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It’s the end (as we know it)

Michael Stipe

Sperando che la dignità che li ha sempre contraddistinti si mantenga, e che quindi non si rimettano insieme tra due anni, dico ciao e grazie di tutto ai R.E.M., pensando che, alla fine, una volta dal vivo li ho visti (e ho fatto delle foto e dei video a cui sono davvero legato).

Che bello, 5000 amici, due chitarre e…

Forse di spinelli ieri notte in piazza Castello a Ferrara ce n’erano: in ogni caso il finale del concerto di The National è stato qualcosa di emozionante. Quella “Vanderlyle Crybaby Geeks” che chiude l’ultimo High Violet, suonata dalle due chitarre acustiche senza amplificazione e qualche fiato davanti a 5000 persone che cantano tutte insieme. Se mi è tremata la mano nelle riprese, quindi, giustificatemi.

Vita e miracoli di John Grant

John Grant

Spero che nessuno mai decida di fare un film su John Grant: la storia, purtroppo, sarebbe già pronta. Un giovane cresciuto nel Michigan religioso e silenziosamente intollerante forma una band, con la quale pubblica sei dischi. Nel frattempo affronta lo scontro tra l’educazione che ha ricevuto e la sua omosessualità. Con questa spina nel fianco, manda a rotoli tutto, stacca la spina agli Czars (questo il nome del gruppo) e si perde tra droghe e alcool.
Infine, un paio di anni fa, scopre che i Midlake (altra band da tenere d’occhio) sono suoi grandi fans e i ragazzi (che hanno una decina d’anni meno di Grant) lo convincono a tornare alla musica: lo aiutano a produrre il disco, che viene registrato con la loro diretta collaborazione nel loro studio. Esattamente un anno fa esce Queen of Denmark, un capolavoro, che conquista critica e pubblico e diventa il disco dell’anno per la rivista Mojo.

Capirete con quale trepidazione sia andato martedì sera a vedere John Grant in concerto in una chiesa fuori Bologna: è stato semplicemente eccezionale. Accompagnato solo da un pianista, con una strumentazione composta da sole tre tastiere, Grant ha raccontato se stesso come nel suo album. Sedici brani tratti da Queen of Denmark, ma anche inediti e altri recuperati dai dischi degli Czars, ognuno dei quali è stato introdotto da qualche parola. Se la “Little Pink House” che ha chiuso il live è la casa dove la nonna di Grant ha vissuto per 70 anni (un record per una statunitense, come lui stesso ha sottolineato), “It’s easier” è un omaggio a certa musica degli anni ’80 e “Chicken Bones” si interroga sulla contraddizione che Grant ha vissuto quando ha percepito del razzismo nei suoi comportamenti, nonostante la sua omosessualità in teoria dovesse renderlo tollerante per primo. Attraverso ogni canzone, un pezzo di vita, un trasloco, un’amica lontana, un amore non corrisposto, un luogo frequentato da bambino. Quando poi è stata la volta di “JC Hates Faggots” John Grant non ha potuto non notare, con sottile ironia, che a 42 anni è arrivato a cantare quella canzone in una chiesa…
Un’ora e mezzo stupenda, quella di martedì sera, impreziosita da nuovi arrangiamenti creati per i brani in scaletta: non c’erano le chitarre e le armonie vocali dei Midlake, nella piccola chiesa che ha ospitato il concerto, ma le linee di sintetizzatore e le parti per pianoforte sono state efficaci e hanno fatto risaltare ancora di più la splendida, ferma e commovente voce baritonale di Grant.
Speriamo che nessuno faccia un film sulla vita e il miracolo di John Grant: sarebbe comunque inferiore a come lui stesso si racconta, in maniera intima, diretta e sobria, ad ogni concerto.
John Grant: live in Castenaso, Bologna, Italy. Setlist: You Don’t Have To – Sigourney Weaver – Where Dreams Go To Die – Marz – Outer Space – Chicken Bones – Silver Platter Club – It’s Easier – JC Hates Faggots – TC and Honey Bear – LOS – Drug – Queen of Denmark – Fireflies – Caramel – Little Pink House.

