I Me Mine

Miopia

Vado a fare una visita oculistica. Il dottore, greco, è molto cordiale. Fa una rapida anamnesi, poi mi chiede che cosa faccio nella vita. Quando viene a sapere che lavoro in radio, dice una battuta semiseria sui giornalisti, qualcosa come “sono tutti al soldo di qualcuno”. Io, di contro, esalto le magnifiche sorti e progressive dell’informazione indipendente e continuiamo a chiacchierare, tra un esame e l’altro.
“Francesco, lei è mai stato in Grecia?”
“No”, rispondo io. E mi fermo un secondo prima di aggiungere una frase fuori luogo come “però sono stato a Istanbul”.
Il dottore mi sta simpatico, esprime pensieri contro la guerra in Iraq e l’occupazione americana, dimostra un senso europeista, insomma, ci chiacchiero volentieri.
Il discorso sulla guerra in Iraq continua in uno stanzino buio. Mi fa appoggiare il mento su un affare di plastica e mi guarda letteralmente negli occhi.
“Che poi, diciamolo, non sono veramente gli americani quelli che comandano, ma, non voglio fare discorsi di razza, eh, ma insomma, sono quelli… Un popolo di strozzini.”
Deglutisco e sento qualcosa che mi sale da dentro.
“Apra bene l’occhio, Francesco”, dice il dottore. E accende una lucina.

Dannazione, un altro post telegrafico!

Telegrafico, sì, però è il primo che scrivo dalla casa nuova. Posizione assunta: quella della defecazione (e qui si potrebbe parlare di una deriva scatologica dei blog, ma lasciamo perdere). Portatile appoggiato ad una sedia, intorno i resti della battaglia contro gli scatoloni, ormai praticamente vinta.
Alcune cose da segnalare. Pensavo di essere un cazzone intellettualoide, e invece sono un cazzone intellettualoide che sa montare i mobili Ikea. Lo so che non ci vuole la laurea, ma io comunque il mio bel pezzo di carta ce l’ho, quindi…
Sempre a proposito di Ikea: ho chiesto informazioni ad una commessa bionda dagli occhi azzurri (gli stessi colori dell’azienda svedese) di nome Heidi. Posso morire felice. E la cosa non è improbabile, visto che, per mancanza di vettovaglie, mi sto nutrendo da giorni di pizza, kebab e piadine. Ah, e ho anche mangiato due wurstel Ikea, sì, quelli biodegradabili, in meno di dodici ore.
Vado da mammà suonando un mandolino. Alla prossima settimana.

Di |2005-04-08T14:04:00+02:008 Aprile 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |17 Commenti

Aggiornamento autocelebrativo

Ne ho parlato qualche giorno fa, e adesso il mio racconto è pubblicato anche sul sito di Linus, che credo cambierà tra non molto, con l’uscita del nuovo numero in edicola.
Così potete leggerlo aggratis e non dire: “E io ho speso quattro euro e mezzo per leggere questo?”

Io, nel frattempo, programmo la mia seconda visita in assoluto all’Ikea, per tentare di ripetere l’exploit di più di un anno fa.

Di |2005-04-05T14:39:00+02:005 Aprile 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |10 Commenti

Possibili spunti

Ringraziate che sto traslocando, se no potrei ammorbarvi con:
– una bella riflessione sul pontificato appena concluso;
– un ricordo degli otto anni passati nella casa che sto lasciando (ma questo, lo sento, arriverà);
– un post incazzato che prenda l’ispirazione dallo spettacolo di Beppe Grillo visto sabato;
– una boutade sui traslochi, appunto.

Scrivo questo solo perché non sembri che io sia in qualche strana forma di silenzio stampa. Fondamentalmente ho cose immediate a cui pensare. Scatoloni, mobili, quella roba là. Il sano vecchio lavoro manuale.
Scusate, ora devo andare, vengono i tecnici di Fastweb nella casa nuova. Non ho ancora lo spazzolone del cesso, ma l’adiesselle, signora mia…

Di |2005-04-04T09:46:00+02:004 Aprile 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , |7 Commenti

