I’ve Just Seen A Face

Referrers – Gente che cerca altro -10

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10. frasi collega pensione

Gli dispiaceva che il Biraghi se ne andasse in pensione. Se lo meritava, eh, dopo trentacinque anni in quel posto, se lo meritava. Ma sentiva che gli sarebbe mancato, dopo quasi venticinque anni passati vicini. “A te non ti mancherà”, gli aveva detto pragmatica sua moglie. “A te ti scoccia che questo vuol dire che anche tu, dopo il Biraghi, te ne andrai in pensione.” E con un perfetto sillogismo, aveva aggiunto: “Il Biraghi se ne va in pensione perché è vecchio, tu senti che questo vuol dire che anche tu tra un po’ andrai in pensione, quindi anche tu sei vecchio.” “Tra un po’”, aveva aggiunto lui, sottovoce. Ma la frase fu coperta da un forte colpo di tosse della moglie, che proiettò delle goccioline di saliva nella minestra che gli stava mettendo nel piatto. “Comunque, se io sono vecchio, anche tu…”, disse, ma non riuscì a finire. “Ci siamo sposati che io avevo ventidue anni, e tu ventisei, ricordi? Bene, fanno quattro anni di differenza. Io avrò sempre quattro anni meno di te. Ah!”, concluse sua moglie, sedendosi davanti a lui con un sorriso di vittoria.
Mangiò la sua minestra e pensò a che regalo fare al Biraghi. “Un pensierino, un biglietto, qualcosa.”
Chiese a suo figlio di mostrargli come funzionava internet. “Ci trovi tutto in rete”, gli aveva detto con una strana espressione. Lui sapeva a cosa suo figlio si riferiva, ma per quello aveva le pubblicità erotiche di notte, che a volte riuscivano anche a risvegliargli qualcosa là. “Usa gugl” aveva aggiunto suo figlio, e, osservando l’espressione del padre, gli aveva pietosamente mostrato il funzionamento del motore di ricerca.  “Quando hai fatto, dimmelo”, gli disse. Poi uscì dalla stanza. Rimasto solo si sentì vecchio. Suo figlio gli aveva rivolto una frase che era più adatta per un anziano genitore che non poteva più badare a se stesso. O per un bambino piccolo che aveva bisogno di aiuto per il post vasino. Guardò per qualche secondo il monitor, poi digitò qualcosa.

Alla festicciola organizzata per il Biraghi, le persone si dividevano in due gruppi: quelli che pensavano “uno in meno”, e quelli che si dicevano “tra un po’ tocca a me”, con un senso di triste sollievo. Quando venne il suo turno, gli si avvicinò con un biglietto in una busta. Biraghi ringraziò e lesse il biglietto: era scritto fitto, con tantissime istruzioni e parole come “template”, “link” e cose del genere.
“Oh”, disse il Biraghi. “Ma che è sta roba?”. “Leggi, leggi, c’è scritto tutto. Apri un blog – me l’ha spiegato mio figlio – e scrivi quello che fai, così non ti annoi, io ti leggo dall’ufficio, magari commento, ci teniamo in contatto, insomma…”
Silenzio.
“Grazie”, disse il Biraghi. Ma si vedeva che non ci aveva capito nulla.

Bella de paella!

L’ultimo arrivato tra i miei coinquilini è basco. No, non aspettatevi un rivoluzionario che parla di politica e di autonomia: ho affrontato con lui l’argomento solo una volta, e non mi è sembrato particolarmente interessato. Magari lo fa per dissimulare e domani arriva l’Interpol sezione antiterrorismo. Comunque, per quello che appare, B. potrebbe essere basco, andaluso, o galiziano. Spagnolo lo è di sicuro, non tanto per la lingua che parla, quanto per la musica che ascolta. Dalla sua camera provengono continuamente canzoni ritmate da battiti di mani e schitarrate, il cui testo è riassumibile in una parola: “Maria”. Certo, che mi capitasse in casa lo spagnolo rockettaro, con un passato dolorosamente ammesso di militanza nel fan club degli Heroes del silencio e con un fulgido presente tra i sostenitori degli Standstill, era abbastanza improbabile. Ma comunque.

B. fondamentalmente ha due passioni. La prima è il ciclismo, nel senso che è un semiprofessionista, ma in questa stagione non si pratica, quindi va solo in palestra (forse a fare spinning?). La seconda sono le ragazze, parola che lui pronuncia “ragacce”. E che ripete all’infinito, come un mantra. “Ragacceragacceragacceragacceragacce”. Penso che da quando sta a Bologna, tre mesi, B. abbia scopato un paio di volte. Non è che mi faccia gli affari degli altri. E’ proprio che lo dice. Lo si vede entrare in cucina raggiante, passano i minuti e non dice neanche una volta “ragacce”. Allora capisci. Gli fai mezza domanda e lui vuota il sacco. “Ragaccia”.

B., come tutti gli spagnoli, impara in fretta la nostra lingua e i vocaboli italiani, soprattutto nelle aree semantiche che gli interessano di più. Grazie a G. detto Peppino, adesso sa descrivere con dovizia pornografica un rapporto sessuale, dai preliminari all’orgasmo, tutto in barese stretto. Solo che lui è convinto che quell’idioma sia nazionale, quindi va in giro a dire “ciola” (indovinate un po’ quello che vuol dire) a destra e a sinistra pensando che tutti lo capiscano. Quelli che lo capiscono gli rispondono in barese e lui racconta di amplessi e di “ragacce”.
B. è affascinato dalla televisione italiana. Dice che è la televisione più bella del mondo perché ci sono solo “belle ragacce”.
Ieri B. ha visto per la prima volta in televisione, di pomeriggio, Aida Yespica. Vi tralascio i commenti, anche perché se non siete di Bari vecchia non capireste. Poco dopo ha visto, sempre in televisione, anche DJ Francesco, e i miei coinquilini gli hanno spiegato dell’affaire tra loro due. Quando ha realizzato che DJ Francesco ha presumibilmente trombato con la Yespica, B. è impazzito totalmente. Ha iniziato a dire “Es increìble” o qualcosa del genere (quando è particolarmente colpito da qualcosa, B. smette di parlare barese e torna alla sua lingua nazionale). P. gli ha detto subito dopo che la Yespica parla spagnolo come lui. “Ah sì?”, ha detto B. Un lampo nei suoi occhi.
Io faccio due conti. B. è un simpatico cazzone come DJ Francesco, è carino, giovane, forte e determinato.

Se una simil-Yespica passa da queste parti, vi faccio un fischio.

Spirito partyottico

Ne parlo con molto ritardo, è vero, ma mi capirete: ho dovuto digerire quello che ho vissuto.
Nell’ultimo fine settimana di settembre sono stato invitato a Cattolica per un dibattito sulla guerra in Iraq. Ma siccome conosco delle persone che abitano nella ridente località della riviera, sono arrivato il giorno prima dell’incontro, per stare con i miei amici. E sono uscito, sabato sera, con una mia coetanea. Quello che segue è la cronaca fedele di quello che è successo.

