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Il vecchio e il nuovo

Per chi, come me, è arrivato a Bologna a metà degli anni ’90, i Massimo Volume sono stati una presenza costante, voluta o meno. Io credo anche di essere andato ad un loro concerto, probabilmente intorno al 2000, o anche prima, nella vecchia sede del Teatro Polivalente Occupato, quando stava in via Irnerio. Poi per lungo tempo, non ho ascoltato, se non sporadicamente, i Massimo Volume.

PaoloMolti mi hanno parlato, negli ultimi anni, dei Franklin Delano: devo avere ascoltato qualche loro canzone, ma non li ho mai visti dal vivo. Poi, quest’estate, chi ha registrato il “loro” nuovo disco, mi ha detto: “Il nuovo progetto dei Franklin Delano è davvero bello.” Un paio di mesi dopo è arrivato un promo in radio, firmato Blake/e/e/e, intitolato Border Radio. Amore al primo ascolto.

Blake/e/e/e e Massimo Volume sono stati protagonisti del concerto di venerdì scorso all’Estragon, i primi come band di spalla dei secondi, che si sono sciolti nel 2002 e adesso si sono riformati. Sono due band diverse, davvero molto diverse: i Blake/e/e/e lavorano sulle suggestioni della musica, usano tanti strumenti, dal banjo alla chitarra, dalla steel drum alle percussioni. Quando li ho ospitati in Maps hanno detto che il loro disco è decisamente sifone-friendly*, ed è vero. Ma è un disco che affascina, intriga. È un lavoro in cui ogni canzone suona nuova e sorprendente, che mischia suoni e tendenze diverse tra loro, che richiama i modi tonali orientali senza sembrare ruffiano, che usa accorgimenti della musica indiana senza che ti venga da dire “E basta con ‘sti fricchettoni”. E tutte queste promesse sono mantenute dai Blake/e/e/e anche dal vivo: mezz’ora ipnotica e bellissima, che ha attirato e fatto ululare anche molto del pubblico che venerdì era all’Estragon solo per i Massimo Volume.

Mimì closing eyesI Massimo Volume, invece, spostano il peso del corpo tra le bellissime parole di Clementi e le musiche dei validi elementi che hanno fatto parte della band negli anni. L’aggiunta di questa reunion è quella di Stefano Pilia, uno che conosco da anni, e che ho visto suonare numerose volte, ma di cui non avevo mai veramente intuito lo spirito rock da animale da palco (espressione logora e abusata? Guardatelo dal vivo e poi ne riparliamo). Perfetti Egle Sommacal e Vittoria Burattini, scatenato Pilia, come dicevo, e Clementi che ci crede. Ecco, forse, il segreto. Crederci, veramente e in maniera assoluta. Ma credere a quello che si dice, che si canta e si suona, senza pensare ad altro. La scommessa era quella di vedere, dopo le tonnellate di riff, rullate e altro che ci siamo sorbiti dal 2002 ad oggi, se la musica dei Massimo Volume fosse ancora valida. Lo è. L’altra scommessa era verificare se le parole di Clementi, le sue visioni urbane dei sentimenti, colpissero ancora. Vinta anche questa.

Il risultato è che il concerto di venerdì è stato non solo uno dei più belli, ma soprattutto uno dei più sinceri che abbia mai visto. E credetemi che di sincerità, nel mondo della musica come in altri, non ce n’è mai abbastanza.

Blake/e/e/e live@Estragon: set fotografico
Massimo Volume live@Estragon: set fotografico

Anch'io accecato (dalla luce)

From the screenIl sospetto deve venire: perché tutti (tutti: fan, appassionati, gente capitata lì per caso, uomini, donne, bambini) ti dicono che assistere a un concerto di Springsteen è un’esperienza che va oltre il concerto, avvicinandosi a qualcos’altro di più totale e magnifico?
Eppure sono andato a Milano, ieri, cercando di non avere aspettative, di non pensare all’amico Morozzi e alle migliaia di persone nel mondo che, come lui, investono immani quantità di tempo e soldi per seguire il Boss in tutte o quasi le tappe dei tour europei. Non ho pensato al mito, ai dischi, alle immagini che lo ritraggono. Sono entrato a San Siro cercando – più che altro – di non svenire per il caldo. Poi ho visto quante persone c’erano e ho vacillato.

