all’epoca il film scioccò non tanto per la violenza del film (che pure è pesantissima), quanto proprio per l’idea che l’orrore fosse dietro l’angolo, a portata di mano, nella pulita e linda (per modo di dire) America. In realtà già da qualche anno il cinema americano indipendente sfogava i mostri dell’inconscio collettivo attraverso un nuovo modo di fare horror: ma i morti viventi di Romero (1968) erano altro. Erano zombie, non (più) umani, uscivano dalle tombe: un’ottima metafora psicanalitica, ma anche una presa di distanza, qualcosa che poneva un’area di sicurezza, per quanto labile, tra la quotidianità e l’orrore. Non aprite quella porta, invece, inizia con un cartello che dice, in sostanza, che la storia è vera. Anche qua, un elemento scontato nel 2010, ma mica tanto nei primi anni ’70 del secolo scorso, sebbene si trattasse di una trovata pubblicitaria.
Insomma, era la distorsione del normale che operava negli spettatori del film di Hooper: la famiglia degli sterminatori era, in fondo, una famiglia, con le sue regole e le sue posizioni. E la famiglia, si sa, sta alla base di quasi tutte le forme sociali, è il primo legame e legante. Da notare, inoltre, che il salotto ha una sua importanza, nell’economia del film.
Cosa c’entra tutto questo con The Residents?

Pensiamo sempre al 1974: il loro primo disco si chiama Meet the Residents, e l’assonanza con l’edizione americana del quasi omonimo disco dei Beatles ha come correlativo la copertina, che vedete qua a fianco. Una distorsione, corrosione, stravolgimento della comunque riconoscibilissima immagine del disco degli inglesi, che comunque, quattro anni dopo lo scioglimento, erano una certezza, qualcosa di condiviso. Ma andiamo alle canzoni: la prima è uno stravolgimento totale della hit portata al successo da Nancy Sinatra “These Boots are Made for Walking”. E si continua con urla, melodie popolari passate al tritacarne, schizzi di acido su strutture ben note (familiari!) della tradizione americana, o anglosassone. Tutto è riconoscibile, eppure diverso. Esattamente come il salotto sul palco dell’Estragon.
Ma non mi sto inventando niente: il buon Freud aveva capito (e spiegato) tutto nello stracitato saggio sul perturbante che, come sapete, in tedesco si dice Unheimlich: una parola che include ed esclude allo stesso tempo la vicinanza, la familiarità, il riconoscibile.
The Residents hanno messo in scena la stanza della condivisione familiare, il salotto, e hanno raccontato da là delle storie, un altro elemento di coesione sociale e culturale. Ma le storie erano distorte, bizzarre, inquietanti. Il continuo passaggio da riconoscibile/riconosciuto, familiare/vicino, noto/esperito, a sconosciuto, lontano, ignoto è quello che ha fatto sì che fossi affascinato, spaesato e turbato allo stesso tempo.
E, quando sono usciti di scena sulla melodia poi presa dalla Coca-Cola per un famoso spot, ho capito che, ancora una volta, il lato oscuro degli USA, e non solo, è appena più in là del celebrato “American way of life”. Probabilmente, dietro quella porta chiusa che dà sul salotto.

L'importanza di sorridere mentre si suona

Il concerto degli Efterklang al Covo di mercoledì scorso, diciamolo subito, è stato eccezionale: la band, dal vivo, dà molto di più che su disco, sebbene la qualità, l’inventiva e le capacità musicali dei danesi siano evidenti anche ascoltando i loro brani registrati in studio.
Sette musicisti sul palco, ognuno dei quali con in mano almeno due strumenti, oltre alla voce: raramente il leader, Casper, era da solo a cantare. I brani, per lo più estratti da Parades e dall’ultimo Magic Chairs, sono stati resi in maniera perfetta, superando anche i ben noti problemi di acustica del club bolognese (tanto di cappello a chi si è occupato dal gravoso compito di curare i suoni).

Ma questo è stato solo uno dei motivi che mi ha fatto rendere conto della bellezza del concerto al quale stavo assistendo. Ne ho visti di concerti perfetti, ma raramente ho visto l’emozione nei musicisti. Purtroppo sempre più spesso ti capita di guardare ventenni con un disco all’attivo che sono freddi come il ghiaccio: ogni loro mossa, ogni accordo, mostra consapevolezza e un distacco che io mi posso aspettare da gente che calca le scene da decine di anni, non da ragazzini che, per quanto bravi, chissà se dureranno fino al terzo album. Gli Efterklang, invece, mostravano riconoscenza. Erano meravigliati del calore e dell’affetto del pubblico del Covo. Ringraziavano, ma sinceramente, tutti quanti, guardandoci in faccia, viste le dimensioni del palco e del locale. E, soprattutto, erano felici e visibilmente emozionati, senza che questo intaccasse minimamente la perfezione dell’esecuzione dei brani. Sorridevano, perché si rendevano conto di essere fortunati a fare quello che stavano facendo, davanti ad un pubblico di una città poco conosciuta nell’Italia centrale che dimostrava di amarli. Nel giro di qualche canzone, si è innestato una specie di circolo virtuoso, che ha esaltato tutti, anche dopo la fine del concerto. Sull’autobus del ritorno, un ragazzo ci ha visti e ha solo detto, con un sorriso smagliante: “C’eravate anche voi due, eh?”. E non ha aggiunto altro, perché bastava quello.

È tornato, e non è da solo


E te pareva che Trent Reznor se ne stesse buono per un po’. Impossibile. Dopo l’annuncio dato alla fine di aprile, è apparso ieri il primo brano della nuova creatura del leader (o ex?) dei Nine Inch Nails. Il nome, How To Destroy Angels, è preso da un disco dei Coil (buono). Insieme a lui ci dovrebbero essere vecchi compagni di avventura (buono) e sua moglie Mariqueen Maandig (meno buono).
Comunque, qua potete sentire “A Drowning”, un brano che anticipa un ep la cui data d’uscita è fissata per quest’estate.
Speriamo bene…

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