Siamo andati in un locale: sedie di paglia, tavolini di paglia, musica di paglia. Un perfetto locale estivo se non fosse stata la fine di settembre, o meglio, l’inizio dell’autunno. Nessuno voleva accorgersi del freddo. Le camomille e i the caldi venivano passati sottobanco, travestiti da cocktail strani ed esotici, guarniti, ovviamente, con decorazioni di paglia.
Poi ci siamo trasferiti in un Irish pub. Io credo che ormai in Italia ci siano più sedicenti Irish pub che pizzerie. Mi immagino uno che vuole aprire un locale, e pensa: “Sono ad un metro dal porto, farò la maggior parte dei soldi da giugno a settembre… Che locale faccio?” In quel momento vede il suo vicino che apre il locale-tutto-di-paglia di cui sopra, e decide, mestamente, di aprire un Irish pub. Ma ci crede, ed ha una lista di birre da fare invidia ad un locale di Dublino. Ma se ne fottono tutti, e ordinano solo delle medie alla spina. Ecco perché i proprietari di Irish pub iniziano, un po’ alla volta, a decorarli con sgabelli afro.
Ma torniamo a noi. In questo pub siamo in tanti, oltre a me e alla mia amica: uno di quelli seduti al mio tavolo tiene in bella vista un palmare. Chiedo che lavoro faccia, per avere un palmare. “Ha una ditta di cancelli elettrici”, dice la mia amica. “Ah”, dico io. E lo guardo mentre illustra le mille funzioni del suo orologio. Per testarlo, manda una mail dall’orologio al palmare, con un mp3 in allegato che viene fatto suonare sullo stereo del locale. Applausi a scena aperta. Immagino che, se ci fosse una giustizia divina, non dovrebbe ricordarsi dove ha messo il telecomando del cancello di casa sua.
“Sono stufa di stare qua”, dice la mia amica. “Uh?” faccio io, poco prima di premere il grilletto. Rimetto la pistola in tasca e ce ne andiamo.
Arriviamo in un altro locale che si affaccia una delle strade principali di Cattolica. C’è un freddo porco, ma ci sono ancora i tavolini fuori e gli avventori che li occupano (tra cui il vostro eroe) sono solo parzialmente salvati dalla presenza dei fungoni riscaldanti. Da dentro il locale un casino assordante. Intorno a me gli uomini e le donne sono tutti uguali, anche di età. Ovviamente statisticamente e biologicamente non è possibile, ma loro ci provano lo stesso. Ho visto una quarantenne che era vestita in maniera molto più sbarazzina della tredicenne che aveva accanto, che, dal suo, era conciata come una vecchia battona. Le accomunava uno sguardo triste. E mi sono reso conto che stavo vedendo la riviera romagnola alla fine di settembre, con le persone che si aggrappavano all’estate con i denti (che battevano dal freddo).
E poi via, verso un posto che si chiama “Foliès”. Nonostante ci abbia passato le tre ore più lunghe della mia vita, ancora non capisco se sia stato in una discoteca a forma di circo o viceversa. Dieci euro di ingresso. Dentro una bolgia infernale. La mia amica si mette a ballare, io non ne ho voglia, e rimango in vista, appoggiato ad un palco su cui c’è il dj e due che ballano (chiamiamole cubiste). Alla mia destra uno sconosciuto che mi inizia a guardare. Io lo guardo, gli faccio un bel cenno neutro a significare “ti ho visto, embè”. Lui si avvicina e mi urla nell’orecchio: “Girati, guarda che belle le cubiste”. Mi giro: una sembra Ken travestito da Barbie. L’altra, effettivamente, è bella, ma si dimena con tale convinzione al ritmo degli Aventura che capisco che non potremo mai avere un futuro insieme. Mi rigiro. L’uomo si riavvicina. E mi dà da bere il primo di una lunghissima serie di Cuba Libre. Gratis. “Sono Pierluigi”, mi fa. “Piacere”, urlo io. Ma lui non mi ascolta, rimane fisso a guardare le cubiste.
Ad un certo punto la musica si ferma e parte l’inno italiano. Una donna vestita con il tricolore inizia a volteggiare nell’aria, sostenuta da cavi d’acciaio, e sventola due bandiere italiane. Pubblico in delirio. Pierluigi mi dà un altro Cuba libre, io manco lo ringrazio, troppo scioccato da quello che ho visto finora. Vasco Rossi remix, tre canzoni una dopo l’altra. Sento distintamente un orgasmo collettivo. E poi partono i latinoamericani. Una ragazza mi viene davanti e si agita un po’ a trenta centimetri da me. Non la guardo neanche, perché non ne ho voglia. Pierluigi mi guarda come se fossi un alieno, e mi dà un altro Cuba Libre. “A te piace solo bere, eh?” Mi ha preso per un alcolista asessuato: meglio che anonimo? Poi un altro, alla mia sinistra, mi fa: “Quella lì…” Ma la musica e alta e non capisco. Urlo di ripetere. “Quella lì ne voleva, eh, di zucca gialla”. Zucca gialla. Parte “Meu amigo Charlie Brown”, mi unisco al trenino e con questo stratagemma guadagno l’uscita. Fuori fa freddo. Inorridisco. Mi è entrata in testa “L’estate sta finendo” dei Righeira e pare che non se ne voglia andare. Rabbrividisco, mi chiudo la giacca sul davanti e me ne vado a casa.

Referrers – Gente che cerca altro – 8

Dagli stessi produttori di Neighbours, in associazione con Google, Virgilio, Yahoo! e Shinystat
8. mutismo colleghi

Le ultime parole di Bignaghi, che se ne era andato in pensione la settimana precedente, non le aveva sentite nessuno. Lui ci aveva fatto caso, ma solo perché tutto in quell’ufficio era nuovo, ci era arrivato da poco. Eppure in quel momento non riusciva a ricordarsele. Aveva bene in mente com’era vestito Bignaghi, anche dove aveva pronunciato quelle frasi, là, vicino alla porta, si ricordava il modo in cui si era girato per andarsene. Anche il tono di voce gli era rimasto impresso. Tutto tranne quello che aveva detto. Bignaghi. Una delle poche persone con le quali aveva parlato, appena arrivato in ufficio. Si lamentava sempre, come fanno le persone anziane che rimpiangono comunque i vecchi tempi: e come si stava bene prima, e un tempo si lavorava meglio. Ma cosa aveva detto? Come in un sogno, la bocca di Bignaghi si apriva, ma non ne usciva alcun suono.
Non si aspettava una grande accoglienza, appena arrivato. Insomma, era un ufficio, e non era il primo in cui lavorava. Ma da qui a non essere quasi salutato, né ad avere risposta ai suoi saluti, beh, ce ne passava un po’. I colleghi del suo reparto se ne stavano sempre appiccicati al computer, leggevano qualcosa sullo schermo, cliccavano, scrivevano. Ogni tanto qualcuno rideva, o si rivolgeva ad un vicino e gli strizzava l’occhio. Lui non aveva vicini: l’avevano messo in una scrivania un po’ isolata, che guardava le altre. Si sentiva come un maestro sulla cattedra in una classe che non lo considerava minimamente. Ma a cosa poteva essere dovuto questo atteggiamento che portava ad un silenzio di tomba, interrotto solo dal clic del mouse e dal rumore dei tasti premuti? Non riusciva a capirlo.
Anche quel giorno nessuno lo salutò, e decise di protestare a modo suo, non facendo nulla tutto il giorno. Sfogliò quotidiani on-line, fece una decina di test sulla personalità, e giocò a una ventina di Tetris diversi. Poi aprì Google e scrisse nella finestra di ricerca qualcosa a proposito della tremenda situazione che si trovava a vivere in ufficio. Click. Si aprì la pagina di ricerca.

Qualche giorno dopo arrivò in ufficio ed ebbe la sorpresa di trovare la sua scrivania accanto alle altre. Nel suo blog un commento da parte dei suoi colleghi, che gli auguravano il buongiorno. Si sentiva integrato e felice. Come un lampo gli venne in mente quel vecchio coglione di Bignaghi e le sue ultime parole: “Queste macchine vi stanno rovinando la vita! Me ne vado prima che sia troppo tardi!”. Sorrise mestamente e indirizzò un insulto mentale al collega in pensione. Erano le nove e trenta del mattino e stava per fare il primo giro di blog della sua giornata lavorativa.