Alle otto e cinquanta di ieri sera è successo qualcosa: Bruce Springsteen e la E Street Band sono saliti sul palco dello Stadio Mezza di Milano, hanno suonato una cover (“Summertime Blues” di Eddie Cochran, per la cronaca) e si è aperto un squarcio temporale che è durato tre ore esatte, praticamente senza pause. Senza. Pause.
Part of the audience (a very little part)Oggi mi è arrivata una mail da un ascoltatore che sapeva sarei andato al concerto, che mi chiedeva con che parole avrei descritto in onda la serata di ieri. Figuratevi qua, che posso fare, mettendo passo dopo passo le parole nero su bianco…
È stato incredibile. Non ho mai visto nessuno, e dico nessuno, spendersi sul palco in quel modo, essere disponibile col pubblico, prendere richieste, stravolgere scalette per essere vicino alla folla che è venuta apposta per vedere e sentire lui e la sua band. Ma soprattutto – e qui sta il segreto, miei piccoli lettori – non ho mai visto nessuno divertirsi così sul palco.
Eravamo 65000, ieri. Anche secondo la Questura (il Boss unisce gli animi e i conteggi). E abbiamo letteralmente vibrato a tempo. Avete mai visto 130000 braccia agitarsi in sincronia? Avete mai sentito come 65000 persone cantano “Born to Run”? Avete mai visto un sessantenne buttarsi per terra, urlare, suonare, incitare pubblico e band per centottanta minuti, risultando sempre sincero e credibile? Avete mai visto lo stesso sessantenne finire il concerto, uscire di nuovo, prendere una tinozza e una spugna, bagnare tutte le prime file del pubblico, risalire sul palco e fare un bis di otto canzoni, finendo con “Twist and Shout”?
Io, fino a ieri, no.

The BossNon è stato un concerto, è stato decisamente qualcosa di più. Tanto che vorrei comprarmi una Smemoranda apposta per segnare la data di ieri. E basta.
Mi unisco agli accecati. E anche io vi dico, o voi che non siete mai andati ad un concerto di Springsteen: andateci. Andateci. Non vi pentirete assolutamente, perché, una volta tanto, “quello che si dice” è vero, ma in più c’è la musica.

Bruce Springsteen and the E Street Band – Milano 25.06.08. Tracklist: Summertime Blues (cover) – Out In The Street – Radio Nowhere – Prove It All Night – The Promised Land – Spirit In The Night – None But The Brave – Hungry Heart [Tour Premiere] – Candy’s Room – Darkness On The Edge Of Town – Darlington County – Because The Night – She’s The One – Livin’ In The Future – Mary’s Place – I’m On Fire – Racing In The Street – The Rising – Last To Die – Long Walk Home – Badlands
Girls In Their Summer Clothes – Detroit Medley – Born To Run – Rosalita – Bobby Jean – Dancing In The Dark – American Land – Twist And Shout (cover) [Tour Premiere]

Ancora non ci credete? Toh, allora, vedere per credere. Due pezzi minori, “Because the Night” e “I’m on Fire”, freschi freschi da ieri…

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[youtube http://www.youtube.com/watch?v=f46DmRxGNco&hl=it]

"Noi siamo le esplosioni nel cielo"

So Long, Lonesome

Gli Explosions in the Sky fanno dischi che tu metti nel lettore mp3, o nello stereo, premi play, e ti fai gli affari tuoi. E poi, ad un certo punto, ti fermi immobile ad ascoltare, interrompendo qualsiasi cosa tu stia facendo, senza che abbiano detto una parola.
Gli Explosions in the Sky fanno concerti, come quello di ieri all’Estragon, in cui iniziano piano, e tu sei con loro, teso a percepire ogni più lieve nota, e poi ti portano su, su, su, fino (ad esplodere) nel cielo.

Non so quanto sia ampio il cielo del Texas da cui viene la band, ma so che i quattro sfruttano ogni possibilità dinamica dei loro strumenti, che diventano piccole gocce di pioggia o squassanti tuoni, dal pianissimo al fortissimo, gradualmente o all’improvviso.
E gli Explosions in the Sky emozionano come ogni fenomeno naturale che ci si mostra con possenza e come ogni manifestazione della delicatezza.