Sette gelatine di frutta

Non so voi, ma a me piacciono moltissimo le gelatine di frutta, ma non me le compro mai. Un po’ perché sono appena meno care del tartufo (quelle buone) e un po’ perché le finirei subito, appunto.

I video dell’intenso concerto di Cristina Donà di lunedì scorso sono come gelatine, per me, autoprodotte.
Un post melenso? Zuccherino, direi.

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Let's Dance (Ourselves Clean)

James Murphy è un buon furbacchione: non è uno che frega o se ne approfitta, per intenderci, ma semplicemente uno che da anni e anni è molto attento a quello che accade nel mondo musicale. Sente, percepisce, intuisce, riprende, rimastica, ripropone con varianti. Tanto di cappello, eh, mica stiamo sempre a cercare l’originalità assoluta (un concetto, peraltro, che nel 2010 lascia davvero il tempo che trova).
Un altro grande furbastro è, da sempre, David Bowie. Anche lui, soprattutto negli ultimi trent’anni, è stato fondamentalmente con le orecchie ben tese su quello che accadeva in ambito musicale nel mondo, USA e Regno Unito principalmente, per cogliere poi i frutti appena sbocciati delle nuove tendenze e personalizzarli.
Perché mettere insieme questi due personaggi, apparentemente non così vicini? Perché il concerto di Ferrara degli LCD Soundsystem ha confermato quello che io (e altri) abbiamo sentito non appena è giunto alle nostre orecchie This is happening, l’ultimo album dei newyorkesi: c’è un sacco di Bowie negli LCD Soundsystem, soprattutto del Bowie della trilogia berlinese, di quei brani più lenti e ipnotici, che sfruttano armonizzazioni vocali e tappeti di sintetizzatori.

Assistendo allo splendido spettacolo di Ferrara, inoltre, si è sentita questa influenza, o richiamo, in tanti altri brani della scaletta, anche dei dischi vecchi. Non si è trattato di allucinazioni uditive, per carità, ma di alcuni attimi, suggestioni e brani che, effettivamente, mi hanno riportato alla mente alcuni arrangiamenti dei pezzi di Low, Lodger e “Heroes. L’altra sorpresa è stata il notare le grandi doti di cantante di Murphy: una voce profonda, quasi da crooner, che non aveva paura allo stesso tempo di sfidare registri più acuti, rimanendo sempre in totale controllo. Anche qui non riesco a non pensare alla versatilità vocale di Bowie, che ci posso fare? E, infine, l’attenzione a quello che accade oggi nel mondo musicale di cui si parlava sopra: il finale del concerto degli LCD è stato esemplare, com la splendida “New York I Love You” che è sfociata in una versione piano e voci di “Empire State of Mind”, spogliata del tutto dall’iperproduzione di Jay-Z e, in qualche modo, rifatta lì, dal vivo, davanti ai nostri occhi, come se James Murphy l’avesse scritta e ce la restituisse come lui la intendeva. E pazienza se la mania di controllo totale del musicista lo rendesse quasi ridicolo, per il continuo comunicare col fonico di palco e per l’aggiustamento senza sosta di aste e microfoni: tanto più che tutto questo perfezionismo è stato spazzato via da un blackout dell’impianto di diffusione, con il pubblico che non sentiva più niente mentre la band, assordata dai volumi dei monitor sul palco continuava a suonare come se nulla fosse accaduto. Pazienza, perché il concerto dell’altra sera è stata l’ennesima prova della statura di Murphy. Staremo a vedere, quindi, che ne sarà di lui, con o senza LCD Soundsystem. Che possa convincere Bowie a tornare sulle scene? Fantasie da inizio settimana…

Abbiamo fatto il trenino – Express Festival 2010

A differenza dell’anno scorso, dove ho fatto l’en plein o quasi, quest’anno ho partecipato a tre concerti su cinque dell’Express Festival, anticipato di un mese e tenuto per lo più dentro al Locomotiv. Se cliccate sulle foto andate al set, per i primi due concerti. Ieri avevo la macchina fotografica ma senza pile. Genio. Ah, nei prossimi giorni sul sito di Maps trovate le interviste ai protagonisti del Festival.

