Paperback Writer

La lingua e la terra

Ogni volta che leggo un libro di Omar Di Monopoli rimango avvinto, oltre che dalla trama, dal modo che Omar ha di raccontare. Questo terzo romanzo edito per ISBN, La legge di Fonzi, non è da meno. La storia, ambientata in una Puglia cruda, selvaggia e cattiva, assai diversa da come l’ente turismo e i giornali ce la vogliono mostrare, è una vicenda violenta, di delitti e vendette, con dei personaggi che non possono scappare dal loro destino di colpa: non si salva nessuno. Ma è il modo di narrare che affascina: il lessico di Di Monopoli è ricchissimo di sfumature, si contagia e sfocia talvolta nel dialetto vero e proprio, con imprechi smozzicati, commistioni con un improbabile italiano, senza in questo essere minimamente ammiccante. Non si tratta, qui, di un’etnicità da salotto, ma di una lingua dura come la terra arsa dal sole, che esclude chi non la capisce, che non fa sconti né regali, come i personaggi che la parlano. Le parole e le espressioni che l’autore sceglie riescono ad essere sinestetiche, multisensoriali: il suono di certe consonanti sfrega sulla pagina come le macchine che sgommano sull’asfalto arso, le maledizioni che lo sfasciacarrozze Skùppetta lancia rimangono appiccicate sul foglio come i suoi scaracchi, si riesce a percepire la povertà delle case e la disperazione. C’è un’attenzione rara alla lingua, insomma, che di per sè varrebbe il prezzo del libro, senza che, tuttavia, il romanzo si riduca a un esercizio di stile.
In tutto questo, però, La legge di Fonzi non racconta di un mondo atemporale, ma di qualcosa che è ben radicato nei modi d’oggi: a differenza delle altre due, quest’ultima parte di una possibile trilogia è quella in cui il mondo esterno penetra di più nelle vicende. Un mondo che vorrebbe essere luccicante, dell’immagine edulcorata e sorridente, dei VIP, del potere. Un mondo che cozza con il paese di Monte Svevo dove il romanzo è ambientato, e in cui pare che ci sia quasi una forza soprannaturale che tende a mantenere tutto così com’è, rigettando con impeto tutto quello che di nuovo, giovane e pulito possa arrivare, e facendo letteralmente deflagrare ogni tentativo di includere la sua comunità in un contesto più ampio. Come suggello a questa immobilità, Di Monopoli fa campeggiare nei dintorni del paese un cavalcavia, parte di una superstrada mai completata, che incombe come monito sugli abitanti di Monte Svevo.

E nemmeno se lo volessi potrei spiegarle quanta disperazione ci sta, negli occhi di quelle persone [gli abitanti di Monte Svevo, n.d.r.]. Brava gente che magari ha sacrificato una vita per far studiare i propri ragazzi pensando di offrire loro un futuro. E invece quel futuro semplicemente non c’è. Non qui. E non per loro. (…) Quando mi hanno mandato qui, tutti non facevano che ripetermi che la Sacra Corona Unita sarebbe stata l’ultima delle mie preoccupazioni. Lo Stato è intervenuto, dicevano, e l’organizzazione smantellata. Eppure in giro vedo tante di quelle storture, tanto di quel veleno, che a volte penso che quella era solo una sigla, niente di più. Un nome di comodo a uso e consumo dei giornali. (…) Non importa il nome che le diamo, quaggiù il problema più grosso tutta questa rabbia che resta in circolo è, perché come una giostra non fa altro che farci girare su noi stessi, a vuoto, senza arrivare mai da nessuna parte…
(Omar Di Monopoli, La legge di Fonzi, ISBN Edizioni, Milano, 2010, pp. 124-125)

(Domani intervisterò Omar Di Monopoli in diretta a Maps: se volete ascoltare qualcosa sui suoi libri precedenti, cliccate qua e qua).

Donne sole e cani

Devo ringraziare Matteo per avere comprato e letto Ragioni per vivere di Amy Hempel, un volume edito qualche mese fa da Mondadori che contiene le quattro raccolte di racconti brevi pubblicate dall’autrice americana tra il 1985 e il 2005. Nella sua defunta rubrica su “Linus”, “Shorts”, Bianchi parlava in maniera entusiasta di questa scrittrice, pressocché sconosciuta qui in Italia, al punto di convincermi a comprare il libro senza neanche leggerne la quarta di copertina.