Metodo Mon3ssori

E così mi capita di vederti in coda alla posta, tu e il tuo maglioncino rosa con maglietta rosa, tono su tono, e i jeans quelli giusti, e le scarpe da ginnastica rosse, “sneakers l’ultima moda” ha sentenziato il sempre attento Venerdì di Repubblica. Sei davanti a me, come non posso vederti, e penso che un po’ di tempo fa io e i miei amici bolognesi adottati, ti avremmo definito “socciachebellamamìna”, con un lieve prolungamento del suono dell’ultima “i”. Espressione che sta per ragazza anziana (o donna giovane) con prole, di solito infilata in un passeggino che costa quanto un’utilitaria, ma non la tua, perché la tua, ovvio, è una Smart, ragazza anziana o donna giovane che ricordi con precisione le parole di lui “no, non ti preoccupare, non vengo dentro”. E subito dopo ricordi le parole “Ogino Knaus”, le tue, stavolta, immediatamente precedute da un pagano “speriamo in”. E invece hai sfornato un pupo, e non lo volevi. Adesso c’è e pare brutto. Ma sei orgogliosa del tuo culo, del tuo seno, delle tue amiche che ti dicono “ma come sei in forma, nonostante”, e pensano di ricominciare a prendere la pillola.
Sei davanti a me, e hai una bimba, decisamente calma e pacifica. E tu come fai a mantenerla buona in coda alle poste?
Facile.
Le piazzi in grembo il tuo videofonino che trasmette un video che vede l’infante stessa come protagonista.

Ora. Se fossi in forma, brillante, arguto, intelligente e colto tirerei fuori Freud e Lacan, Meyrowitz e McLuhan.
Ma sono stanco. E non sono tutto il resto.
Quindi, anche se non ne so nulla di metodi educativi, non ho un bambino, nonnesonulladellavita, lascia che ti dica solo una cosa: cogliona.

Sentire un sorriso

Questa mattina, sulla strada per la radio, mi sono sentito chiamare. Ho visto due ragazzi che reggevano una signora vecchissima, che non parlava, bianca, con gli occhi chiusi. Stava su come un pupazzo sbilanciato, sorretta da due paia di braccia, che lottavano contro il richiamo della forza di gravità.
“Chiamo l’ambulanza”, ho detto.
E’ arrivata un’altra ragazza, che ha iniziato a dire alla signora “Nonna nonna nonna nonna nonna ci sei mi rispondi nonna”. Poi è arrivata un’altra signora, e ha iniziato a dire “Mamma mamma stai bene mamma mi senti”
In quel momento la voce del 118 mi ha chiesto ancora una volta dove mi trovassi. E poi anche se la signora fosse cosciente. “Sì, mi pare di sì”, ho detto. “Le pare? Ma le sta davanti o no?” “Sì, le passo una parente.” Ho sentito la figlia della signora dire “Ha novantaquattro anni, e ha l’Alzheimer”, mentre la nipote continuava a dire “nonna nonna dove hai male me lo indichi con la mano.”
L’ambulanza è arrivata poco dopo, e la signora ha iniziato a riprendersi lentamente.
Ho sentito uno dei due ragazzi scendere dall’ambulanza e sono stato investito dal tepore del suo “Come andiamo”, rivolto, prima di tutti, alla vecchia signora. Ho visto il sorriso del ragazzo del pronto soccorso, nonostante fosse di spalle.

Dedicato a Serena, Roberta e tutti quelli che affrontano ogni giorno il dolore, la malattia e la morte con un inestinguibile, modesto e grandioso senso di umanità.

Di |2005-03-17T15:47:00+01:0017 Marzo 2005|Categorie: Doctor Robert, I Me Mine|Tag: , , , , |8 Commenti

Fiocca la neve fiocca

Che la neve ci abbia rotto le palle, beh, è evidente. L’ho pensato anche ieri pomeriggio, quando qui a Bologna continuava a fioccare, con l’aggiunta di un vento freddo che non facilitava le cose, e probabilmente faceva compiere alla popolazione anziana (notoriamente più leggera) evoluzioni che manco a Holiday on Ice.
Ma mentre aspettavo l’autobus per andare in radio, mi sono accorto dei fiocchi che si depositavano sul mio cappotto nero. Li ho guardati attentamente (e non oso immaginare che cosa abbiano pensato di me le persone alla fermata) e mi sono reso conto che si vedeva, nei fiocchi più piccoli, la tipica forma del fiocco di neve, come nell’immagine qua.
L’emozione che ho provato mi ha fatto dimenticare della preoccupazione che avevo sentito quando mi ero reso conto che ero rimasto freddo a tutta questa neve. Perché io, tutta questa neve in città, non l’ho mai vista.

Poi sono scivolato per terra.