“Buonasera a tutti, grazie di essere venuti”, ha detto uno di loro in italiano. “Noi siamo le esplosioni nel cielo, e questa sera ci metteremo il cuore.”
Ed è iniziato uno dei concerti più belli a cui abbia mai assistito.

P.S. Scaricatevi qua il loro album The Rescue, gratuitamente, se avete problemi di coscienza.
P.P.S. Se la mia settimana di concerti ininterrotti inizia così… Tra poco Vampire Weekend, domani Why?, giovedì Cesare Basile, venerdì Spiritualized, sabato Campbell&Lanegan, lunedì Malkmus & the Jicks…

My N.Y.C. from A to Z – 1

American Dream Hostel. Un nome che è tutto un programma, quello del posto dove ho alloggiato stavolta. Un posto simile alla casa di Elwood ne I Blues Brothers, con ospiti che si incontrano nella sala da pranzo e scoprono per caso di avere vissuto per venticinque anni a due strade di distanza dall’altra parte degli Stati Uniti. E il proprietario che si commuove quando ce ne andiamo e, come un papà, ci dà la busta coi soldi per pagarci la navetta fino all’aeroporto.

Blues. Sono stato due volte al Terra Blues: avete presenti i locali con i tavolini davanti al palco, la gente improbabile, schitarrate e canzoni che dicono “I’m so lonely”, eccetera eccetera? Ecco: tutto questo è quel locale del Village, dove ho visto un grandissimo concerto di James Armstrong (video qua). Uno che ad un certo punto si è messo a suonare sul bancone e in mezzo alla gente. Per dire.

Cinema. Ci sono stato tre volte: per caso i film che ho visto erano in due delle sale più “in” della New York alternativa, l’Angelika Film Center e l’IFC Center. Dei film ne ho parlato altrove (qua e qua), ma devo dire che questa semplice attività mi ha fatto sentire a casa, visto che vado al cinema di continuo. E fare la fila per il biglietto mi ha fatto tanto sentire Charlie Brown e i suoi amici. “Uno, prego”.

Destroyer. Il mio primo concerto di questo viaggio è del signore canadese. Concerto un po’ deludente, devo dire. Band di spalla una inutile (Colossal Yes), una buona (Andre Ethier). Sale sul palco Destroyer e non mi sta simpatico. Inoltre assomiglia un sacco a Pino Daniele, e quindi, da quando inizia cantare a quando smette di farlo, sono tesissimo perché temo attacchi “Napul’è”. Se volete, le foto del concerto sono qua (e noterete la somiglianza co’ Ddanie’).

Elaine’s. Da quando Woody Allen me l’ha mostrato, dopo i titoli di testa di Manhattan, non me lo sono più tirato via dalla testa. “Quante persone interessanti ci saranno da Elaine’s, quanti discorsi meravigliosi, quanti Woody Allen ci mangeranno!”. Per carità, Elaine’s è un ristorante molto bello e “al’europea” nell’Upper East Side (ma va?), dove si mangia bene. Ma dove non dovevamo andare alla fine del viaggio, perché, dopo avere visto i prezzi, la tentazione di ordinare un brodino e un bicchiere d’acqua di rubinetto è stata grande. Ma alla fine è andata bene.

Feist. Il concerto più atteso, diciamolo, visto nella magnifica Hammerstein Ballroom. Un concerto all’insegna del dolce&tenero, ma che ha mostrato la signorina (canadese anch’essa) molto più grintosa e meno timida di quanto pensassi. La cosa più bella della serata sono stati i visual creati al momento da una coppia di artisti (presumo canadesi pure loro), mischiando tecniche di collage, silhouettes, disegni e riprese video. Stupendo. (Qui ci sono i video di tre canzoni, qui le foto: lo dico per completezza)

Guggenheim. L’anno scorso era impacchettato, quest’anno pure, quindi tanto vale andarci, mi sono detto. E ho visto una mostra molto bella di un tale Cai Guo-Qiang, potente, di impatto fortissimo e, per una volta, comprensibile ed emozionante anche per i non addetti ai lavori. E salire e scendere le spiralone del museo è comunque una bella esperienza.