Cominciamo da un dato importante: la Hempel si è formata ai corsi di Gordon Lish, proprio lui, l’uomo che contribuì al lancio di Raymond Carver, di cui abbiamo già parlato. La missione minimalista dell’editor è evidente nel taglio dei racconti della raccolta: alcuni di essi sono brevissimi, davvero di poche righe, ma ci sono anche esempi di testi lunghi. Non è una lettura facile, però: la concentrazione degli scritti ha fatto sì che davvero ogni parola, ogni frase, ogni periodo siano densissimi, e due righe davvero possono chiudere, racchiudere e contenere il senso di un intero racconto (e tutto ciò che è stato scritto prima del finale). Non solo: la Hempel ama entrare nella testa dei suoi personaggi, e non è dolce nell’introdurre il lettore ad essi. Li sbatte là, con tutte le loro insicurezze, il loro passato, la loro storia, sfidando continuamente la capacità d’attenzione e la concentrazione di chi si avventura nelle sue storie.
Come capita spesso negli scrittori americani, i luoghi naturali e urbanizzati sono importantissimi: è raro che le storie della Hempel siano ambientate in grandi città, mentre sovente siamo in mezzo a una delle milioni di cittadine “pompa di benzina più mall più zona residenziale” che, di fatto, costituiscono gli Stati Uniti. Ma il dato più ricorrente in questi testi è che parlano quasi sempre di donne sole. Donne anziane che scrivono dall’ospizio lunghe lettere ad artisti che hanno speso con loro una manciata di minuti, donne che hanno subito uno stupro ma forse senza la dose di violenza necessaria per considerarlo tale, donne che scappano da qualcosa o qualcuno e decidono, semplicemente, di non fermarsi più. Altro punto notevole è che spessissimo queste donne hanno a che fare con animali, per lo più cani: evidentemente la Hempel deve amare molto i quadrupedi, perché racconta alla perfezione non solo i modi che i cani hanno di comportarsi, ma, soprattutto, la relazione quasi simbiotica che si crea con i padroni. Capite poi che, mettendo in scena donne sole, il cane diventa spesso (ed esplicitamente) un simbolo di indipendenza per la donna e, allo stesso tempo, un sostituto della figura maschile, di cui spesso di percepisce l’assenza.
Ripeto: non è un libro facile, ma è denso e intenso come pochi. Non è perfetto, e in realtà nei vent’anni che separano la prima raccolta dall’ultima la Hempel cambia poco, ma ci sono cose come “Nel cimitero dov’è sepolto Al Jolson” (che potete leggere qua in inglese) che ti fanno capire come scrivere un racconto breve così sia una prova di bravura estrema e quasi soprannaturale. Un po’ come fare delle figure a corpo libero in uno sgabuzzino, risultando comunque armonici e aggraziati.

Ogni volta che vedi una bella donna, ricorda che qualcuno è stanco di lei, dicono gli uomini. E io so dove vanno, queste donne, con la loro stanca bellezza che qualcuno non desidera, queste donne che devono vivere come i pini bianchi dell’alta Sierra, lì prima di Cristo, nutriti chissà come dal vento di montagna.
Si dedicano agli animali, giorno dopo giorno, accarezzandoli dentro una gabbia e dicendo: “Come sta il cucciolo della mamma? Si sente solo il cucciolo della mamma?”
Le donne se ne vanno alla fine della giornata, fermandosi a domandare a un guardiano: “Andranno a stare in un bel posto?”. E tornano dopo un giorno o due, chinandosi a osservare un gatto con un occhio solo e chiedendo, come se intendessero adottarlo: “Come faccio a presentare un nuovo gatto al mio cane?”
Ma le adozioni sono rare: la cosa importante è che, quando si lasciano alla spalle le tenere creature che non le lascerebbero mai, le donne abbiano qualcuno da lasciare, sempre che abbiano donato loro il cuore.
(Amy Hempel, “Nel rifugio per animali”, in Ragioni per vivere, Mondadori, Milano, 2009, p. 148, trad. di Silvia Pareschi)

Letture d'attesa

Ok, ora sono in onda, ma tra qualche ora sarò a Ferrara per il concerto dei Pixies. In occasione della prima data all’aperto di Ferrara sotto le stelle 2010, quei mattacchioni di Ciccsoft distribuiranno un foglio sulla band americana a metà tra il buffo e il nostalgico che si avvale di firme prestigiose, e della mia, anche.
Vasco Brondi, Enzo, Accento Svedese e Simone sono stati chiamati a raccontare chi sono i Pixies per loro. Io ho usato la parola “sbilenco”, più di una volta. Se non siete in piazza Castello stasera, potete scaricare il tutto qua.
Grazie a voi che leggete e ai Ciccsoft boys per la preferenza.