Guida per la matricola – terza parte

5. Sesso e relazioni sociali
Un dato fondamentale vi ronza nella testolina, lo so. Novantamila studenti universitari. Diciamo, rispettando le proporzioni mondiali, quarantamila uomini e cinquantamila donne dai diciotto ai trent’anni, mantenendoci larghi. Quindi: Alma mater ormonum. La primavera a Bologna è una stagione considerata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, ma come fare a non limitarsi alla contemplazione di bei giovani e belle giovani? Una cosa fondamentale da scegliere è come gestire la vita universitaria, la scusa per la quale siete a Bologna. Dunque: per coloro i quali fanno facoltà a netta prevalenza maschile, come ingegneria, consiglio di andare a studiare da qualche parte nelle biblioteche di via Zamboni. Ma anche di studiare qualcos’altro: se andate al 36 (ricordate?) con un libro che si chiama Integrated Mechanics and Application in Modern Stuff Building, è decisamente dura farvi passare per un romantico e maledetto studioso di filosofia. Secondo me per questo gli ingegneri sono stressati: perché perdono un sacco di tempo che dovrebbe essere dedicato alla studio andando nelle sale di lettura delle facoltà umanistiche. E poi devono studiare di notte. Non a caso ho parlato di maschi iscritti ad ingegneria. Le ragazze che fanno la stessa facoltà, infatti, sono una ventina, si conoscono tutte per nome, e, indipendentemente dalla loro bellezza o simpatia, sono oggetto di attenzioni vagamente pesanti nei confronti dei loro colleghi, che le guardano come si guarderebbe una pozza d’acqua nel deserto. Sì, con la lingua di fuori.
Ci sono facoltà che storicamente sono dominate dalla presenza femminile: una su tutte Scienze della formazione. Le ragazze di Scienze della formazione, però, hanno un debole per gli ingegneri (e vediamo domani che succede in via Zamboni).
Capita, a volte, di essere fermati per strada da persone a caso. Di solito queste sono di tre tipi, assai accomunabili.
1. ciellino: subdolamente vi offre il suo aiuto, perché sembrate disorientati (e lo siete). “Sono dello Student Office“, dice. Furbetto: chi penserebbe che dietro ad una sigla dal suono tanto ufficiale si possa nascondere un’organizzazione come CL? Del resto anche la setta di Charles Manson si chiamava “La famiglia”. Queste sono scelte azzeccate di marketing, c’è poco da fare. Con la scusa di avere le ultime dispense su cui preparare il temibile esame di diritto privato, il ciellino (o la ciellina) vi attirerà in una morsa di rosari, appartamenti di soli maschi e di sole femmine (questi ultimi hanno sempre destato in me un certo interesse – sociologico, ovviamente), messe cantate obbligatorie alle sei del mattino. Quindi dite “no grazie” e andate avanti. Ma ecco che vi ferma il
2. marxista: siete di sinistra? Bene, Bologna è il posto che fa per voi. Perché le organizzazioni politiche universitarie non si accontentano di distinizioni bipolari, e neanche di schieramenti paralleli all’ordine parlamentare. No. A Bologna potete scegliere tra marxisti-leninisti, trozkisti, internazionalisti, anarchici, stalinisti, socialisti rivoluzionari. E sicuramente mi sfugge qualche gruppo. Ognuno di essi ha la sua rivista (noiosissima, roba che in confronto Il Capitale si legge con la velocità di un Almanacco di Topolino), e, ovviamente, ognuno è in lotta con l’altro. I marxisti-leninisti, in particolare, hanno una tendenza catechista: vi fermano per strada e vi propongono di partecipare a delle “Lezioni di marxismo”. Voi, che vi sentite dei marxisti un po’ parvenu, senza titolo di studio, decidete di partecipare, e lasciate al marxista in questione (o alla marxista) il vostro numero di telefono, sperando che, chissà, con la scusa delle lezioni… Invece no. Quelli vogliono la vostra anima e, se non la ottengono, ve la rompono. Se non andate ad una lezione, vi chiamano a casa, e vi chiedono la giustificazione: dico sul serio. Conosco delle persone che per sfuggire alla persecuzione dei marxisti-leninisti, sono sotto il programma protezione testimoni. Quindi non date il vostro numero di telefono, chiedetelo voi al prossimo. Ehi, marxista-leninista che leggi, non mi sto riferendo a te;
3. punkabbestia: il punkabbestia ha comunque bisogno di un’interazione con voi. O perché vi deve vendere il fumo (ottimo per terreni accidentati, con buon battistrada, ma non eccellente per usi psicotropi), o perché deve chiedervi qualcosa, di solito una cartina (non fate gli spiritosi: non si è perso), o un chilum, o un fazzoletto per pulirlo, o una sigaretta, o degli spiccioli. Voi comportatevi come credete, sta a voi decidere cosa dare e quanto. Ma non vi preoccupate se, ad un vostro rifiuto, il punkabbestia vi urla dietro “borghese di merda” (capita, capita…), anche se avete mandato a fanculo il marxista-leninista: non siete dei borghesi di merda. Basti pensare che i piercing del punkabbestia costano quanto tre mensilità del vostro posto in tripla sopra gli sfiatatoi delle cucine di McDonald’s. Quindi, tirate dritto e andate in sala studio. Lo scopo non è finire il capitolo sulla letteratura cilena, ma rimorchiare la persona a fianco alla quale vi siete seduti. Casualmente, eh.

Nella prossima puntata: musica e cultura.

Guida per la matricola – seconda parte

La casa che a Bologna non potrete mai avere (anche perché i colli non sono così alti)

3. Vitto e alloggio
E qua si apre un capitolo potenzialmente infinito. Nel senso che il vitto, ma soprattutto l’alloggio, sono uno dei problemi che ci si trova ad affrontare da subito. E’ più facile trovare un loft in equo canone a Manhattan che un posto in tripla a Bologna, si dice. Ed è vero. Il consiglio è di guardare gli annunci attaccati sui muri della zona universitaria, anzi, di guardarli mentre vengono appesi. Infatti resistono sui muri più o meno trenta secondi. E nessuno prende un bigliettino con un numero di telefono. Annientare la concorrenza è fondamentale, nella lotta spietata per l’alloggio, quindi è bene memorizzare il numero di telefono e ingoiare per intero il foglio di carta su cui è scritto.

Lei troverebbe facilmente casa a Bologna (se non rivela di essere argentina, quindi molto meridionale)

È molto facile trovare casa a Bologna se si è una ragazza, possibilmente del nord, figa, ricchissima, vergine-ma-pronta-a-darla, non fumatrice, che fa settimana corta, iscritta a ingegneria, giurisprudenza o economia. Anche se non volete sobbarcarvi una costosa operazione di cambio di sesso, più economica di una singola in zona tangenziale, comunque, non dovrete mai, ripeto mai, dire che siete iscritti all’Accademia di belle arti o al Dams. Per l’occasione preparate l’esame di analisi uno e di diritto costituzionale, anche se il sogno della vostra vita è studiare la storia del documentario nei paesi in via di sviluppo. Delle nozioni base di matematica e giurisprudenza potranno tornare utili nei colloqui preliminari per la casa, e, dovesse andare male al Dams, potrete cambiare facoltà in un battibaleno.
Le case a Bologna non sono come nella splendida sit-com Via Zanardi 33. Sono delle stamberghe fatiscenti, quasi tutte. Oppure sono degli open space con vista su piazza Maggiore: ma il canone mensile se lo può permettere solo Cordero di Montezemolo quando le Fiat non sono in calo. Quindi abituatevi a chiudere un occhio se i rubinetti della vostra futura casa perdono, se le porte non si chiudono bene, se l’impianto a gas non è a norma. E’ già tanto che abbiate un tetto. Se siete riusciti a vedere una casa e vi sembra che i vostri probabili futuri coinquilini siano normali, scappate a gambe levate. Per una sorta di disegno divino, almeno un coinquilino deve essere un pazzo furioso, che lava la bicicletta nella vasca da bagno o mette i pezzi della Vespa nella lavastoviglie (per inciso: questi sono due cose realmente fatte da uno dei miei coinquilini, un giorno ne scriverò). La convivenza universitaria è un’esperienza formativa quanto fare il militare. Con la differenza che pagherete moltissimo per farla. Ma è un investimento per il futuro, come un master. E non dovete andare in giro con la cravatta.
Per quanto riguarda il cibo, sappiate che potete procacciarvelo posti diversi. Ci sono i supermercati, ma quelli del centro costano come se le banane e le scatolette di tonno fossero disegnate da Cartier. Ci sono i vari piadinari, take away, indiani e cose del genere. Ma spesso tutto sa di piadina. E infine ci sono i vari negozi di alimentari dei pakistani, il cui vantaggio è che sono aperti sempre, sempre, sempre. Certo, il pane è gommoso, la verdura vi saluta quando entrate nel negozio e vi conviene pagare un pacco di pasta col bancomat, ma ogni cosa ha il suo prezzo. E poi sembra di andare a fare la spesa da Apu dei Simpson.