Hotel Gansevoort. Me l’aveva scritto un amico. “Vai al Plunge, il bar all’ultimo piano dell’Hotel Gansevoort, nel Meatpacking district.” E io ci sono andato, facendomi largo tra modelli e modelle, casualmente all’ora del tramonto. Quello che ho visto dalla terrazza del bar è questo.

continua, ahivoi

Machine Gun

“Do we exchange cards?”, mi chiede la potentissima agente giapponese, alla fine della riunione.
Una riunione che mi ha visto – in quanto soggetto nuovo, inedito, sconosciuto, occidentale, italiano – oggetto di domande indiscrete nei contenuti tanto quanto impeccabili e gentili nella forma.
E io non ho un biglietto da visita con cui concludere degnamente la riunione.
Una riunione in cui l’agente e un suo collaboratore chiedevano, discutevano, confabulavano tra loro, mentre io cercavo di cavarmela. E mentre un’altra giapponese scriveva tutto quello che ci dicevamo, e un agente se possibile ancora più potente della mia interlocutrice ascoltava, suggeriva domande, commentava. In giapponese.
Vengo a sapere che il biglietto da visita viene dato con due mani. “È una questione zen, di ying e yang”, mi dice I. E io, che di zen non so nulla, e diffido senza sapere, non ho un biglietto da visita da porgere con due mani.
Usciamo.

Mi si chiede di essere una mitragliatrice, ultimamente. E allo stesso tempo di esserne il bersaglio, un omino-sempre-in-piedi.
Ed è forse per questo che mi sono completamente distaccato da tutto l’altroieri, a Firenze, quando sono andato a vedere i Portishead. Un concerto perfetto, impeccabile, con Beth Gibbons che pareva sollevare tutto il dolore del mondo ad ogni nota.
Mi viene richiesto di continuare, di non abbattermi, di non pensarci, di andare avanti, con o senza biglietti da visita. Di fare bene, fare tutto, sorridere, calcolare, rispondere, prendere decisioni, essere efficiente. È una guerra, ma se ne accorge qualcuno?
In questi momenti, in cui sembra di fare, fare, fare, avendo così poco (se non niente) indietro, è stato un piacere abbandonarmi alla band inglese, che ha suonato solo per me. Che sia stato un caso che l’unico brano che abbia ripreso, dopo decine di foto scattate, sia stato “Roads”?

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Nel suo giardino – Cristina Donà @ Estragon 15.12.07

La legge di Murphy colpisce sempre, in tutte le sue varianti, compresa quella dei concerti: “Se per una volta andrai in ritardo ad un concerto, sarà all’unico concerto dell’anno che inizia in orario.”
E infatti così è stato per quello di Cristina Donà all’Estragon, dove, giusto un mese fa, ho aspettato per un’ora e mezzo l’inizio del concerto degli Okkervil River.

Comunque. Era la prima volta che vedevo la Donà dal vivo, e avevo nelle orecchie solo voci di gente che mi diceva delle gag che faceva dal vivo. Ora, mi era stata molto simpatica quando era venuta in radio (qui trovate, oltre ad un’intervista, anche una bellissima versione di “Universo” per voce e chitarra), ma non pensavo che fosse così divertente come in effetti è stata all’Estragon.
La Donà ha cambiato registro tutto il tempo: si è presa in giro per un suo profilo molto new age apparso su una rivista femminile, ha fatto le vocine, ha introdotto con aneddoti surreali le sue canzoni, e ha interagito meravigliosamente col pubblico.
Ad un certo punto del concerto lei era da sola con la chitarra sul palco, e due ragazze hanno iniziato a vociare dalle prime file. Il punto era che dovevano prendere la macchina per tornare a casa, perché lavoravano il giorno dopo. E ancora non avevano sentito “Invisibile”. “Ma io faccio quella canzone alla fine della scaletta, con tutta la band”, ha finto di protestare la Donà. Il resto scopritelo in questo video.
Ed è andata così fino alla fine. Ecco, quando un’artista riesce a parlare in maniera intima e scanzonata allo stesso tempo, per me raggiunge qualcosa che molti altri musicisti che ho visto su quel palco e in tanti altri posti non sfiorano neanche. La consapevolezza di sè, della propria bravura e dei propri limiti, ti porta davvero dentro la musica che sta suonando. E si svolazza tutti insieme, ben sapendo che, anche se si dovesse atterrare di culo, ci sarebbe una risata a separarci dal prossimo decollo.