Rincorro anch'io

È appena uscito nelle librerie italiche l’ultimo libro di Gianluca Morozzi: si intitola Nato per rincorrere ed è edito da Castelvecchi. Questa volta Morozzi rischia di brutto: nel volume sono raccontati, con stili e modi diversi, i cinquanta concerti di Bruce Springsteen che l’autore ha visto finora.
Pazzesco. Non sapevo che Morozzi fosse un fan del Boss.

L’autore mi ha concesso l’onore di raccontare con le mie parole il mio primo (e finora unico, ahimè) concerto di Springsteen, quello di Milano di due anni fa. Sì, è un messaggio pubblicitario, che credevate? Qua, se volete, trovate una scheda del libro e un estratto.

Era una nota buia e tempestosa…

Inutile negare che devo molto a Matteo B. Bianchi, una delle pochissime persone che ho conosciuto nel mondo editoriale che non fosse uno stronzo. Ho presentato spesso i suoi libri e lui ha introdotto con passione la presentazione milanese de La guerra in cucina, qualche mese fa. Ma soprattutto Matteo, qualche anno fa, ha scelto un mio racconto per la sua rubrica su Linus “Laboratorio esordienti”, ed è stato un onore essere pubblicati  grazie a lui su una delle riviste più importanti del panorama editoriale italiano, di cui io sono affezionato lettore fin da quando ero piccino. Oltre a quello spazio, Matteo curava anche una piccola rubrica di novità letterarie “altre” rispetto a quelle recensite dal grande vecchio Piero Gelli. Si chiamava “Shorts”, ed era davvero un bell’osservatorio sui giovani autori, e non solo.
Perché declino tutto al passato? Perché dal numero di maggio, Matteo non ha più i suoi spazi. Perché non  li ha più? Leggetelo sul suo blog.
È uno schifo, e lo sarebbe anche se non avessi mai neanche letto una riga di Matteo. Ma, conoscendolo, perdonatemi, sono ancora più incazzato.

L'inossidabile classe del 1935

Mentre leggevo, con gusto e passione, l’ultimo libro di David Lodge, Il prof è sordo, non ho potuto fare a meno di pensare al mio rapporto con i film di Woody Allen. Qualsiasi cosa faccia l’attore, regista, sceneggiatore e, ma sì, dai, musicista americano, io lo vado a vedere. E certo, posso uscire dal cinema più o meno contento, ma anche nelle sue prove peggiori, riconosco il mondo, il pensiero, il punto di vista di Allen.

Lo stesso vale per Lodge, del quale lessi Scambi una quindicina di anni fa e che, da allora, non ho più abbandonato. Certo, c’è da dire che Lodge è meno produttivo del suo quasi coetaneo e quindi si dà meno occasione di fallire, del tutto o in parte. Rimane però comune ai due il gusto e la maestria del racconto, inteso proprio come “arte della narrazione” (un’espressione che è molto simile al titolo di un bellissimo saggio dell’inglese).

Come in Allen, inoltre, è sempre facile riconoscere nei romanzi di David Lodge l’autore stesso, che viene nascosto con un garbo quasi vezzoso, molto britannico: non sta bene (ed è anche privo di senso) chiedersi “Ma il Desmond di Deaf Sentence (questo il geniale titolo originale del romanzo di cui vi parlo) sarà veramente lui?”. Con elegante savoir faire, Lodge ci dice nella postfazione che sì, la sordità di cui è afflitto il protagonista è effettivamente un’esperienza provata in prima persona, così come la figura del padre, solo e malato, ha a che fare con la vita reale dello scrittore. Ed è proprio il personaggio del padre ad essere importante nel libro: l’accademico in pensione ha una moglie più giovane di lui, figli, nipoti e una studentessa tanto fascinosa quanto pazza che tenta di invischiarlo in un progetto di ricerca sulle lettere dei suicidi, con tanto di risvolti sadomasochisti; Lodge si diverte un mondo a mostrarci quanto ne sa di linguistica, oltre che di narratologia; ma sono i momenti con il padre a dare un interesse maggiore al libro. Un padre sordo, ma per motivi geriatrici, più che altro, con la prostata mal funzionante, tirchio e cocciuto, nostalgico del suo passato di musicista per orchestre da sale da ballo (Radio Days, come fa a non venire in mente?), che il figlio si costringe a visitare di tanto in tanto, affrontando un viaggio dall’immaginaria cittadina del nord dove Desmond risiede, fino ad un sobborgo del sud-est londinese da cui il padre non vuole andarsene.

