live

Il vecchio e il nuovo

Per chi, come me, è arrivato a Bologna a metà degli anni ’90, i Massimo Volume sono stati una presenza costante, voluta o meno. Io credo anche di essere andato ad un loro concerto, probabilmente intorno al 2000, o anche prima, nella vecchia sede del Teatro Polivalente Occupato, quando stava in via Irnerio. Poi per lungo tempo, non ho ascoltato, se non sporadicamente, i Massimo Volume.

PaoloMolti mi hanno parlato, negli ultimi anni, dei Franklin Delano: devo avere ascoltato qualche loro canzone, ma non li ho mai visti dal vivo. Poi, quest’estate, chi ha registrato il “loro” nuovo disco, mi ha detto: “Il nuovo progetto dei Franklin Delano è davvero bello.” Un paio di mesi dopo è arrivato un promo in radio, firmato Blake/e/e/e, intitolato Border Radio. Amore al primo ascolto.

Blake/e/e/e e Massimo Volume sono stati protagonisti del concerto di venerdì scorso all’Estragon, i primi come band di spalla dei secondi, che si sono sciolti nel 2002 e adesso si sono riformati. Sono due band diverse, davvero molto diverse: i Blake/e/e/e lavorano sulle suggestioni della musica, usano tanti strumenti, dal banjo alla chitarra, dalla steel drum alle percussioni. Quando li ho ospitati in Maps hanno detto che il loro disco è decisamente sifone-friendly*, ed è vero. Ma è un disco che affascina, intriga. È un lavoro in cui ogni canzone suona nuova e sorprendente, che mischia suoni e tendenze diverse tra loro, che richiama i modi tonali orientali senza sembrare ruffiano, che usa accorgimenti della musica indiana senza che ti venga da dire “E basta con ‘sti fricchettoni”. E tutte queste promesse sono mantenute dai Blake/e/e/e anche dal vivo: mezz’ora ipnotica e bellissima, che ha attirato e fatto ululare anche molto del pubblico che venerdì era all’Estragon solo per i Massimo Volume.

Mimì closing eyesI Massimo Volume, invece, spostano il peso del corpo tra le bellissime parole di Clementi e le musiche dei validi elementi che hanno fatto parte della band negli anni. L’aggiunta di questa reunion è quella di Stefano Pilia, uno che conosco da anni, e che ho visto suonare numerose volte, ma di cui non avevo mai veramente intuito lo spirito rock da animale da palco (espressione logora e abusata? Guardatelo dal vivo e poi ne riparliamo). Perfetti Egle Sommacal e Vittoria Burattini, scatenato Pilia, come dicevo, e Clementi che ci crede. Ecco, forse, il segreto. Crederci, veramente e in maniera assoluta. Ma credere a quello che si dice, che si canta e si suona, senza pensare ad altro. La scommessa era quella di vedere, dopo le tonnellate di riff, rullate e altro che ci siamo sorbiti dal 2002 ad oggi, se la musica dei Massimo Volume fosse ancora valida. Lo è. L’altra scommessa era verificare se le parole di Clementi, le sue visioni urbane dei sentimenti, colpissero ancora. Vinta anche questa.

Il risultato è che il concerto di venerdì è stato non solo uno dei più belli, ma soprattutto uno dei più sinceri che abbia mai visto. E credetemi che di sincerità, nel mondo della musica come in altri, non ce n’è mai abbastanza.

Blake/e/e/e live@Estragon: set fotografico
Massimo Volume live@Estragon: set fotografico

Pronti, partenza, via. Da tutto

Latito io nei confronti di me stesso, figuriamoci il blog.
Comunque, come si conviene, i saluti prima delle vacanze. E qualche regalo.

Me ne vado per dieci giorni in un paese sperduto in un’isola croata, che vedete nella foto. Obiettivi minimi: considerando la sfiga che si è abbattuta su di me negli ultimi mesi, mi basta che la camera dove alloggio non prenda fuoco, né venga travolta da un’onda anomala (beffardamente intervenuta per domare le fiamme).

Ma non vi lascio senza niente. Intanto, scaricate Live@MAPS vol. 1, un doppio cd gratuito con il meglio dei live che ho ospitato nella prima stagione della trasmissione che è finita venerdì scorso, e riprenderà a settembre. Tutte le info qua.