4. Droghe (bici)
Di solito nelle città la disponibilità di droghe è direttamente proporzionale al numero di giovani presenti. Fate conto che a Bologna ci sono 90000 studenti. Ho detto tutto.
Ai miei tempi, diciamo nel 1996, quando si usciva dalle lezioni, si veniva letteralmente invasi dagli spacciatori, che offrivano per lo più del fumo, di qualità media. Adesso come adesso la qualità della roba che si trova per strada è nettamente peggiorata: non compratela, tanto vale fumarvi la ruota di scorta della macchina, e il prezzo più o meno è quello. Se qualcuno vi offre dell’erba, non accettatela. O è talmente piena di ammoniaca che quando ve la fumate vedete la vecchietta dell’Ace che vi insegue, o è imparentata con la marijuana solo in quanto facente parte del regno vegetale. A questo proposito: fumare il prezzemolo o il the non fa alcun effetto. La malva sì, ma di questo, un’altra volta.
A Bologna è abbastanza tollerato che si fumi per strada. O meglio, se alle forze dell’ordine girano i coglioni, vi arrestano anche se rollate una legale sigaretta di tabacco, ma comunque, diciamo che vige abbastanza il fatto di chiudere un occhio. Detto questo, evitate di urlare “Avete un chilum?” per strada, e, soprattutto, non passatelo ai carabinieri. Per quanto per voi possa essere un gesto di fratellanza, loro non la vedono così, inspiegabilmente.
Un’altra cosa. Se qualcuno vi ferma per strada sussurrando “bici”, non vi sta offrendo una pastiglietta magica che vi farà correre come se foste Coppi. Vi sta proprio offrendo un velocipede. In tal caso, comportatevi come se foste a Marrakech: abbassate il prezzo. Tanto poi la stessa persona che vi ha venduto il mezzo, ve lo ruberà e lo rivenderà. A meno che non abbiate la faccia tosta di un conoscente che (giuro) è andato da uno e gli ha iniziato ad urlare in faccia che quella che stava vendendo era la sua bici, e non era assolutamente vero. Il malcapitato, dopo avere tentato una blanda opposizione, ha capitolato, e gli ha ceduto la bicicletta.
La bicicletta è fondamentale a Bologna: scorrazzare su due ruote è bello ed entusiasmante. Tutti vanno in bicicletta a Bologna. Fino a che non viene loro rubata. A me hanno rubato due biciclette, di cui l’ultima era bellissima, legata ad un palo con due lucchetti di sedici chili. Provate i lucchetti da venti.
Ma via Zamboni non è solo fumo e bici: può capitare che vi vengano proposti anche altri oggetti. Negli ultimi otto anni mi sono stati offerti: cellulari, una penna stilografica, un motorino, un casco, un cd portatile, e una chitarra classica. Con custodia. Perché loro alla soddisfazione del cliente ci tengono.

Nella prossima puntata: sesso e relazioni sociali.

Guida per la matricola – prima parte

1. Orientamento

“Girando ancora un poco ho incontrato uno che si era perduto
gli ho detto che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino
mi guarda con la faccia un po’ stravolta e mi dice “sono di Berlino””.
Lucio Dalla, “Disperato erotico stomp”

Allora, il mio senso dell’orientamento fa schifo. Davvero, una volta mia madre mi ha trovato in cucina che urlavo “dove sono” e preparavo dei bengala per segnalare la mia posizione. Ma a Bologna non mi sono mai perso. Fondamentalmente Bologna è un’ellisse, il cui perimetro è formato dalle mura. I due fuochi dell’ellisse sono le due torri, abbastanza visibili, direi, e piazza Malpighi. L’asse che unisce questi due fuochi è formata dalle vie Rizzoli e Ugo Bassi, al centro del quale ci sta Piazza Maggiore. L’asse è messa in asse con la via Emilia, quindi teoricamente potreste andare da Piacenza fino a Rimini andando sempre dritti, passando per piazza Maggiore. Rispettando i semafori, si intende. Le strade del centro o sono dei raggi che si dipartono dai fuochi e arrivano alle mura, cioè alle porte (dodici), o sono parallele rispetto ai viali stessi. I numeri civici decrescono mano a mano che ci si avvicina al centro.
Facile no?
Bene. Adesso che avete comprato una cartina, potete addentrarvi nel centro di Bologna.

2. Università
Congratulazioni! Vi siete iscritti nella più antica università del mondo occidentale. È per lei che siete a Bologna, almeno ufficialmente. L’università di Bologna, Alma Mater Studiorum (trad.: l’anima de tu’ madre e degli studi), è stata fondata nel 1088 e le cose, a livello organizzativo, non sono poi cambiate molto. Le principali facoltà sono tutte intorno a via Zamboni. Segnatevi questa via, perché, casualmente, intorno ad essa ci sono anche copisterie, librerie universitarie, bar, sale studio, biblioteche, donne e uomini disponibili, spacciatori, biciclette, annunci che offrono stanze e posti letto, birra.
Volete impressionare le persone che incontrate? Ecco un trucchetto.
A Bologna i numeri civici di via Zamboni (intitolata ad un antifascista, non al chitarrista dei CCCP) sono comunemente usati per indicare l’istituto, la facoltà o qualsiasi cosa si trovi a quel numero. Quindi, se qualcuno vi dice “ci vediamo al 36”, vorrà dire alla Biblioteca di Discipline Umanistiche. Il 38 è la Facoltà di Lettere, il 33 la Biblioteca di Arti Visive, e così via. Attenti a non dare un numero sbagliato, o darete un appuntamento in una casa privata o, peggio, in una libreria di zootecnica.
Ovviamente esistono delle superstizioni legate alla carriera universitaria (il compimento della quale è notoriamente uno degli ultimi obiettivi da perseguire nella città felsinea). Per esempio, pare porti sfiga attraversare diagonalmente piazza Scaravilli, quella della facoltà di economia, o anche il portico dei Servi, vicino a Scienze politiche. Si dice anche che salire sulle Torri prima della fine degli studi fa sì che non vi laureiate mai. Io, per sicurezza, non ho fatto nessuna delle cose sconsigliate. Mi sono laureato. E sono quasi disoccupato. Sono cose.

Nella prossima puntata: vitto, alloggio e droghe.