Efrim MenuckSpirito Collettivo – Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra (8 aprile). Sono stato sempre un grandissimo fan dei Godspeed You! Black Emperor, e ho ascoltato ogni volta con attenzione i lavori della band capitanata da Efrim Menuck. Non sempre mi hanno convinto, ma l’ultimo Kollaps Tradixionales è davvero un ottimo disco. Sentendo Menuck in radio nel pomeriggio prima del concerto, mi ha stupito la sua loquacia e quello che ha raccontato del modo che ha la band di prendere i live: il dialogo col pubblico, la “deromanticizzazione” dello status di band, mi ha detto, sono importanti quanto la musica. E così è stato. Un set lungo e impegnativo, di quasi due ore, per brani che principalmente sono stati presi dall’ultimo disco, cinque persone sul palco (voce e chitarra, batteria e tastiere, due violini e contrabbasso) per un concerto davvero meraviglioso, che ha sfruttato tutta la lineup, coinvolgendo i cinque, ad un certo punto, in un canone da brividi. E l’alternanza tra i maestosi crescendo della band su Constellation e le chiacchierate col pubblico (Menuck ha ironizzato su tutto: dalla non esistenza del Canada, al presentare il suo gruppo prima come Foo Fighters e poi come Death Cab for Cutie) sono state spiazzanti e stimolanti al tempo stesso. Uno dei concerti della stagione.

Hayden Thorpe

Buoni e cattivi – Wild Beasts + These New Puritans (9 aprile). Sono andato al Locomotiv venerdì per i TNPS: il loro ultimo Hidden è bellissimo, e segna davvero un passo avanti rispetto alle spigolosità, talvolta pretenziose, di Beat Pyramid. Avevo ascoltato distrattamente, invece, il pur bello Two Dancers dei Wild Beasts, ma la sensazione che ho avuto dalle due band della Domino Records si è rivelata all’opposto delle aspettative. I Wild Beasts sono stati carichi e eccellenti. Le canzoni, non tutte indimenticabili, sono state suonate con passione e precisione, dando spazio alla musica, e costringendo i due vocalist della band a scambiarsi basso e chitarra con una rapidità fin troppo esagerata. Ma si percepiva che le luci, i cambi di strumento, l’annunciare le canzoni, erano elementi secondari: la band britannica ama la musica che fa, e ama il pubblico. Risultato? Una bellissima sorpresa.
I These New Puritans si sono fatti attendere: dopo il primo set, il Locomotiv ha visto il sipario chiudersi, per chissà quale allestimento di palco, pensavamo noi là sotto. E invece, davvero poca roba: set preso quasi tutto da Hidden, con uno scialbo (e unico) bis con “Elvis” hit del primo disco suonata con una poca voglia e un’energia scarsa da mettere in imbarazzo. Ma l’approccio dei TNP è stato questo anche al Covo due anni fa: non confondiamo, però, l’afflato “punk” con la mancanza di voce o lo scazzo sul palco, per favore. Dimenticabilissimi.