E poi, un assaggio del libro, che dovrebbe uscire tra la fine di questo mese e l’inizio del prossimo. Qui c’è la copertina e qui potete scaricare “la titletrack”, cioè il racconto che dà il titolo alla raccolta, “La guerra in cucina”.

Ci si risente dopo la metà di agosto. E ancora una volta il blog festeggia il compleanno in contumacia del suo padrone. Del resto, aprire un blog a Ferragosto… Sono cinque anni. Cinque anni. Ok. Meglio andare.

Anch'io accecato (dalla luce)

From the screenIl sospetto deve venire: perché tutti (tutti: fan, appassionati, gente capitata lì per caso, uomini, donne, bambini) ti dicono che assistere a un concerto di Springsteen è un’esperienza che va oltre il concerto, avvicinandosi a qualcos’altro di più totale e magnifico?
Eppure sono andato a Milano, ieri, cercando di non avere aspettative, di non pensare all’amico Morozzi e alle migliaia di persone nel mondo che, come lui, investono immani quantità di tempo e soldi per seguire il Boss in tutte o quasi le tappe dei tour europei. Non ho pensato al mito, ai dischi, alle immagini che lo ritraggono. Sono entrato a San Siro cercando – più che altro – di non svenire per il caldo. Poi ho visto quante persone c’erano e ho vacillato.

Alle otto e cinquanta di ieri sera è successo qualcosa: Bruce Springsteen e la E Street Band sono saliti sul palco dello Stadio Mezza di Milano, hanno suonato una cover (“Summertime Blues” di Eddie Cochran, per la cronaca) e si è aperto un squarcio temporale che è durato tre ore esatte, praticamente senza pause. Senza. Pause.
Part of the audience (a very little part)Oggi mi è arrivata una mail da un ascoltatore che sapeva sarei andato al concerto, che mi chiedeva con che parole avrei descritto in onda la serata di ieri. Figuratevi qua, che posso fare, mettendo passo dopo passo le parole nero su bianco…
È stato incredibile. Non ho mai visto nessuno, e dico nessuno, spendersi sul palco in quel modo, essere disponibile col pubblico, prendere richieste, stravolgere scalette per essere vicino alla folla che è venuta apposta per vedere e sentire lui e la sua band. Ma soprattutto – e qui sta il segreto, miei piccoli lettori – non ho mai visto nessuno divertirsi così sul palco.
Eravamo 65000, ieri. Anche secondo la Questura (il Boss unisce gli animi e i conteggi). E abbiamo letteralmente vibrato a tempo. Avete mai visto 130000 braccia agitarsi in sincronia? Avete mai sentito come 65000 persone cantano “Born to Run”? Avete mai visto un sessantenne buttarsi per terra, urlare, suonare, incitare pubblico e band per centottanta minuti, risultando sempre sincero e credibile? Avete mai visto lo stesso sessantenne finire il concerto, uscire di nuovo, prendere una tinozza e una spugna, bagnare tutte le prime file del pubblico, risalire sul palco e fare un bis di otto canzoni, finendo con “Twist and Shout”?
Io, fino a ieri, no.

The BossNon è stato un concerto, è stato decisamente qualcosa di più. Tanto che vorrei comprarmi una Smemoranda apposta per segnare la data di ieri. E basta.
Mi unisco agli accecati. E anche io vi dico, o voi che non siete mai andati ad un concerto di Springsteen: andateci. Andateci. Non vi pentirete assolutamente, perché, una volta tanto, “quello che si dice” è vero, ma in più c’è la musica.

Bruce Springsteen and the E Street Band – Milano 25.06.08. Tracklist: Summertime Blues (cover) – Out In The Street – Radio Nowhere – Prove It All Night – The Promised Land – Spirit In The Night – None But The Brave – Hungry Heart [Tour Premiere] – Candy’s Room – Darkness On The Edge Of Town – Darlington County – Because The Night – She’s The One – Livin’ In The Future – Mary’s Place – I’m On Fire – Racing In The Street – The Rising – Last To Die – Long Walk Home – Badlands
Girls In Their Summer Clothes – Detroit Medley – Born To Run – Rosalita – Bobby Jean – Dancing In The Dark – American Land – Twist And Shout (cover) [Tour Premiere]

Ancora non ci credete? Toh, allora, vedere per credere. Due pezzi minori, “Because the Night” e “I’m on Fire”, freschi freschi da ieri…

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[youtube http://www.youtube.com/watch?v=f46DmRxGNco&hl=it]

"Noi siamo le esplosioni nel cielo"

So Long, Lonesome

Gli Explosions in the Sky fanno dischi che tu metti nel lettore mp3, o nello stereo, premi play, e ti fai gli affari tuoi. E poi, ad un certo punto, ti fermi immobile ad ascoltare, interrompendo qualsiasi cosa tu stia facendo, senza che abbiano detto una parola.
Gli Explosions in the Sky fanno concerti, come quello di ieri all’Estragon, in cui iniziano piano, e tu sei con loro, teso a percepire ogni più lieve nota, e poi ti portano su, su, su, fino (ad esplodere) nel cielo.