Giorni indipendenti: cronaca da un festival, tra il musicale e il mondano

A me i festival musicali, di solito, non piacciono. Troppi gruppi, pericolo di distrazione e di bulimia, tempi stretti. Ma quando mi è stato proposto di fare la diretta dell’Independent Days Festival per Popolare Network insieme a Elisa, non ho avuto dubbi e ho accettato. Insomma, due giorni di concerti gratis, con pass all areas, voglio dire… E quindi eccoci, alle dodici e qualcosa del 4 settembre, entrare nell’Arena Parco Nord.

Sabato 4 settembre

Da Ginsberg ai 3 allegri ragazzi morti. Scusa, Ginsberg.
Il primo personaggio che vedo lascia il segno. Un ragazzo dal capello lungo e luccicante (non ho voluto indagare se per eccesso di sudore, acqua o strutto) si aggirava per quella landa brulla e battuta da sole, con indosso un camice bianco. Si inginocchia per terra a caso, e urla: “Il re della poesia è Ginsberg!” Quando qualcuno gli chiede delucidazioni, si rialza, si calma un po’, poi chiede: “E lo sai qual è il re della prosa?” Si inginocchia di nuovo e urla, brandendo un libretto: “Jack Kerouac!”. “Forse è il figlio della Pivano”, ho pensato.
Sul palco si avvicendano i primi gruppi e, siccome la diretta inizia alle sei, ho tutto il tempo di guardarmeli. Di solito per non più di cinque minuti.
I Ray Daytona, però, sono simpatici. A parte la mia passione smodata per il garage (fans dei Fuzztones, a me!), è sempre bello vedere delle persone mascherate sul palco. Uno da martello, uno da chiave inglese, uno con la maschera antigas e uno… da uomo. Sì, sul palco dei Ray Daytona c’era un uomo con sopra un travestimento da uomo. Coi baffi. Forse l’omino sotto era sprovvisto di peluria facciale, chissà.
I Colour of Fire quando salgono sul palco si lamentano, perché il loro “Cheeao!” non è accolto dal pubblico come si deve. Quindi il cantante esclama, stupito: “Che razza di benvenuto è questo? Veniamo dall’Inghilterra!” In quel momento ho sperato che un siciliano lo minacciasse in dialetto stretto di salire sul palco e di spaccargli la faccia, se non la smetteva di dire cazzate e non iniziava a suonare.
E poi, I tre allegri ragazzi morti, che indossano maschere e fanno proclami. E la guerra. E la pace. E l’amore. E che due palle.

Gente, gente, gente, divertente (ma che bella situazione)
Avete presente le barzellette della Settimana Enigmistica dove si vedono i padroni dei cani uguali ai loro animali? Ecco, ai festival è così. L’Arena, sabato, era piena zeppa soprattutto di fan-sosia di Nick Oliveri. Omoni baffuti e con cappellino da camionista, che li vedi e sogni le grandi highway del Midwest. Poi li senti parlare e sono al massimo di Savona.
Stare vicino alla postazione mixer con il pass di cui sopra, inoltre, fa sì che si venga visti dal pubblico come degli oracoli, prodighi di saggezza e sapere. Mi è stata chiesta la scaletta circa settanta volte. E una quarantina di persone mi hanno chiesto “Ma i dEUS non suonano?” Ogni volta che ho confermato la triste notizia, le reazioni sono state da “Ah, vabbè, ma tanto piacevano solo a quello stronzo del mio ex”, fino al tentativo di suicidio. Dopo un po’ mi si avvicina un tizio e mi chiede “Oh, ma i Keane?”. Ho fermato un paio di fan dei dEUS che lo stavano per incaprettare.
L’altra gettonatissima domanda era: “Ma dov’è la tenda Estragon?” La mia risposta brevettata era un “là” accompagnato da ampio movimento del braccio, a comprendere tutto l’orizzonte. Ho smesso di indicarla quando uno mi ha chiesto se ci volesse la macchina, per raggiungerla.
Evidentemente il fatto che ci fossero due palchi non visibili l’uno dall’altro ha gettato nel panico tutti. In particolare una coppia, presumo piemontese, quarant’anni circa a capoccia. Lei mi approccia, da dietro le transenne, e mi inizia a chiedere dei due palchi, ma non chiamandoli “palchi”, bensì “situazione”. “Senti, ma in questa situazione qua suona Mark Lanegan? Ma quell’altra situazione dov’è?”. Ho ripreso immediatamente a sbracciarmi verso l’orizzonte e le ho fatto credere che Mark Lanegan fosse con i dEUS a bere pinte di Stella Artois a casa mia.
Dopo l’esibizione del suddetto Mark, si avvicina l’uomo della coppia. “Come ti è sembrato Lanegan? No, perché l’ho visto a Urbino, qualche anno fa, e mi sembrava meglio”. Io faccio la faccia del che-ne-so. Poi si avvicina, e mi sussurra: “Ma che c’è qualcosa che non va a Lanegan? No, lo chiedo a te, perché magari lo sai” e mulina la manina come per dire “birra e salsicce”. Io faccio la faccia di prima. “Ah, non sai un cazzo, eh?” E se ne va, con la sua compagna, verso nuove ed entusiasmanti situazioni.

Bloggerz (e non solo)
Poco tempo per stare con loro, peccato, perché finalmente ne ho visto qualcuno che aspettavo da tempo di vedere!

La musica che non conta e non riempie, quella che conta e ti fa saltellare, quella che commuove
Spiegatemi perché esistono The Libertines. No, veramente. Proprio come l’acqua fresca quando non hai sete. Mah, magari sono gretto io.
I Franz Ferdinand li avevo già visti, e li aspettavo alla prova del grande pubblico da festival, dopo l’abbraccio accademico virtuale del pubblico del Covo. Beh, ce l’hanno fatta anche stavolta. E voci fidate del backstage mi hanno detto che sono tranquilli, modesti e proprio tanto gentili e simpatici. Mando un sms a Karol, che dite? Quattro più, quattro meno…
E infine loro, i Sonic Youth. Ecco, quando hanno iniziato con “I love you golden blue”, ho maledetto il fatto di non potermi gettare nel pubblico, sbattendomene della diretta nazionale. Un’esibizione bellissima, con un inizio incerto su “100%” che l’ha resa ancora più preziosa. Sono andato ovviamente a fare una foto, durante “Teenage Riot”. Beh, vedete qua che è venuto fuori. Si può fotografare il rumore del feedback? Forse sì.
I Sonic Youth finiscono il concerto verso mezzanotte e qualcosa, noi abbiamo la diretta fino a mezzanotte e mezzo. Ma qualcuno dell’organizzazione non lo sa, quindi ci toglie la corrente prima. Le mie ultime parole sono state: “Allora, Elisa”. Bel titolo per una canzone. Mi chiedo se qualcuno ci abbia già pensato.

Domenica 5 settembre

Fashion Nuggets
La cara Bea non ne avrà a male se rubo il nome del suo blog per questa parte di post. Del resto lei l’ha rubato ai Cake, quindi… Si perpetra una catena di furti. Insomma, il pubblico del giorno indipendente numero due è spettacolare: ci sono adolescenti brufolosi e quarantenni che non si rassegnano, un po’ come molti dei gruppi in programma. E le magliette, di tutti i tipi, dai Metallica ai Thin Lizzy, dai Led Zeppelin ai Nirvana, dagli Ska-P a Piero Pelù. Ehm. Scusatea. Ma soprattutto non vedevo tante magliette dei Guns’N’Roses dal 1992. Incredibile quanto siano attesi i Velvet Revolver e soprattutto Slash. Sì, lo Slash che io e Elisa avevamo in programma di intervistare. Arriva un sms dall’organizzazione: “Niente domande sui GNR e sugli STP”. Io e Elisa ci guardiamo: “E mo’ che cazzo gli chiediamo?”. Ma in fondo stiamo per tornare indietro di dieci anni, senza neanche avere bisogno della DeLorean di Doc.