Foto
Cristina Donà – Invisibile – live acustica (video)
Cristina Donà – Mangialuomo – live acustica (video)
Cristina Donà – Goccia – live (video)

Hitting Everybody The Police Live, Torino 02.10.07

Uno si rende conto di come passi veloce il tempo quando nota che ha parlato di questa data dei Police sette mesi fa. Alla fine, possiamo dirlo, i tre hanno mantenuto la parola chiesta. Nessun disco nuovo, almeno finora. Ma anche niente “Mother” in scaletta. Comunque.

È stato un bel concerto, c’è poco da dire. Che però è iniziato alle 9 e 40. Niente di male, se non fosse che le danze sono state aperte da “La notte della Taranta”.
Primo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Copeland, che ha lavorato con i “tarantolati”, li ha chiamati sul palco. E quindi alle sette di sera, eccoli là: seimila musicisti sul palco e duemila tamburelli, a suonare una taranta inutilmente contaminata con altro. Già a me la taranta sta sulle palle, quando poi per ringiovanirla, riadattarla, rifarla la mischiano con blues, rock ed elettronica… Ah, tra i musicisti c’era anche Raiss degli Almamegretta. Ma non è finita qua.
Secondo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Sting ha fatto aprire il concerto di Torino, come gli altri del tour, dalla band di suo figlio, tali Fiction Plane. Io non lo sapevo e quindi il mio ragionamento, quando è iniziato il loro set, è stato: “Toh, una band con basso/cantante, chitarra e batteria. Come i Police. Toh, il loro suono ricorda i Police. Ehi, ma il cantante assomiglia a Sting.” L’italico nepotismo è stato però incrinato da una dichiarazione che il giovine leader della band ha rilasciato a Repubblica il giorno dopo. Ha detto qualcosa come: “Siamo meglio dei Police, perché mio padre è un precisino.” Mah.

Insomma, alla fine i Police sono saliti sul palco allestito al “Delle Alpi” davanti a 65000 persone. Solo il pubblico, visto dall’alto delle tribune, era uno spettacolo. Scaletta ben congegnata, con pezzi più soft per prendere fiato alternati ad altri brani suonati veramente con indole rock: e le età dei tre, sommate, arrivano quasi a 180 anni. Molti brani sono stati riarrangiati, con un picco in una meravigliosa versione di “Wrapped Around Your Finger”, veramente emozionante. Schermi giganti e giochi di luce hanno esaltato una scenografia comunque sobria. E poi, che dire della scaletta? Un successo dopo l’altro, dai cinque dischi usciti in poco più di cinque anni. “Roxanne” ci ha invaso di luci rosse, Sting non si è risparmiato, Stewart Copeland ha percosso ogni cosa, Andy Summers ha fatto il suo (e si anche messo una giacchetta, ad un certo punto: si sa, a volte basta un colpo di freddo…). E’ stato un concerto divertente, ben suonato, che ha coinvolto il pubblico più enorme che mi sia capitato di vedere finora. E alla fine, dopo una versione davvero tirata del primo pezzo di Outlandos d’amour, “Next to You”, tutti a casa sorridenti, dai quindicenni che hanno spulciato nei dischi di papà, ai papà, appunto. E la sensazione di avere visto un mito, sì, venticinque anni dopo, ma pur sempre mito.

Setlist: Message in a Bottle – Synchronicity II – Walking On The Moon – Voices Inside My Head/When The World Is Running Down – Don’t Stand So Close To Me – Driven To Tears – Truth Hits Everybody – Hole In My Life – Every Little Thing She Does Is Magic – Wrapped Around Your Finger – De Do Do Do De Da Da Da- Invisible Sun – Walking In Your Footsteps – Can’t Stand Losing You – Roxanne – King Of Pain – So Lonely – Every Breath You Take – Next To You

Video
Foto

E chi l'avrebbe mai detto…

…di vedere Tool e Nine Inch Nails sullo stesso palco? E di vederli per la seconda volta nel giro di una manciata di mesi? Eppure.

L’Independent Days Festival di quest’anno si è ridotto, per me, ai concerti degli headliner di cui sopra. Delle altre band, lo confesso, non me ne poteva fregare di meno. Sono arrivato all’Arena Parco Nord alle sette e mezzo, ho visto i Maximo Park salutare il pubblico, pubblico che indossava solo magliette dei Tool e dei NIN, peraltro, e mi sono sistemato sulla collinetta davanti al palco. Una posizione da anziani, lo ammetto, ma il mio corpo aveva dato abbastanza a stare nelle prime file qualche mese fa.