Avanguardie – Stefano Pilia + Massimo Volume che sonorizzano La caduta della casa Usher (11 aprile).  Ultima giornata del Festival con l’appuntamento più colto della cinque giorni. Stefano Pilia propone da solo sul palco la sua visione di musica, che sta diventando sempre più definita e personale. L’uso dell’arco sulla chitarra (una cosa che fanno decisamente in troppi, ormai) è giunto a raffinatezze tecniche e armoniche eccellenti. La seconda parte del breve set, invece, è più rumorista, e fa uso massiccio di feedback, registrazioni, masse sonore sovrapposte. Interessante, sebbene non facile.
I Massimo Volume, poi, hanno riproposto la “cosa” che li ha fatti tornare insieme, due anni fa. Il Museo del Cinema di Torino ha innanzitutto fatto un regalo alla band bolognese, assegnandole la sonorizzazione di uno dei film più belli della storia del cinema: sono passati più di ottant’anni dalla realizzazione di questo capolavoro, che, pur prendendo spunto principalmente dal racconto omonimo di Poe è, in realtà, una summa dell’opera dello scrittore di Baltimora, eppure La caduta della casa Usher riesce a sbalordire per l’ardire della messa in scena e per la freschezza del racconto. I Massimo Volume hanno creato intorno all’opera una musica che sfrutta benissimo il ritmo della narrazione, alternando momenti più rumorosi a (vivaddio) silenzi, ma non si sono limitati a un tappeto: le melodie, le strutture tematiche, le soluzioni talvolta quasi pop che la band ha scelto sono uno dei migliori esempi di sonorizzazione intelligente che si siano visti di recente. Eccezionale.

Dalla prima all'ultima carrozza – Express Festival 2009

Sette concerti in dodici giorni, band diverse tra loro, due location e infiniti cambi di temperatura. Ehm, cercherò di essere breve. Se cliccate sulle fotine, ne potete vedere delle altre. Pensate un po’.

Lydia LunchDal 1977 con amore – Lydia Lunch (20 maggio)