Slash: un simpatico quarantenne un po’ bolso
Quando veniamo chiamati dalla produzione del festival, io e Elisa siamo in fibrillazione. Slash, rendiamoci conto. Mica cavoli. Lo so, dimentichiamoci dello Slash Snakepit, tutti fanno degli errori. Mi viene in mente la mia compagna di scuola Silvia, perennemente in lotta ormonale e interiore tra le bellezze del chitarrista nicotinomane (tanto per citare una mania) e il biondo Axl. Stiamo per andare indietro nel tempo.
Per andare indietro nel tempo, però, ci vuole un’ora e un quarto di preparazione, durante la quale l’eccitazione si stempera in sentimento d’attesa e quindi in nervosismo. Intanto vediamo gli altri nel backstage. Appena vedo Slash penso: “Madonna, quanto è invecchiato”. Poi mi deprimo pensando che, poco prima, un ragazzino mi ha fatto la solita domanda della scaletta dandomi del lei. Nel frattempo mi siedo vicino alla truccatrice (?) dei Velvet Revolver, che sta appuntando una croce sul berretto militare che indosserà Scott Weiland. Il dialogo tra me e lei è surreale.
Io: “Posso sedermi qua?”
Lei: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Io: “Va bene, quando arrivano, tanto, devo intervistarli, quindi, per il momento, posso sedermi qua?”
Lei, dopo un minuto di pausa: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Per evitare il loop, mi siedo, e la guardo. Cuce questa croce sul cappello nero, e intanto tira su col naso. Ha gli occhi lucidi e il viso congestionato. Evidentemente ha pianto. Cosa nasconde nell’animo una costumista di un gruppo composto da vecchie glorie? Forse anche lei si è accorta, come me, che il tempo passa e non siamo più adolescenti?
I miei pensieri vengono interrotti dall’arrivo di Slash. Ci sediamo nel suo camerino, un’altra ragazza gli prepara un beverone energetico dal colore torbido, lui si siede, accende una sigaretta (Gitanes blu con filtro: e quando lo vedo che se la porta alla bocca penso solo “minchia”) e iniziamo l’intervista.
Slash è allegro e gioviale, parla con voce bassa e calda, sorride, ridacchia, non è avido di parole. Insomma: Slash è felice. Ed è lui a parlarci dei Guns’N’Roses, forse stimolato da una mia domanda un po’ rischiosa, su come è cambiato il pubblico in tutti questi anni.
Sei minuti intensissimi. Poi ci facciamo la foto che avete visto nel trailer, dove io ed Elisa lo imitiamo abbastanza bene, come si può notare.

Ecco l’intervista a Slash!

Kick Out the Jams
Avevo comprato il biglietto per il quattro, non per il cinque, senza pentimenti. Ma mi incuriosiva tantissimo sentire gli MC5, anzi DKT MC5, come si fanno chiamare adesso. Mi sono chiesto che tipo di operazione ci fosse dietro la reunion di un gruppo che ha fatto sì la storia del rock, ma che, in fondo, non è universalmente conosciuto. Ho risentito Kick Out the Jams, più volte, e non ne sono mai riuscito a cogliere l’essenza, in quel miscuglio di hard rock con influenze soul, ma dannatamente potente (adoro scrivere “dannatamente”). Alle 2005 di domenica 5 settembre 2004, quarant’anni dopo la loro formazione, ho capito. Ho capito che cos’è il rock-e-basta, dal vivo. Ho capito perché gli MC5 vengono da Detroit, come la Motown, ho capito vagamente che cosa doveva essere sentire quella musica nell’aria qualche decina di anni fa. Secondo momento in cui ho maledetto il mio lavoro (ballare “Kick Out the Jams” suonata da loro dietro un mixer è molto peggio dell’interruzione dell’amplesso) e decisamente miglior concerto della due giorni. Semplicemente splendidi.

L’oscurità senza fuochi d’artificio
Sono tamarri, fuori tempo massimo, commerciali e cantano in falsetto. Ma diciamolo: pur con tutti questi limiti, un paio di canzoni i The Darkness le hanno azzeccate. Quando una delle ragazze dell’organizzazione ci ha portato la scaletta della loro esibizione, e ho visto come finale prima del bis “Friday Night” e “I Believe in a Thing Called Love”, mi sono detto: “Ecco a cosa servono le prove denominate “Pyro” che ho visto su un foglio attaccato nel backstage”. E mi ha anche confortato che i case del gruppo fossero ventisei, ognuno grande come un’utilitaria. E invece niente: i Darkness hanno soprattutto usato le luci, il cantante si è cambiato d’abito solo tre volte, ha preso per il culo il pubblico e i Queen. E non è stato sparato neanche un fuoco d’artificio, niente. Che delusione.
Almeno, alla fine, nessuno ci ha staccato la corrente. Quindi abbiamo potuto salutare e concludere degnamente le nostre brave undici ore di diretta (che sono sempre meno, a vedere bene, del tempo che ci avete messo per leggere tutta ‘sta roba. Grazie.)

Quando inizi a lavorare, le vacanze si chiamano ferie – Da costa a costa in pochi giorni

Prologo – Bologna, 12 agosto
Rimanere in città in agosto non è drammatico, su. Si fa amicizia con l’unico tabaccaio aperto nel giro di sei chilometri, anche se non si fuma, e si progettano fughe d’amore con la tristissima e sottopagata cassiera del supermercato vicino casa, che continua a dirti “Ma io ti ho già visto da qualche parte”, e pare brutto dirle “Già, cinque minuti fa mi aggiravo nella zona biscotti e ci siamo urtati”. E poi ci sono tante iniziative: concerti in piazza, cinema in piazza, teatro in piazza, arene estive, lotta nel fango nei parchi, combattimenti truccati di zanzare tigri.
Il problema è che ad agosto in città è la follia umana a farla da padrona. Non passa minuto che non accada qualcosa di grottesco. L’ultima sera a Bologna prima della settimana di ferie non ha fatto eccezione.
Decidiamo di andare a bere qualcosa praticamente sotto le torri. Al tavolo accanto al nostro tre individui intorno alla quarantina che bevono e scherzano tra loro. Ad un certo punto uno di questi si alza e, prima di andarsene, dà delle pacche in testa e delle strizzatine alle palle di quello che ha la faccia più da pazzo. Dopo la decima accoppiata pacca-strizzatina, il malcapitato si ribella, si alza di colpo, prende una sedia di plastica (la sua) e fa per scaraventarla sulla schiena dello strizzatore che se ne va. Il terzo uomo non dice una parola e non fa una mossa. Beve. Lo strizzato si siede. Beve anche lui. Poi si alza e viene verso il nostro tavolo.
“Avete una sigaretta?”
Gliela do.
“Ne avete una anche per il mio amico?”
Gliene viene data un’altra.
I due fumano e bevono, ma non si parlano.
Ad un certo punto il terzo uomo, diventato secondo dopo l’abbandono dello strizzatore, sbocca. Vomita a getto al lato del tavolo, schizzando anche l’amico, che si alza di colpo e inizia a pulirsi i pantaloni. Il vomitatore si alza, ma la sua forza interiore è troppo forte. Appena in piedi, via, un’altra vomitata. Tenta di allontanarsi, e lo fa con ritmo. Due passi, una vomitata, due passi, una vomitata. Nel frattempo l’altro, vedendo la situazione disperata, si dilegua senza dire una parola. Il vomitante riesce a raggiungere un vicolo buio con la sua folcloristica camminata e scompare, lasciando numerose tracce del suo passaggio.
Vedendo la scena mi viene in mente un’atroce possibilità: quello che ha fatto conoscere lo strizzante, lo strizzato e il vomitatore è stata solo la solitudine, il caldo e un tavolino fuori da un locale. Le persone che sono con me prima bocciano l’idea, poi ci pensano e rimangono in silenzio.