Non so quanto sia ampio il cielo del Texas da cui viene la band, ma so che i quattro sfruttano ogni possibilità dinamica dei loro strumenti, che diventano piccole gocce di pioggia o squassanti tuoni, dal pianissimo al fortissimo, gradualmente o all’improvviso.
E gli Explosions in the Sky emozionano come ogni fenomeno naturale che ci si mostra con possenza e come ogni manifestazione della delicatezza.

“Buonasera a tutti, grazie di essere venuti”, ha detto uno di loro in italiano. “Noi siamo le esplosioni nel cielo, e questa sera ci metteremo il cuore.”
Ed è iniziato uno dei concerti più belli a cui abbia mai assistito.

P.S. Scaricatevi qua il loro album The Rescue, gratuitamente, se avete problemi di coscienza.
P.P.S. Se la mia settimana di concerti ininterrotti inizia così… Tra poco Vampire Weekend, domani Why?, giovedì Cesare Basile, venerdì Spiritualized, sabato Campbell&Lanegan, lunedì Malkmus & the Jicks…

My N.Y.C. from A to Z – 3

Ristoranti. L’ostello dell’anno scorso aveva una cucina, quello di quest’anno era attrezzatissimo per la colazione, ma per il resto non andava oltre il microonde. Quindi mi sono buttato nell’enorme panorama culinario nuiorchese. Ho mangiato giapponese (e dei giapponesi pazzi al tavolo a fianco mi hanno obbligato a finire una damigiana di sakè), etiope (favoloso, ma anche qui torna la battuta di Harry ti presento Sally – che non ricordavo: “Andiamo a mangiare etiope? Ci daranno dei piatti vuoti, finiremo presto”), italiano (oh sì, in un posto talmente fantastico che linko: si chiama Bread), messicano (solo delle empanadas, a dire il vero). E poi in milioni di altri posti a caso, per strada, in giro. E’ divertente solo scegliere dove e cosa mangiare.

Singer. Era un concerto non previsto, ma non ero mai stato alla Knitting Factory. La serata è iniziata male, con un certo Daniel Higgs che ha letteralmente salmodiato per mezz’ora sull’amore, facendosi accompagnare da uno scacciapensieri e da uno strumento a corde poggiato sul grembo, che pizzicava con noncuranza. Se avessi saputo che presentava un disco chiamato Metempsychotic Melodies… Poi per fortuna sono arrivati i Cloudland Canyon, robusti ed eterei al tempo stesso, su Kranky Records. E infine, Singer. Semplicemente fantastici: tra il math rock e il be bop, precisi come macchine, perfetti per suoni e armonie: uno dei concerti più belli visti quest’anno. Compratevi il loro disco Unhistories, in attesa di vederli in Italia in autunno. Meravigliosi!

Trains. La metropolitana di New York è enorme, rumorosa, incasinata: ma costa pochissimo ed è un modo meraviglioso per scorrazzare da una parte all’altra della città. Piena di ratti, di musicisti spesso bravissimi, di persone che sbraitano, si lamentano, ti parlano del loro amore e odio per NY. “Dobbiamo andare uptown o downtown?” “Dov’è la fermata giusta?” E poi nel fine settimana, per lavori o altro, et voilà, saltano fermate, cambiano le linee, ti trovi ad aspettare l’A Train alla fermata della linea 3 e invece arriva il Q. Ma prima o poi si arriva, e la voce registrata che dice prima di ogni partenza “Stay clear from the closing doors, please”, diventa una specie di bordone per tutta la giornata.

Union Square. Tra una cosa e l’altra è stato il posto da cui sono passato di più, la fermata della metropolitana di riferimento (non quella più vicina all’ostello), il luogo in cui mi sono incontrato con altri, in cui mi sono seduto, riposato. Il luogo dove ho comprato dischi e visto che i mercatini biologici ci sono anche a NYC, non solo a Princeton (vedi post precedente). A Union Square ho iniziato un giro bellissimo di mercatini dell’usato, che in realtà, secondo Time Out, sarebbe dovuto finire là. A Union Square, l’anno scorso, non ero neanche passato.