L’avevo intervistata nel pomeriggio a Maps, e aveva concluso la telefonata dicendo letteralmente “portatevi le palle, perché avrò il pisello di fuori”. Questa è Lydia Lunch. Un personaggio che è entrato a gamba tesa nella no wave newyorchese e che lì è rimasta, ben sapendolo. Una carriera fatta di dischi fondamentali e altri decisamente meno riusciti. Sul palco del Locomotiv dice “siamo nel 1977”: prendere o lasciare. Vestita in maniera improbabile, tortura la sua chitarra, ma tira fuori uno spettacolo divertente e consapevole di essere qualcosa di altro, che viene da un altro tempo. Pubblico variopinto e composito, ma quelli, anzi, quelle più truccate non erano nate quando la giovane Lydia faceva comunella con James Chance. Decisamente un bell’inizio.
Sweat, sex, rock’n’roll – Boss Hog e Micragirls (21 maggio)
Cristina MartinezSeconda giornata del Festival all’insegna del sesso e del sudore. Le Micragirls sono tre finlandesi giovanissime, che fanno un garage rock sghembo e scanzonato, divertente. Poi salgono sul palco i Boss Hog: Cristina Martinez non si risparmia, così come Jon Spencer e gli altri della band. Pantaloni di pelle, repertorio preso dai dischi dei Boss Hog, con canzoni che sembrano non vedano l’ora di uscire da bocche, chitarre e tamburi, dopo otto anni di assenza della band dai palchi. Uno dei migliori concerti dell’anno. Giudizio che, lo ammetto, potrebbe derivare anche dal fatto che l’ho seguito tutto in prima fila, a una spanna di distanza da quella meraviglia che è (ahimè) la moglie di Jon Spencer. Eccezionali.
Genesis P-OrridgeMutations – Psychic TV (28 maggio)
La band di Genesis P-Orridge inaugura la seconda tranche dell’Express, all’Arena Puccini. Come nel caso di Lydia Lunch, siamo trasportati altrove, in una dimensione altra, data prima di tutto dall’ormai avvenuta mutazione di Orridge nella sua scomparsa signora. Caschetto biondo, occhi perennemente sgranati, movenze che tentano di essere sexy e provocanti. Ms Genesis ce la mette tutta, e così la sua band. Quello che tirano fuori è uno spettacolo divertente, ma sfuggente, talvolta poco compatto. Rimane, però, una sensazione di divertissement, di intrattenimento che, alla fine, ripaga. Certo, un po’ più di energia non avrebbe guastato, ma in fondo la signora ormai ha una certa età, sebbene sembri comunque più a suo agio a fare le mossette su un palco che a servire il te delle cinque.
Torsten KinsellaSpace Trip – God Is an Astronaut e Nicker Hill Orchestra (29 maggio)
La Nicker Hill Orchestra suona un post rock diligente e ben fatto, ma forse deve ancora acquisire forza e compattezza per risultare efficace. Dopo di loro, finalmente vedo la band irlandese, al chiuso del Locomotiv Club. Ed è uno dei live che vale la pena di vedere in quanto concerto dal vivo. Mi spiego: i tre tirano fuori sul palco dei suoni infinitamente migliori che su disco, e danno ancora senso all’abusata espressione “post rock”. Non lasciano un attimo di tregua, affascinano e coinvolgono, senza avere paura di cadere, in certi momenti, in squarci di riff e ritmi quasi-metal, per poi risollevarsi eterei su nel cielo, portandoci un po’ dove vogliono loro. Quando, dopo un’ora e passa, il concerto finisce, si è quasi storditi, e si vorrebbe fare un altro giro, subito. Un solo appunto: è lodevole l’idea dei God Is an Astronaut di associare dei visual ad ogni brano, è buona parte dello spettacolo, ma molti dei video sembrano davvero visti e rivisti. Peccato, no?
Matmos liveMinimalia – Matmos e Macchine sonore (30 maggio)
Macchine sonore è un progetto di Dario Neri, che, usando materiali industriali (telai, ruote di acciaio, martelletti) e vari pedali, crea loop ipnotici e affascinanti. Forse la location dell’Arena Puccini, in questo caso, non ha aiutato, ma comunque il progetto è da tenere d’occhio. Dario rimane sul palco anche quando ci salgono i Matmos. Il duo è spiritoso, simpatico e decisamente a suo agio. Il set che propongono, però, si rivela alla fine un po’ noioso. Certo, i Matmos riescono a tirare fuori suoni davvero da tutto: il momento davvero memorabile del concerto è una partita a dadi (con dadi da venti, i nerdacci che sono) che diventa una base per un brano musicale. Ma non mi basta, che vi devo dire?
Akron/Family liveIndiegestione – Akron/Family, Women e His Clancyness (31 maggio)
Penultimo giorno del Festival dedicato più di altri alla musica indie, qualsiasi cosa questo termine ormai voglia dire. A patto che voglia dire qualcosa. Del progetto di Jonathan dico solo bene: ormai ha acquisito una sua forma e dimensione, con brevi brani sognanti e eterei, che si reggono bene sulle trame di chitarra e voce e su loop di batteria. Ma la vera sorpresa sono i Women. La band canadese, lo ammetto, su disco non mi aveva convinto gran che. Brani che sembravano essere complicati ad hoc, con suoni creati apposta per tenere a distanza l’ascoltatore. Dal vivo i Women si riscattano ai miei occhi: la sezione ritmica è semplicemente incredibile, e anche le canzoni sembrano concedersi un po’ di più, senza perdere la loro complessità. Pubblico entusiasta, e credo che questa soddisfazione sia derivata davvero, più che da “ehi, dopo avere ascoltato il loro disco d’esordio mille volte me li vedo finalmente dal vivo”, da un “ma chi accidenti sono questi? Ehi! Vado a scaricarmi il disco (siamo nel 2009, facciamocene una ragione)”. Infine, Akron/Family. Beh, partiamo dal presupposto che non li ho mai amati molto, è la prima volta che li vedo dal vivo e mi fanno una certa impressione. Sono eccezionali a suonare, hanno una coesione invidiabile tra di loro, ma dopo un’ora di concerto sono semplicemente stanco. Stanco, sì, non ho più voglia di seguirli, hanno dato a sufficienza in sessanta minuti. Invece lo show dura per altri venti, almeno. Che i fan della band non me ne vogliano, ma qua bisogna togliere, avere il coraggio (sempre a mio parere) di fare set più corti, e magari più efficaci.
Sunn O))) liveOmbre e nebbia – Sunn O))) (1 giugno)
L’Express Festival si conclude di nuovo dentro il caro, vecchio Locomotiv Club, con uno dei concerti più attesi dell’anno. I Sunn O))), che hanno appena pubblicato Monoliths and Dimensions, per me già uno dei dischi dell’anno, tornano in Italia con un tour che celebra i dieci anni dall’uscita di The Grimmrobe Demos, rifacendo il disco per intero dal vivo. Lo potete vedere dalle foto: il Locomotiv completamente ricolmo di fumo, le figure incappucciate di Stephen O’Malley e Greg Anderson che si intravvedono appena sul palco, l’aria che risuona di accordi bassissimi e potenti per più di un’ora. I Sunn O))) portano all’estremo l’idea di concerto, e forse anche di musica: assistere a un loro concerto, chiamiamolo così, è davvero un’esperienza sensoriale, fisica, che prova e sconquassa. E’ qualcosa di vicino a una performance di arte contemporanea, più che altro. Ma i due sanno decisamente il fatto loro: ascoltare l’ultimo disco per credere (o per ricredersi). Una serata memorabile.
Ecco qua, insomma. Le ultime parole di questo lungo post vanno, però, al Locomotiv, il posto dove ho passato, anche quest’anno, un sacco di tempo, dove ho messo i dischi, visto concerti, bevuto e chiacchierato. Dove mi sono divertito e consolato. E quindi grazie a tutti quelli del Locomotiv, a Gabriele, Michele e i ragazzi del bar, e i fonici, e tutti, davvero: perché ci vuole coraggio, di questi tempi, in credere in quello che fate. Bravi. Non vedo l’ora che sia settembre per ricominciare.