Epilogo del prologo. E. rimane a dormire da me, non intende affrontare la città folle e deserta. Appena arrivati a casa mia, le arriva una telefonata da P. E. ride come una pazza.
“Che succede?” le chiedo appena finisce di parlare.
“P. mi ha detto che ha appena visto uno con addosso solo mutande e cappello. Sta venendo da queste parti.”
Corriamo alla finestra, ma non c’è nessuno. Forse l’uomo nudo ma con cappello era già passato? O la follia aveva contagiato anche P.? (musica de paura).

Sarnano, 13 agosto
Il viaggio in treno da Bologna a Civitanova Marche prevede l’ormai rituale guasto dell’aria condizionata dopo circa mezz’ora. Il controllore dice con aria serafica che non c’è nulla da fare. Dà a C. la chiave multiuso per aprire dei finestrini, bloccati per l’ipotesi di aria condizionata. Con quello strumento magico, si può smontare un treno completamente. Il controllore si accorge abbastanza presto del potere che ci ha lasciato e viene a riprendersi il prezioso attrezzo. Da Ancona in poi ogni volta che il treno si ferma, si diffonde misteriosamente un odore di fogna misto a zolfo. Incurante dell’indizio luciferino un uomo sbotta e impreca contro le Ferrovie dello Stato (che è molto più bello come bersaglio che Trenitalia). Dopo qualche minuto scompare nel nulla. Si sente di nuovo odore di zolfo.

La casa di E. (che è un’altra E. rispetto a quella del prologo) a Sarnano è bellissima. Un’enorme casa dei primi del ‘900 immersa nel verde. Fa fresco. Si aprono le Olimpiadi, e penso che sono le settime da quando sono nato. Contare le età in Olimpiadi può essere svantaggioso, a volte.
Come dice Woody Allen, la campagna dopo un po’ mi fa venire l’orticaria, ma per qualche giorno va più che bene. Verde, fresco, insetti, pomodori, colline, cieloblù.
Tanto la prossima tappa è Roma. Grigio, caldo, insetti, giapponesi e americani, i sette colli, giallorosso.
Di sera andiamo a farci un giro nel delizioso paesino medioevale. Fino a che siamo in alto sulla rocca non incontriamo nessuno. Quando scendiamo, però, iniziamo ad incrociare famiglie e gruppi di tardoadolescenti molto, molto tamarri. E. si innamora di uno di questi: continua a dire che bello è bello, ma è anche tamarrissimo. Però è bello. Eccetera. Finiamo in una piazza dove c’è uno spettacolo che è una via di mezzo tra la pubblicità di una palestra, che si chiama – giuro – “PaleXtra”, e un saggio di danza. Sul palco si muovono legnose donne dai sei ai vent’anni, che pensano di fare del “funky step” la nuova arte espressiva del ventunesimo secolo. La scelta delle canzoni usate per commentare gli esercizi è pazzesca: “Superstar”, “Who wants to live forever”, un pezzo degli Inti Illimani, “Kiss Me Licia”. Andiamo a bere una birra, e affascino la cameriera facendo il verso del grillo.

Sarnano, 14 agosto
Il Palio del Serafino è l’evento dell’estate. Le quattro contrade di Sarnano, Abbadia, Brunforte, Castelvecchio e Poggio, si sfidano su quattro prove. Il tiro alla fune, la corsa con le brocche, l’abbattimento del tronco, e la salita sul palo. La corsa con le brocche è l’unica in cui partecipano le donne. La brocca in realtà è un’orcia enorme che va messa sulla testa. Le donne corrono con ‘sta cosa piena d’acqua e il loro passo ricorda un po’ la danza del pinguino in amore. Dopo che il pinguino si è fatto sei birre medie. Il taglio del tronco è emozionante: due omaccioni per contrada prendono ad asciate un tronco. Vince a chi fa prima a buttarlo giù. Questa sono le uniche gare che prevedono che le quattro contrade gareggino insieme. Le altre competizioni sono fatte uno contro uno. Alla quinta tirata di fune e salita sul palo volevo travestirmi da tronco e farmi abbattere. Però la contrada a cui appartiene E. ha iniziato a vincere, e mi sono sentito anche io facente parte dello storico Poggio. Alla fine urlavo come un invasato e prendevo per il culo gli altri contradaioli, bullandomi della mia appartenenza da generazioni alla contrada vincente.
Tornando a casa mi sono interrogato sul profondo significato storico del Palio e delle competizioni. Mi sono immaginato rudi boscaioli all’opera sulle pendici dei monti intorno a Sarnano, donne che portavano preziosi orci d’acqua su e giù per le stradine del paese, ragazzini che salivano sugli alberi per mangiare fresche uova di rapaci. Ma il tiro alla fune: perché?

Sarnano, 15 agosto
Il giorno di Ferragosto arrivano alcuni parenti anziani di E. a pranzo. Per anziani intendo gente che ha visto tutte e due le guerre: Crimea e terza guerra di indipendenza. È un discreto tripudio di “la società va ad un’altra velocità”, “questa modernità” e “però Cavour era di un’altra levatura”. Dopo avere mangiato tantissimo, rimaniamo in stato di coma apparente fino a sera. Quindi rimangiamo, ma un po’ meno, perché il cibo del pranzo avanzato è quello che è.
Di sera, per darci una botta di vita, andiamo a giocare a minigolf. Sono cose che si fanno soltanto in vacanza, no? Entusiasmarsi per un mercatino di libri a prezzi duplicati, spendere milioni per l’affitto di mezzi di trasporto insoliti (canoe, pedalò, deltaplani), mangiare cibi fluorescenti e giocare a giochi stupidi. Il minigolf di Sarnano è complicatissimo. Un tripudio di scivoli, falsipiani, campi minati, buchi neri, spirali e varchi spazio temporali. Il tutto condito da bambini rompicoglioni che parlano in maceratese strettissimo, hanno l’aria minacciosa e mulinano in aria le loro mazze con indifferenza. Il minigolf, più che un gioco, è il prodromo alla follia. Quando la pallina non entra nel mulino dopo dieci tentativi, inizi a prendere a mazzate la maledetta costruzione in ferro, e tenti di mangiare la pallina, insultandola nel peggiore dei modi. Solo dopo ti accorgi che c’è una famiglia bellissima di stranieri che ti guarda. I loro occhi azzurri sono il netto opposto ai tuoi iniettati di sangue. Sorridi, segni “dieci” sul cartellino segnapunti, sputi con discrezione i pezzi di pallina che ti sono rimasti tra i denti, e ti riprometti, per l’ennesima volta, di smettere di bere caffè, di diminuire il numero di sigarette e di iscriverti ad un corso di yoga.

Roma, 16 agosto
L’autista che guida il pullman per Roma è il fratello tamarro di David Lee Roth. Capello lungo e biondo, camicia bianca aperta sul davanti, occhiale scuro, stivaletto pitonato a punta. E parla con forte accento maceratese.
Di sera vado a mangiare in un ristorante che ha anche il menù scritto in inglese. La pasta cacio e pepe diventa “pasta with many different cheese (sic) and black pepper”; le tagliatelle ai porcini diventano “pasta with special muschrooms (sic)”. Mi immagino orde di adolescenti americani che tornano in patria e raccontano che in Italia ci sono ristoranti che ti danno pasta con funghi allucinogeni. Però, siccome sempre di Italia si tratta, ti fregano, e non fanno effetto.
Di sera passo a rivedere il quartiere Coppedè, costruito dall’omonimo architetto negli anni Dieci del secolo scorso. Pare che questo Coppedè fosse anche un alchimista, e che abbia inserito particolari simboli e figure in tutte le abitazioni che ha progettato. Le case sono bellissime, e con le luci della notte sembrano provenire da un altro mondo. L’atomosfera fiabesca viene interrotta da alcuni ragazzi che tentano di uccidere un topo enorme. A colpi di casco. Sì, di casco, quello che si mette per andare in moto. Il topo scappa, e forse si rifugia nella sua tana nei villini delle fate. Solo lì può mettersi in ciabatte e leggere in pace il giornale.