Village. East, West, Greenwich, andate dove vi pare, ma è ancora adesso il luogo in cui è più facile divertirsi a New York. Certo, Williamsburg è più hype, il So.Bo. (South Bronx) sta diventando cool, le case di Astoria iniziano ad essere bellissime. Ma quando non si sa cosa fare, nel giro di una quindicina di isolati c’è tutto. Dalla trappola per turisti al Cake Shop, dai take away thailandesi di St. Mark’s Place al ristorante etiope dove sono stato, dall’ormai sputtanatissimo Cafè Wha? a deliziosi locali con i tavoli fatti di lavagna. E il gessetto per scriverci e disegnarci sopra è omaggio.

Whitney Museum of American Art. Perso l’anno scorso, recuperato quest’anno. Il Whitney raccoglie una collezione permanente pregevole, ma a New York è noto soprattutto per la biennale di arte contemporanea. Non so, sarà stato che di vedere enormi tavole grigie o nere e pensare ad altro oltre “Non era una buona giornata per chi le ha dipinte”, e cose del genere, non ne posso più. Sarà stato che ero stanco e avevo mal di testa. Ma insomma, ho dato un calcetto ad un’opera. Ed è caduto un cartello-che-faceva-parte-dell’opera-stessa. Con perfetto aplomb ho detto “sorry” e ho rimesso il cartello (pesantissimo, di legno) a posto. Avrò mutato la volontà artistica dell’opera? Sarà, ma l’unica reazione che ho sentito è stata una risatina. Liberatorina.

X. Di incognite, in questo viaggio, non ce ne sono state. A parte il misterioso ospite del bizzarro ostello dov’eravamo alloggiati. La prima volta che lo vediamo, pensiamo: è un disgraziato che non ha casa e sta qua, curando la sua innocua follia. La seconda volta iniziamo a parlarci e sembra a posto. Ma cosa sono quei calcoli che fa sempre sul tavolo della stanza comune? La terza volta scopriamo (vedi “American Dream Hostel”) che conosce mezza università dell’Oregon, e ci sono dei testimoni al tavolo con noi. Poi ci dice che è stato un matematico a Heisenberg, nel frattempo ci segnala il Terra Blues, e dice che sa il danese, perché ha vissuto in Danimarca. E che vorrebbe comprarsi una casa nel Chianti. Non so se ti rivedrò mai, L.C., ma mi hai segnato. E una delle cose che mi mancano di più sono i tuoi “Oook, oook, aaalright.”

Yuppi! Cos’altro si dovrebbe dire quando si sale sull’enorme ruota panoramica del Luna Park di Coney Island? L’anno scorso il parco era deserto, struggente. Quest’anno vedeva i suoi primi visitatori, ed è stato magnifico comunque. Coney Island è magnifica. Non diresti mai di essere a New York, eppure con mezz’ora di metro ritorni a Manhattan, più o meno. Ah, se volete fare anche voi il giretto sulla ruota, cliccate qua.

Zoo. Concludo questo abbecedario con una delle prime cose fatte a New York quest’anno. Visitare lo zoo di Central Park. Sì, lo so, gli animali dovrebbero stare liberi, scorrazzare felici nella natura. E’ vero. Ma lo zoo di Central Park è bellissimo lo stesso. La parte dedicata alla foresta pluviale è una struttura enorme e umidissima in cui uccelli tropicali ti svolazzano letteralmente tra i piedi, per dire. Se no, come avrei fatto a fare una foto come questa? E poi ci sono i pinguini: ecco, concludo quest’ultimo post con il video dei pinguini dello zoo. Perché mi sono sentito un po’ come loro: guizzante, rapido, eccitante e buffo. A presto, NYC.

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My N.Y.C. from A to Z – 1

American Dream Hostel. Un nome che è tutto un programma, quello del posto dove ho alloggiato stavolta. Un posto simile alla casa di Elwood ne I Blues Brothers, con ospiti che si incontrano nella sala da pranzo e scoprono per caso di avere vissuto per venticinque anni a due strade di distanza dall’altra parte degli Stati Uniti. E il proprietario che si commuove quando ce ne andiamo e, come un papà, ci dà la busta coi soldi per pagarci la navetta fino all’aeroporto.