Non aspettatevi pietismi: Lodge sa fare divertire, e spesso riduce il lettore a sonore risate. Ma è come, esattamente come nei film di Allen degli ultimi dieci anni, che in questo Il prof è sordo, il brillante scrittore inglese, toccati i 75 anni, si renda conto che, per quanto ci si possa scherzare su, la morte è qualcosa di concreto, vicino, seppure non immediato. È pervaso da uno strano senso funereo, questo libro: o forse sarebbe meglio dire che tra le righe si sente la paura del rendersi conto che le cose non funzionano come prima. Le orecchie, l’apparato riproduttivo, la memoria. Ci si scherza sopra, certo, ma in un momento topico del libro, al quale non accennerò per preservarvi il piacere della lettura, l’inconfondibile humour di Lodge scompare, per dare vita a pagine inaspettatamente dense di sacra umanità, resa in maniera tangibile quanto, per sua stessa natura, sfuggente e fuggitiva.
Anything works, dice Woody Allen nel suo ultimo film: “basta che funzioni”. E nelle ultime prove dei due grandi del ’35, a mio avviso, tutto funziona, e bene. Speriamo solo che, fino all’ultimo, abbiano voglia di raccontarci le loro storie, a modo loro: io sarò là a bearmi delle loro parole.

Gialli senza mistero

Se ne è parlato tanto anche su altri blog, e io, appena appresa la notizia, l’ho diffusa come potevo. In sintesi la questione è che Maurizio Costanzo è diventato direttore responsabile dei Gialli Mondadori. Una collana storica, che ha compiuto da poco 80 anni. E fin qui nulla di strano: è solo l’ennesimo caso di gerontocrazia vigente nel panorama culturale italiano.
Il punto è che nel post di presentazione ai lettori sul blog della collana, Costanzo non fa mistero di non saperne una mazza di letteratura gialla. Cioè, è scritto nero su bianco, in maniera impudica, o meglio, con una consapevolezza assoluta dell’impunità (morale, giudiziaria, politica) che vige in Italia.
E voi direte: be’, qualcuno avrà commentato negativamente questa scelta: certo, solo che come spiega Sergio Altieri in un altro post, quei commenti sono stati cancellati. E, anche in questo caso, l’ammissione è là, evidente, alla portata di tutti. Iniziamo bene, insomma: un giallo in cui il colpevole, alla prima pagina, ammette la sua responsabilità e, sotto gli occhi di tutti, riesce a farla franca.