Roma, 17 agosto
Tutti vanno a Roma per vedere il Colosseo, per entrare nella basilica di San Pietro, per mangiare pizzappepperoni. Ma pochi conoscono la grattachecca, in particolare quella di Sora Maria. Partiamo dalla grattachecca. Niente a che vedere con il cartone animato che sta all’interno dei Simpson, no. La grattachecca è un bicchierone di ghiaccio tritato condito con sciroppi di frutta e pezzetti di frutta. Quando è fatto bene. Se no, è una schifezza. Pare che il nome derivi dalla Sora Checca, una delle prime grattacheccare romane, che veniva incitata, appunto, a grattare il ghiaccio. Ma forse è una leggenda mertropolitana. La grattachecca di Sora Maria, come diciamo noi giovani, spacca. Non aspettatevi un negozio enorme, insegne o cose del genere. Si tratta di un anonimo baracchino su un marciapiede di una strada nel quartiere Prati. Quando Sora Maria è aperta, si riempie la strada, ma completamente, tipo folla che aspetta che si aprano i cancelli per un concerto. Ma alle tre donnine del baracchino (chi sarà Sora Maria, ci sarà ancora? Mah…) non importa. Veloci ed efficienti sfornano grattachecche di continuo, sorridono, fanno tutto con precisione e leggiadria. La grattachecca supermista è splendida: sciroppi e pezzetti di cocco, limone, frutti di bosco. D’estate è una meraviglia: è come farsi una doccia dentro, rinfresca le budella e fa tornare il sorriso.
Dopo averla comprata, sono andato a mangiarla seduto sui gradini di una chiesa di una strada vicina. Seduto a pochi passi da me, un uomo con un cane. L’uomo parla al cane come se fosse una persona, richiama la sua attenzione su un gatto che sta dall’altra parte della strada, predice le sue mosse e si compiace coll’animale, che, ad un certo punto, mi guarda. L’espressione che assume è umanissima ed univoca: sembra voler dire “che vuoi farci, il mio padrone è fatto così, abbi pazienza”.

Epilogo, Roma – Bologna, 18 agosto
(mi sono dimenticato di scriverlo allora, lo scrivo adesso) Di mattina mi sveglia un numero sconosciuto. Barcollo verso il cellulare, scusandomi col letto e promettendo un rapido ritorno. Dall’altra parte una voce inglese: ITV vuole ancora una volta un mio intervento in diretta, stavolta sulla bomba trovata a pochi passi dalla casa sarda di Silvio B. Rifiuto allegramente, dicendo che sono in una casa in campagna e che non so nulla del mondo. Mi sa che mi sono giocato il contatto con la reale rete televisiva… E arriva il momento di partire.
Lasciare casa di M. è sempre triste, ancora di più quando lui non c’è. Ma insomma, torno a Bologna, pensando alle belle cose che ho visto e a come sono stato bene. Sull’Eurostar su cui scrivo queste righe faccio conoscenza di due americani. Si chiamano Bob e Susan, nomi da “Indovina chi?”. Lui ha la faccia da sfigato-del-college cresciuto, ma non ha la faccia da nerd. Lei è una giovane donna un po’ bambolesca e, credo, vagamente rifatta. Ovviamente si parla dell’Italia, dell’undici settembre, di come vengono visti gli americani nel mondo. Lui ha una visione ingenua e buonista della situazione, lei lo contraddice sempre. Io do ragione a lei, un bel po’ più acuta del suo compagno. Legge un libro di Susan Sontag, o meglio, fa finta di leggerlo, perché appena lui dice una cazzata, lei interviene e lo atterra. Alla fine Bob arriva alla conclusione geniale che gli americani hanno avuto una storia diversa, quindi sono diversi. Susan aggiunge con un mezzo sorriso: “Sì, ma abbiamo grandi macchine e grandi frigoriferi e centri commerciali enormi.” Io le sorrido, sorrido anche a Bob. Poi penso che la percezione che hanno di me questi due americani è che comunque io sia rappresentato da uno con una bandana in testa.
E decido che voterò per Hulk Hogan alle prossime politiche.

Referrers – Gente che cerca altro – 7

Dagli stessi produttori di Neighbours, in associazione con Google, Virgilio, Yahoo! e Shinystat
7. bon ton fischiettare

Continuava a guardare l’invito e non gli pareva vero. Il suo nome era stampato sulla busta e anche sul cartoncino all’interno. Era proprio lui che volevano. A cena dalla contessa Floris. Una delle donne più importanti del paese. “Del mondo, altro che.”
Era stato un anno magico, culminato con l’esibizione al Radio City Music Hall, solo un paio di settimane dopo la conclusione della tournèe italiana, davanti a cinquantamila persone, allo stadio Olimpico di Roma.
Poteva dire di essere il fischiatore più famoso del mondo. Riusciva ad eseguire di tutto, dalle sinfonie di Mahler ai pezzi dei Cannibal Corpse. Il pubblico batteva le mani, si alzava in piedi, lo invocava. Non fischiava, no, sarebbe stato un affronto.
Tra poco più di un’ora sarebbe stato in mezzo a chissà quali persone importanti, nella splendida residenza estiva della contessa. Sarebbe passata una macchina e l’avrebbe portato alla villa.
Era vestito come al concerto di New York, non se ne sarebbe accorto nessuno: gli stava bene quello smoking rosso. Non troppo fine, è vero, ma doveva distinguersi, in qualche modo. Ma aveva un dubbio: e se la contessa l’avesse invitato per prenderlo in giro? La sua musica era per il popolo, per la gente, mica per i nobili. Fu preso dal panico. Non doveva fare brutte figure. Ripassò tutto quello che sapeva sulle buone maniere a tavola. Si sentiva preparato per consumare alla perfezione una cena da dodici portate, e da dodici posate, anche. La cena sarebbe finita, avrebbero fatto due chiacchiere, o forse neanche quelle, poi se ne sarebbe andato. Si sarebbe congedato, cioè, si dice così.
E se gli avessero chiesto un’esibizione? Avrebbe fischiettato uno dei suoi cavalli di battaglia davanti a tutti? Il suo repertorio era pronto. Avrebbe eseguito il secondo movimento della sinfonia “Jupiter” di Mozart. Gli sembrava una scelta appropriata per quel pubblico.
E se fosse stato un tranello? Guardò l’orologio, c’era tempo. Doveva informarsi: si poteva fischiettare ad una cena? Internet. Un motore di ricerca. Guardò ancora l’orologio. C’era tempo. Si rilassò sulla sedia, attento a non spiegazzare la camicia con gli sbuffi.

Rimase a leggere un blog stupido. Nessuno gli suonò al citofono. Semplicemente, l’autista della contessa Floris, conosceva il bon-ton. Un quarto d’ora di attesa sotto casa del fenomeno da baraccone, come lo chiamava la contessa, era più che sufficiente. Evidentemente il grande fischiatore se la tirava, aveva pensato l’autista.
Il grande fischiatore, invece, quando si rese conto del tempo passato, imprecò ad altissima voce, infischiandosene delle buone maniere e di quello che potevano pensare i vicini. Puntualmente i vicini commentarono con un “Ma insomma!”, che risuonò nell’aria. Lui si vergognò, ma non gli venne da fischiettare per nascondere l’imbarazzo.

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