Ah, la musica, la musica, la musica, la musica…

La musica (il titolo è preso da qua), si sa, guarisce e consola. Di conseguenza, una bella due giorni di musica è quello che ci voleva.
Ieri, al Bronson, bel concerto dei Giant Sand (e “rivedo” Howe Gelb dopo la cena di due anni fa). Se siete curiosi, ci sono le foto.
Venerdì, festa del Future Film Festival al Locomotiv: grazie, eravate un sacco a ballare la musica che abbiamo messo Jon e io. E ogni volta mi sorprendo della gioia che si diffonde sulle facce in pista quando parte il pezzo di cui prego cadauniamo il video sottostante.[youtube=http://youtu.be/SPlQpGeTbIE]

I do know why

Quando li ho sentiti nominare per la prima volta, intorno a marzo di quest’anno, mi chiedevo che razza di nome fosse Fleet Foxes. Appena ho sentito il loro primo ep, Sun Giant, me ne sono sbattuto dell’onomastica e ho iniziato ad ascoltare a ripetizione le loro canzoni (secondo Last.fm sono la band che ho ascoltato di più, dopo Beatles e Nine Inch Nails, il che per me è un po’ come dire che è la cosa che ho fatto più frequentemente nella vita oltre mangiare e dormire). A Maps quell’ep è diventato il disco di una settimana corta: cinque pezzi, ci stava benissimo. Ma ho sempre avuto la sensazione che, forse, avevo in qualche modo sacrificato il loro talento. Sensazione confermata quando, poco dopo, ho avuto modo di ascoltare tutto il disco. Quando è stato eletto disco del mese da Mojo ero contento come se fosse stato il mio lavoro ad essere stato scelto. Insomma, miei piccoli lettori, amore allo stato puro.

RobinPotevo quindi perdermi la data di ieri a Milano? No, non potevo. E sapevo anche che sarebbe stato un concerto eccezionale, che avrei avuto i lucciconi per tutto il tempo, che le loro armonie vocali sarebbero state scintillanti dal vivo come su disco. Quello che non sapevo è che, alla fine del concerto (con un preambolo durante il concerto) avrei scoperto che condivido con un membro della band una passione in comune, quella per Dario Argento, e che questo ci avrebbe fatto chiacchierare fitti fitti (sebbene per una decina di minuti) e scambiarci le mail, per continuare a distanza il discorso.

Insomma, ci sono serate perfette, dal viaggio in macchina con una delle mie band preferite, fino agli ultimi saluti: so il perché.

Fleet Foxes live@Magazzini Generali – Set fotografico

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