Il set dei Tool è stato meraviglioso. La band di Maynard Keenan, si sa, è una macchina perfetta e si è presentata a Bologna in forma smagliante. Addirittura Maynard ha detto una decina di parole, introducendo i Nine Inch Nails e prendendo in giro il cappello nuovo di Jeordie White, che il bassista dei NIN ha avuto la decenza di non mostrare, però. Il concerto è stato potente, compatto, senza mezza sbavatura, decorato da scenografie stupende e da giochi di luce meravigliosi, con tanto di laser verdi sul pubblico. E su “Lateralus” un jam stupenda che valeva da sola tutto il concerto.

I NIN hanno seguito più o meno le scalette dei concerti del tour di Year Zero. La scaletta di Milano è stata più ricca di classici (ricordo ancora, allora, una “Reptile” da brividi), ma si sono superati in quanto ad allestimento del palco. Il vero motivo, a parte l’età che avanza, per cui mi sono messo a una certa distanza dal palco è stato proprio quello di vedere le luci e gli effetti sul palco dei Nine Inch Nails. Nel loro ultimo dvd, Beside You In Time, è possibile rendersi conto dell’apparato scenico che accompagna alcuni pezzi: è sbalorditivo il lavoro che viene fatto e la precisione con cui lo staff di Reznor e soci agisce sul palco, in perfetta coordinazione con dei musicisti pazzeschi. Ho letto di sospetti di playback, ma sinceramente non credo siano fondati. Reznor è un perfezionista e difficilmente si accontenta di performance mediocri da parte di musicisti e tecnici. Ecco spiegata l’enorme livello della performance dei NIN. E poi hanno fatto “Dead Souls”!
Unica nota negativa, il pistolotto pro-file sharing, diligentemente tradotto per il gentile pubblico dall’italico tastierista Alessandro Cortini: citando Valido, allora regalaceli in allegato con un giornale, i dischi.

Ah, no, c’è un’altra nota negativa, ma riguarda l’organizzazione del festival in sè: una volta entrati nell’arena non si poteva uscire. Avete letto bene. Una specie di reclusione forzata, con le migliaia di persone presenti obbligate a fare la fila per un (1) bagno e due (2) punti ristorazione. Il tutto nel mezzo della Festa Nazionale dell’Unità, ricolma di cessi e crescentine. Mah.

Tool setlist: Jambi – Stinkfist* – Forty six and 2 – Schism – Rosetta stoned – FLOOD – Lateralus – Vicarious
NIN setlist: Hyperpower!* – The Beginning of the End* – Heresy* – Terrible Lie – March of the Pigs – Closer – Survivalism – Burn – Gave Up* – Me I’m Not – The Great Destroyer (Slave Screams interlude) – Eraser – Only – Wish – The Good Soldier – No You Don’t – Dead Souls* – The Hand That Feeds – Head like a Hole –
Hurt

Dei pezzi con l’asterisco trovate i video sulla mia pagina di YouTube, e qui ci sono diverse foto.
La posizione centrale-su-collinetta ha diversi vantaggi, oh yeah.

Questa sera tutti da Beck, è festa ye-ye* (Considerazioni sparse e frammentarie, come sempre dopo le feste ben riuscite)

La rassegna “Ferrara sotto le stelle” dà sempre gioie infinite, ma il concerto di ieri di Beck è stato qualcosa di più.
Hanno aperto i Raveonettes, ma non me li sono filati più di tanto: la mia attenzione è stata presa da tre cose, infatti. La prima è stata rendermi conto di quanto il batterista assomigliasse a Micheal Stipe. La seconda, capire se la cantante mi piacesse o meno (alla fine ho capito che non mi piaceva). La terza, capire a che animale assomigliasse un’americana che stava vicino a me: ancora non sono giunto a conclusione.

E poi è arrivato Beck.