Ti racconto una storia

Tutti i racconti di Ali Smith potrebbero cominciare così, con un’interpellazione al lettore quasi sgraziata, che qualcuno potrebbe trovare superflua: uno sguardo in macchina proibito dalla grammatica del cinema, e sicuramente usato in maniera ruffiana da qualche scrittore. E invece i racconti che compongono La prima persona, ultima raccolta dell’autrice scozzese, sono puri e semplici come una chiacchierata. Creando un momento completamente surreale in un banale supermercato, o discutendo con la se stessa quattordicenne nella cucina di casa, l’io narrante di queste short stories affascina proprio per il modo che ha di raccontare. Ogni tanto si incontrano delle persone che rendono interessante il più banale degli accadimenti: ecco, Ali Smith, nella vita di tutti i giorni, è sicuramente una tipa del genere. Quando prende la penna, però, il taglio che dà al vituperato e, allo stesso tempo, celebrato quotidiano è illuminante.Illuminante nel senso proprio del termine: dalle righe di questo libro scaturisce la luce, o forse le parole riescono a rifrangerla in maniera tale che il lettore veda le parole e le cose di tutti i giorni in un modo completamente diverso, provando una specie di epifania pagina dopo pagina. Ci siamo tutti, in questi racconti: siamo noi l’operaio che rimane bloccato in un’intercapedine, viene licenziato e cerca un lavoro identico al precedente. Siamo noi quelli che rispondiamo male alla persona che ci ama, e ce ne pentiamo subito dopo per ripetere lo stesso errore. Siamo noi che, in letti e stagioni diverse, abbiamo la sensazione di vivere e rivivere le stesse esperienze, salvo poi non riuscire a farne tesoro e quindi commettere gli stessi sbagli.La Smith, in questo, è davvero eccellente, ma non si limita a rileggere il quotidiano. Il primo racconto della raccolta, per esempio, intitolato non a caso “Vero racconto breve” è un vero e proprio saggio sull’arte e sulla bellezza del racconto: ma di questo ci si accorge solo alla fine, quando l’occhio scorre oltre l’ultima parola del testo e si ferma, per un attimo, sulla pagina bianca che la segue. Fino a un minuto prima il lettore crede di assistere ad una serie di conversazioni tra l’autrice e una sua amica, o origlia con lei le conversazioni in un bar. Poi, si rende conto che è tutto lì, che la cosa più bella di chi narra è il fatto stesso che lo faccia, e ascoltare le parole scritte è pura gioia. Quindi non serve altro se non rispondere “Sì, dai”, quando, tra un racconto e quello successivo, si sente distintamente una voce che dice “Ti racconto una storia”.

Completamente notte adesso fuori casa mia e soltanto le sei di sera. Tutti i lampioni sono accesi. Tutte le macchine nella città oltre questa via stanno andando a casa o allontanandosi da casa, facendo il rumore che fa il traffico in lontananza. Più vicino a casa, nel giardino pubblico non illuminato, sotto un cielo che promette ghiaccio, qualcuno a noi invisibile passa in bici su uno dei sentieri, e grida a squarciagola. Ti amo. Difficile dire se è un uomo o una donna, poi nel buio grida quello che sembra un nome, lo grida nell’aria stellata sopra tutte quelle migliaia di morti antichi, e poi di nuovo le parole ti amo, e poi di nuovo il nome.
La me stessa quattordicenne guarda verso la finestra e lo faccio anch’io.
Hai sentito? diciamo all’unisono.
(Ali Smith, La prima persona, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 113. Traduzione di Federica Aceto.)

Di |2010-03-01T08:20:00+01:001 Marzo 2010|Categorie: Paperback Writer|Tag: , , , , |0 Commenti

Un altro appuntamento con Off Maps @ Modo Infoshop!

Dopo quel che era stato a ottobre, noi di Maps ci trasferiamo di nuovo nelle accoglienti stanze del Modo Infoshop, per un incontro con Luca Trambusti, autore di Consapevolezza, un bellissimo libro (edito da Arcana) sugli Area e Demetrio Stratos.
Ma domani non parleremo soltanto di questo: insieme a Michele Orvieti della Trovarobato e Oderso Rubini, storico produttore italiano, parleremo di cosa vuol dire creare un progetto discografico e capiremo come e quando si interseca con il contesto socioculturale in cui nasce.
Per saperne di più, andate qua: in ogni caso ci vediamo domani alle 2130 da Modo.
P.S. Se vi va, questo pomeriggio, sì, proprio oggi intorno alle 16 a Maps abbiamo ospiti Ninni Bruschetta e Francesco Pannofino: già, Duccio Patanè e Renè Ferretti di Boris. La terza stagione inizia il primo marzo e che, ce la vogliamo perdere una chiacchierata con loro?

Riportando la guerra a casa

Con la presentazione di La guerra in cucina che terrò domani alle 16 alla Libreria Ubik di Gorizia, si conclude, almeno per ora, il primo breve tour di promozione del libro. Ed è bello che si concluda nella mia città natale, dove, in realtà, diversi racconti che compongono il libro sono stati pensati (molti) e ambientati (qualcuno).
Ovviamente, se qualcuno di voi ha contatti con librerie, circoli vari, associazioni e simili, in una delle vostre città, non esiti a contattarmi: vorrei fare girare il libro ancora un po’. E attendo sempre le vostre mail, per capire, nel caso l’abbiate letto, se vi è piaciuto o no.

Update
: l’articolo de Il Piccolo di oggi. Però.

Torna in cima