Di |2005-03-04T11:42:00+01:004 Marzo 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |9 Commenti

L'umanità è bella perché è varia

Tornato dalla mia vacanza più lunga dopo quella di quest’estate, avrei voluto scrivere qua delle cose buffe e belle viste e sentite tra Venezia e Verona. O magari del fatto che mi sono fatto leggere per la prima volta i tarocchi, che mi hanno previsto un 2005 splendido. Sì, mi sto toccando, embè? Invece no.

No, perché ieri, nell’ultimo giorno di questa brevissima vacanza, ho assistito ad una serie di episodi orrendi e sussurrati, comuni e tremendamente fastidiosi. Piccoli come cellule tumorali, e con lo stesso potenziale distruttivo, proprio perché invisibili.
Un viaggio in autobus. In fondo ci sono dei ragazzi marocchini, giovani, sui quindici anni. Accanto a loro due ragazze loro coetanee, che sembrano marocchine anch’esse. Quando le due ragazze si avvicinano alla porta per scendere, i ragazzini iniziano a prenderle in giro. “Bum, bum Camerùn, meglio negro che terùn!”, “Dal Po in giù l’Italia non c’è più”, e cose del genere. Le ragazze un po’ sorridono, un po’ sono in imbarazzo. Poi iniziano a parlare tra loro e sento che sono meridionali. Una di loro dice ai ragazzi: “Ma proprio voi parlate”. Poi, rivolta all’altra: “Verona, non c’è niente da fare.” Il mio primo innocuo pensiero è “Ma guarda un po’ come si mescolano i tratti dei volti”. Il secondo pensiero è “Umanità di merda.”

Un altro viaggio in autobus, poco dopo. Una donna africana, vicino all’uscita, parla a voce alta con un uomo, nella sua lingua. Non si capisce se stiano litigando o se si stiano prendendo in giro. Altri passeggeri dell’autobus, rigorosamente italiani, quindi inclini di natura al silenzio e alla contemplazione, sbuffano e protestano. Un ragazzo accanto a me dice, a voce né troppo alta né troppo bassa: “Una bella pistola, quello ci vorrebbe, e… bam bam”. Affiora nella mia mente solo il secondo dei due pensieri di prima.

In stazione, meno di un’ora dopo, sono al bancone del bar, e sto per pagare una Coca. Arriva un signore, dal chiaro accento meridionale, e chiede con una certa arroganza di parlare con “il responsabile”. La signora alla cassa si gira verso di lui e chiede quale sia il problema. L’uomo, sempre con lo stesso tono, protesta dicendo che il caffè che gli è appena stato servito è troppo lungo, o troppo corto, non ho ben capito. Intanto dietro di me si forma una piccola coda. L’ultimo in fila, un ragazzo della mia età, protesta dicendo che certa gente dovrebbe smetterla di rompere le scatole in questo modo. La discussione tra il cliente e la barista continua, e accanto all’uomo arriva una donna, dai tratti nordafricani: evidentemente i due sono insieme, e forse il “problema” del caffè riguarda anche lei. Il ragazzo dietro di me continua: “Sicuramente quello là non è italiano”. Io mi giro e lo fisso, pensando a quanto noi italiani, effettivamente, siamo accomodanti sulla risoluzione di ogni tipo di problema. In quel momento l’uomo alza la voce, e si sente che parla evidentemente nella nostra bella lingua, anche se non con una cadenza che l’Accademia della Crusca approverebbe. Il ragazzo continua: “Certo, guarda con chi sta, con quella mezza araba del cazzo.” Solo a quel punto, un attimo prima che io dica qualcosa, l’uomo dietro di me lo zittisce come si direbbe ad un bambino di smetterla di fare dei versi. Io guardo il ragazzo, lui mi guarda, poi la signora torna alla cassa e pago. Non ci sono pensieri, nella mia testa.

L’epilogo di tutto questo si svolge un paio di ore dopo, in un autobus che sostituisce il tratto di treno dove è accaduto l’incidente di qualche giorno fa. Fuori è tutto buio, non si vede nulla, e mi sembra di stare fermo. Accanto a me, da una parte e dall’altra, due ragazze africane si preparano per una notte di lavoro. Una tira fuori un opuscolo dallo zaino. E’ il giornale dei Testimoni di Geova, in inglese. In quel momento l’orologio digitale in fondo al pullmann mi dimostra che il tempo scorre: scattano le ventidue e tre minuti dell’ottavo giorno dell’anno nuovo.