Mancava solo il piffero che suonavo alle medie. Beck ha un approccio totale verso la musica: il palco è stracolmo di strumenti, almeno due set di percussioni attive, ma anche diamoniche, sintetizzatori e tastiere, bidoni di latta, ogni possibile variante delle maracas, bassi, chitarre, banjo (suonati per finta), rumori fatti con la bocca, na na nannannanna na na, tamburelli, tutto. E anche i generi toccati sono moltissimi, ma questo, di Beck, già si sa. Egli (adoro scrivere “egli”) rappa, canta, parla, salta, danza. Tutto. Si diverte e fa spettacolo, uno spettacolo totale.

Quanti Losers. Quando iniziano gli accordazzi slide, penso che, allora, la fa. La canzone che l’ha fatto conoscere nel mondo intiero è accompagnata da una foto dell’epoca di Mellow Gold (e non è che il signor Hansen sia cambiato molto, poi). Ovviamente tutto il pubblico canta a squarciagola il ritornello. O, sigh, qualcos’altro…

Intermezzo. Sono vittima di una persecuzione, da tempo: a qualsiasi concerto io vada, dietro di me ci sono sempre degli ubriachi, piuttosto imponenti fisicamente e di solito di origine veneta, che riescono in alcune imprese:
1. tenere a voce altissima un discorso che fondamentalmente prevede una persona A che dice “la conosci questa?” e una persona B che dice “no”: beh, riconosco loro una certa capacità dialettica e polmonare, visto che un dialogo del genere dura almeno venti minuti e riesce ad essere perfettamente udito nel raggio di cento metri, senza badare ai watt emessi dagli amplificatori;
2. usare le canzoni che sono suonate al momento per intonarci su cori da stadio o, più semplicemente, insulti di vario tipo, a caso o verso qualche particolare nemico del gruppo di alcolizzati: il tutto sempre ai toni indicati al punto uno;
3. nel momento in cui qualcuno fa notare loro che, insomma, vorrebbero sentire il concerto e non “daimoruzzifacciilgol, facciilgooooooool”, diventano educatissimi, chiedono scusa e stanno zitti: per un minuto esatto, per poi ricominciare esattamente come prima.

Heart. Beck ama la chitarra acustica, e tocca la vetta più alta del concerto quando riprende la sua cover di “Everybody’s gotta learn sometimes”, in maniera ancora più intima che nella colonna sonora di Eternal Sunshine. E io ho già gli occhi lucidi. Niente in confronto ad uno al mio fianco che, quando si passa al pezzo successivo, e poi a “The Golden Age”, scoppia in lacrime. Appena però gli altri componenti del gruppo, seduti ad una tavola apparecchiata, iniziano ad usare piatti, bicchieri e posate per accompagnare il brano, urla tra le lacrime “Stronzi” e si copre il viso con le mani. Mah. Secondo me è uno che è stato traumatizzato dal concerto del 1980 degli Skiantos**, e appena vede delle stoviglie su un palco impazzisce.

All Tomorrow’s Parties. Alla fine del concerto, salgono una ventina di persone del pubblico e, finalmente, mentre tutti ballano intorno a me, e sul palco, e tutti suonano qualcosa o percuotono qualcos’altro, capisco di essere ad una delle feste più divertenti della mia vita. Uscendo, effettivamente, nessuno usa la parola “concerto” e nessuno si preoccupa di avere fatto casino a casa Beck. Non vedo l’ora che mi inviti di nuovo. Magnifico.

* Il titolo è un omaggio ad una trasmissione radiofonica meravigliosa, che però non c’è più.
** Freak Antoni parlerà dei Beatles proprio stasera, dalle 2230, nella penultima puntata di Monolocane, una trasmissione radiofonica un po’ meno meravigliosa, che potrà essere ascoltata qui o qui. Perché dei Beatles? Perché esattamente quarant’anni fa facevano la loro prima e unica comparsa in Italia. Sì, ogni occasione è buona, ‘mbè?

Ecco l’intervista a Freak Antoni!