Blues. Sono stato due volte al Terra Blues: avete presenti i locali con i tavolini davanti al palco, la gente improbabile, schitarrate e canzoni che dicono “I’m so lonely”, eccetera eccetera? Ecco: tutto questo è quel locale del Village, dove ho visto un grandissimo concerto di James Armstrong (video qua). Uno che ad un certo punto si è messo a suonare sul bancone e in mezzo alla gente. Per dire.

Cinema. Ci sono stato tre volte: per caso i film che ho visto erano in due delle sale più “in” della New York alternativa, l’Angelika Film Center e l’IFC Center. Dei film ne ho parlato altrove (qua e qua), ma devo dire che questa semplice attività mi ha fatto sentire a casa, visto che vado al cinema di continuo. E fare la fila per il biglietto mi ha fatto tanto sentire Charlie Brown e i suoi amici. “Uno, prego”.

Destroyer. Il mio primo concerto di questo viaggio è del signore canadese. Concerto un po’ deludente, devo dire. Band di spalla una inutile (Colossal Yes), una buona (Andre Ethier). Sale sul palco Destroyer e non mi sta simpatico. Inoltre assomiglia un sacco a Pino Daniele, e quindi, da quando inizia cantare a quando smette di farlo, sono tesissimo perché temo attacchi “Napul’è”. Se volete, le foto del concerto sono qua (e noterete la somiglianza co’ Ddanie’).

Elaine’s. Da quando Woody Allen me l’ha mostrato, dopo i titoli di testa di Manhattan, non me lo sono più tirato via dalla testa. “Quante persone interessanti ci saranno da Elaine’s, quanti discorsi meravigliosi, quanti Woody Allen ci mangeranno!”. Per carità, Elaine’s è un ristorante molto bello e “al’europea” nell’Upper East Side (ma va?), dove si mangia bene. Ma dove non dovevamo andare alla fine del viaggio, perché, dopo avere visto i prezzi, la tentazione di ordinare un brodino e un bicchiere d’acqua di rubinetto è stata grande. Ma alla fine è andata bene.

Feist. Il concerto più atteso, diciamolo, visto nella magnifica Hammerstein Ballroom. Un concerto all’insegna del dolce&tenero, ma che ha mostrato la signorina (canadese anch’essa) molto più grintosa e meno timida di quanto pensassi. La cosa più bella della serata sono stati i visual creati al momento da una coppia di artisti (presumo canadesi pure loro), mischiando tecniche di collage, silhouettes, disegni e riprese video. Stupendo. (Qui ci sono i video di tre canzoni, qui le foto: lo dico per completezza)

Guggenheim. L’anno scorso era impacchettato, quest’anno pure, quindi tanto vale andarci, mi sono detto. E ho visto una mostra molto bella di un tale Cai Guo-Qiang, potente, di impatto fortissimo e, per una volta, comprensibile ed emozionante anche per i non addetti ai lavori. E salire e scendere le spiralone del museo è comunque una bella esperienza.

Hotel Gansevoort. Me l’aveva scritto un amico. “Vai al Plunge, il bar all’ultimo piano dell’Hotel Gansevoort, nel Meatpacking district.” E io ci sono andato, facendomi largo tra modelli e modelle, casualmente all’ora del tramonto. Quello che ho visto dalla terrazza del bar è questo.

continua, ahivoi

Machine Gun

“Do we exchange cards?”, mi chiede la potentissima agente giapponese, alla fine della riunione.
Una riunione che mi ha visto – in quanto soggetto nuovo, inedito, sconosciuto, occidentale, italiano – oggetto di domande indiscrete nei contenuti tanto quanto impeccabili e gentili nella forma.
E io non ho un biglietto da visita con cui concludere degnamente la riunione.
Una riunione in cui l’agente e un suo collaboratore chiedevano, discutevano, confabulavano tra loro, mentre io cercavo di cavarmela. E mentre un’altra giapponese scriveva tutto quello che ci dicevamo, e un agente se possibile ancora più potente della mia interlocutrice ascoltava, suggeriva domande, commentava. In giapponese.
Vengo a sapere che il biglietto da visita viene dato con due mani. “È una questione zen, di ying e yang”, mi dice I. E io, che di zen non so nulla, e diffido senza sapere, non ho un biglietto da visita da porgere con due mani.
Usciamo.

Mi si chiede di essere una mitragliatrice, ultimamente. E allo stesso tempo di esserne il bersaglio, un omino-sempre-in-piedi.
Ed è forse per questo che mi sono completamente distaccato da tutto l’altroieri, a Firenze, quando sono andato a vedere i Portishead. Un concerto perfetto, impeccabile, con Beth Gibbons che pareva sollevare tutto il dolore del mondo ad ogni nota.
Mi viene richiesto di continuare, di non abbattermi, di non pensarci, di andare avanti, con o senza biglietti da visita. Di fare bene, fare tutto, sorridere, calcolare, rispondere, prendere decisioni, essere efficiente. È una guerra, ma se ne accorge qualcuno?
In questi momenti, in cui sembra di fare, fare, fare, avendo così poco (se non niente) indietro, è stato un piacere abbandonarmi alla band inglese, che ha suonato solo per me. Che sia stato un caso che l’unico brano che abbia ripreso, dopo decine di foto scattate, sia stato “Roads”?

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Nel suo giardino – Cristina Donà @ Estragon 15.12.07

La legge di Murphy colpisce sempre, in tutte le sue varianti, compresa quella dei concerti: “Se per una volta andrai in ritardo ad un concerto, sarà all’unico concerto dell’anno che inizia in orario.”
E infatti così è stato per quello di Cristina Donà all’Estragon, dove, giusto un mese fa, ho aspettato per un’ora e mezzo l’inizio del concerto degli Okkervil River.

Comunque. Era la prima volta che vedevo la Donà dal vivo, e avevo nelle orecchie solo voci di gente che mi diceva delle gag che faceva dal vivo. Ora, mi era stata molto simpatica quando era venuta in radio (qui trovate, oltre ad un’intervista, anche una bellissima versione di “Universo” per voce e chitarra), ma non pensavo che fosse così divertente come in effetti è stata all’Estragon.
La Donà ha cambiato registro tutto il tempo: si è presa in giro per un suo profilo molto new age apparso su una rivista femminile, ha fatto le vocine, ha introdotto con aneddoti surreali le sue canzoni, e ha interagito meravigliosamente col pubblico.
Ad un certo punto del concerto lei era da sola con la chitarra sul palco, e due ragazze hanno iniziato a vociare dalle prime file. Il punto era che dovevano prendere la macchina per tornare a casa, perché lavoravano il giorno dopo. E ancora non avevano sentito “Invisibile”. “Ma io faccio quella canzone alla fine della scaletta, con tutta la band”, ha finto di protestare la Donà. Il resto scopritelo in questo video.
Ed è andata così fino alla fine. Ecco, quando un’artista riesce a parlare in maniera intima e scanzonata allo stesso tempo, per me raggiunge qualcosa che molti altri musicisti che ho visto su quel palco e in tanti altri posti non sfiorano neanche. La consapevolezza di sè, della propria bravura e dei propri limiti, ti porta davvero dentro la musica che sta suonando. E si svolazza tutti insieme, ben sapendo che, anche se si dovesse atterrare di culo, ci sarebbe una risata a separarci dal prossimo decollo.

Foto
Cristina Donà – Invisibile – live acustica (video)
Cristina Donà – Mangialuomo – live acustica (video)
Cristina Donà – Goccia – live (video)

Hitting Everybody The Police Live, Torino 02.10.07

Uno si rende conto di come passi veloce il tempo quando nota che ha parlato di questa data dei Police sette mesi fa. Alla fine, possiamo dirlo, i tre hanno mantenuto la parola chiesta. Nessun disco nuovo, almeno finora. Ma anche niente “Mother” in scaletta. Comunque.

È stato un bel concerto, c’è poco da dire. Che però è iniziato alle 9 e 40. Niente di male, se non fosse che le danze sono state aperte da “La notte della Taranta”.
Primo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Copeland, che ha lavorato con i “tarantolati”, li ha chiamati sul palco. E quindi alle sette di sera, eccoli là: seimila musicisti sul palco e duemila tamburelli, a suonare una taranta inutilmente contaminata con altro. Già a me la taranta sta sulle palle, quando poi per ringiovanirla, riadattarla, rifarla la mischiano con blues, rock ed elettronica… Ah, tra i musicisti c’era anche Raiss degli Almamegretta. Ma non è finita qua.
Secondo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Sting ha fatto aprire il concerto di Torino, come gli altri del tour, dalla band di suo figlio, tali Fiction Plane. Io non lo sapevo e quindi il mio ragionamento, quando è iniziato il loro set, è stato: “Toh, una band con basso/cantante, chitarra e batteria. Come i Police. Toh, il loro suono ricorda i Police. Ehi, ma il cantante assomiglia a Sting.” L’italico nepotismo è stato però incrinato da una dichiarazione che il giovine leader della band ha rilasciato a Repubblica il giorno dopo. Ha detto qualcosa come: “Siamo meglio dei Police, perché mio padre è un precisino.” Mah.