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Apparizioni (e sparizioni): il ritorno degli Slint

Brian McMahan

Ci sono degli accadimenti che, appena vengono annunciati, diventano “eventiimperdibili”. Ovviamente il concerto al T.P.O. degli Slint è uno di questi. Prima per molti motivi concordavo con lei, soprattutto perché, intorno a me, si pompava la cosa come non mai, e quando le cose si pompano come non mai, divento automaticamente sospettoso. E quindi, il sapere che il tour europeo degli Slint, dopo l’annullamento della data di Barcellona, prevedeva Bologna come unica data del sud Europa; sapere che avevano chiesto un bel po’ di soldi, e quindi il biglietto non sarebbe stato a prezzi popolari; sentire persone che dicevano “è meglio essere lì verso le nove”, quando mai al T.P.O. ci sono andato prima delle dieci; sentire dagli organizzatori che c’erano oltre ottocento prenotazioni, anzi, sentire che c’erano delle prenotazioni per un concerto al T.P.O… Insomma, mi stava passando la voglia di andarci.
Ma mi sono trovato dentro, con un bel po’ di euro in meno, un timbro verde sulla mano destra, e l’idea comunque di vedere qualcosa di bello, ma in maniera disagevole. E invece…

E invece, grazie a C., e soprattutto ai suoi amici fonici, mi sono visto tutto il concerto seduto praticamente sul palco, ad un paio di metri dagli Slint. Ma andiamo con ordine.
Ad aprire, i Radian, un gruppo che basta sentirlo per un paio di minuti per capire che sono germanici (austriaci, in questo caso), nel migliore senso del termine. Non li conoscevo, ma mi hanno affascinato. Vicino a me e a C., seduto fumante e bevente birra di continuo, un non ben identificato ciccione. Abbastanza brutto, ma mansueto: comunque un po’ inquietante.
Finalmente salgono sul palco gli Slint. Già, il palco. Dopo il concerto dei Radian, il palco viene preparato dall’entourage degli Slint, in questo modo. Ogni amplificatore viene segnato con un nastro rosa fosforescente, ogni sporgenza, idem. Non solo: viene anche segnato con delle frecce rosa il percorso che va dal “backstage” al palco, andata e ritorno (da notare che il percorso è lo stesso). Guardo e non capisco. Comunque.
Il concerto degli Slint è potente, e mi rendo conto che il ciccione birra-e-sigarette è il bassista del gruppo. Già, infatti, chi li conosceva gli Slint? Io ammetto la mia ignoranza musicale, ma Spiderland l’ho sentito per la prima volta un paio di anni fa, come molti di voi che state leggendo, credo (e se non l’avete, compratelo, veramente: se non vi piace vi restituisco i soldi di tasca mia). Immediatamente, anche senza etichette preventive (tipo “ha dato il via al post-rock”), ci si rende conto che è un capolavoro, esattamente come mi bastano le poche note iniziali del primo pezzo per capire che questi Slint vengono da qualche altra parte e da qualche altro tempo. Credo siano uno di quei gruppi che, anche se venissero ibernati e poi scongelati tra vent’anni, per un’altra reunion, lascerebbero comunque tutti a bocca aperta. Mi godo il concerto da seduto, e ogni tanto i fonici portano pure da bere a me e a C. Noti volti della scena musicale bolognese mi guardano, dalla platea e da bordo palco, con un’espressione che pare dire: “Cazzo è quello? Che ci fa lì lui?” Io me ne sbatto e mi beo di David Pajo ad un paio di metri da me.
Brian McMahan è messo in modo tale da essere rivolto proprio verso di me, quando canta. Mi sento come se fossi nella loro sala prove, in certi momenti del concerto, ed è una sensazione incredibile. Perché sembra proprio di vederli, questi quattro ragazzini, mentre pensano e provano quattordici anni fa la manciata di pezzi dei loro due album. Silenziosi e perfetti, così diversi dal gruppo che veramente esplose nell’anno in cui uscì Spiderland, i Nirvana.
Non riesco a seguire i diversi pezzi, mi sembra che sia un’unica canzone (e qui sta la grande differenza della mia percezione della serata rispetto al resto del pubblico: è stato un concerto continuamente interrotto, tra un pezzo e l’altro, da almeno cinque minuti di pausa), come un respiro.
E i respiri possono finire di colpo, senza alcun avviso. Gli Slint, dopo l’ultima nota, sono usciti senza dire una parola, niente di niente, ma proprio niente.
Immagino siano tornati nel luogo e nel tempo da dove sono venuti, seguendo delle frecce colorate.

The sun was setting by the time we left. We walked across
the deserted lot, alone. We were tired, but we managed to smile.

Però non hanno neanche sorriso.

Slint, live at TPO, Bologna, Italy – Photoset

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