Insomma, alla fine i Police sono saliti sul palco allestito al “Delle Alpi” davanti a 65000 persone. Solo il pubblico, visto dall’alto delle tribune, era uno spettacolo. Scaletta ben congegnata, con pezzi più soft per prendere fiato alternati ad altri brani suonati veramente con indole rock: e le età dei tre, sommate, arrivano quasi a 180 anni. Molti brani sono stati riarrangiati, con un picco in una meravigliosa versione di “Wrapped Around Your Finger”, veramente emozionante. Schermi giganti e giochi di luce hanno esaltato una scenografia comunque sobria. E poi, che dire della scaletta? Un successo dopo l’altro, dai cinque dischi usciti in poco più di cinque anni. “Roxanne” ci ha invaso di luci rosse, Sting non si è risparmiato, Stewart Copeland ha percosso ogni cosa, Andy Summers ha fatto il suo (e si anche messo una giacchetta, ad un certo punto: si sa, a volte basta un colpo di freddo…). E’ stato un concerto divertente, ben suonato, che ha coinvolto il pubblico più enorme che mi sia capitato di vedere finora. E alla fine, dopo una versione davvero tirata del primo pezzo di Outlandos d’amour, “Next to You”, tutti a casa sorridenti, dai quindicenni che hanno spulciato nei dischi di papà, ai papà, appunto. E la sensazione di avere visto un mito, sì, venticinque anni dopo, ma pur sempre mito.

Setlist: Message in a Bottle – Synchronicity II – Walking On The Moon – Voices Inside My Head/When The World Is Running Down – Don’t Stand So Close To Me – Driven To Tears – Truth Hits Everybody – Hole In My Life – Every Little Thing She Does Is Magic – Wrapped Around Your Finger – De Do Do Do De Da Da Da- Invisible Sun – Walking In Your Footsteps – Can’t Stand Losing You – Roxanne – King Of Pain – So Lonely – Every Breath You Take – Next To You

Video
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Elio e le storie nuove

Andando all’Arena Parco Nord, mercoledì, mi dicevo: “Pubblicherò sul blog qualcosa a proposito del concerto, ma sarà la terza volta che parlo di Elio e le storie tese. Mi limiterò a delle foto.”
Quando “John Holmes” ha aperto l’ennesimo concerto che vedo del simpatico complessino, ho avuto per un attimo il sentore della noia, e mi è balenato per la testa il pentimento per avere prenotato (come ogni volta) il cd brulè.
Eppure mi hanno sorpreso, anche questa volta.
Intanto perché hanno sopperito all’assenza di Rocco Tanica (in studio a Milano a lavorare al nuovo disco della band, che pare esca a gennaio) con un tastierista misterioso (Jantoman? Claudio Simonetti? Johann Sebastian Bach?) e con Vittorio Cosma, che si è presentato con il nome di Clayderman Viganò. Il tutto ha funzionato egregiamente sin dall’inizio, con i brani ormai rodati. Ma poi, stupore, gli Elii hanno eseguito “Oratorium”, una canzone uscita solo su singolo e hanno continuato con “Christmas with the yours” con Graziano Romani sul palco a cantarla come nella versione originale. Ci è stato dato un assaggio del nuovo disco con “Parco Sempione”, che spero diventerà l’inno nazionale di chi si oppone ai bonghisti della domenica (e so che siamo in tanti a desiderare di forare pelli di tamburo).
E ancora, un medley che è stata l’ennesima prova del fatto che la band è veramente padrona di una tecnica superlativa: sono state messe insieme “Pipppero”, “La chanson”, “Discomusic” e “Born to be Abramo”.
A quel punto lo scontato finale con “Tapparella” è stato comunque salutato da un coro di “Forza panino”.

E voi direte: sì, vabbè, ma ci fai sentire qualcosa? E come no: a voi foto e video, proprio di “Parco Sempione” (trovate altri video del concerto qua).

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