Di |2005-01-09T14:35:00+01:009 Gennaio 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , , |13 Commenti

Metti una sera a cena – Atto unico

E quindi capita che, dopo avere visto Ti ho sposato per allegria, il vostro vada a cena con i protagonisti della commedia. Conoscenze altolocate, sapete. Mica sono milionario per meriti miei, io. Comunque. Il locale scelto è il posto più in di Bologna, roba segnalata con una profusione di palline, cappellinidacuoco, forchette e stelline su ogni tipo di guida. Io, per fortuna, ho già cenato, prima dello spettacolo, tutti gli altri no. Io bevo e basta, guardo e ascolto. Oltre ai tre attori protagonisti e C., c’è un quinto commensale: è un architetto, amico della protagonista. Persona gioviale e simpatica. Sipario.

Entra il cameriere. Molto, molto depilato in zona sopraccigliare, molto calabrofrancese. Chiama l’attrice più anziana madame. Quando capisce che io e C. non mangiamo, non ci degna di uno sguardo. Quando la meravigliosa protagonista chiede, in un posto noto per le sue ostriche, una pasta al pomodoro, io vorrei alzarmi e applaudirla. Il cameriere abbozza, e tenta di propinarle, quanto meno, non delle penne, ma delle farfalle (les pennes sont très vulgaires). Non le chiama, però, papillons. Il cameriere prende le ordinazioni alzando ritmicamente quel poco di pelo che si è lasciato sopra gli occhi. Quando annota mentalmente le pietanze dice “sì”, ma dentro di sé, forse, pensa “oui”. E gli manca la ‘nduja che faceva sua nonna.
Arriva il vino, che viene fatto assaggiare all’attore protagonista. Solo che si accorge solo dopo un paio di minuti che il cameriere è accanto a lui e gli sta mostrando l’etichetta del vino che ha scelto. L’attore mi guarda, come per dire “Sì? Va bene?”. Io lo guardo come per dire “Ma a me lo chiedi?”. Lui si gira verso il cameriere, fa un cenno con la testa, il cameriere versa un goccino di vino, l’attore gira il bicchiere un po’, odora, beve e io penso “Ti prego, ti prego, sputalo, come si fa veramente!”. Niente. Lo ingoia. Altro cenno. Il cameriere pensa “bon” e ci versa il vino.
Arrivano i primi: l’attore ha chiesto una zuppa di lenticchie. Che gli viene servita (giuro) in un Bormioli Quattro Stagioni. “Perché?”, pensiamo io e l’attore. “Pas que”, risponderebbe il cameriere, se glielo chiedessimo. Non glielo chiediamo, e ci concentriamo invece su cosa sta dicendo l’architetto alla sua amica attrice. Niente di tale, solo frasi del tipo “Sono architetto, ma mi sono sempre interessato alla psicanalisi. Ho studiato quaranta correnti diverse, ma sono un cosano [scusate, non ho preso appunti] convinto. Coso stava a New York, era ebreo, ovviamente [eh certo, ti pare uno psicanalista che sta a New York, può non essere ebreo? No]. E parlava di rebirthing [in questo punto preciso C. mi stringe la mano, io le tasto il polso, per accertarmi he non stia per avere un collasso]. Si tratta di una tecnica per cui si cerca dentro se stessi tramite l’ossigeno, andando in iperossigenazione”, conclude l’architetto. “Iperossigenazione a New York?” dico io all’attore. “Roba da prendersi un cancro ai polmoni fulminante.” L’attore ride, un po’ per la battuta, un po’ perché sta mangiando una zuppa di lenticchie carissima in un vaso di vetro.
Poi si parla di genitori, di lavoro, di psicanalisi, di architettura, di materiali di recupero, di psicanalisi, di energie negative e positive.
L’attrice protaginista sta per chiedere qualcosa al calabrofrancese, che trema. “Vorrei della frutta”, dice. “Le posso fare un misto”, replica lui. “Veramente vorrei solo un mandarino”, dice lei. Lui pensa agli anni passati alla scuola alberghiera.
Tutto viene interrotto dall’arrivo del conto.
Arriva poi lo chef: la compagnia vorrebbe che facesse una teglia di lasagne che loro vorrebbero portare a casa del figlio dell’attore, dove passeranno la vigilia. Ma non sanno quanto possa costare. Lo chef è evidentemente imbarazzato, chiede una calcolatrice, chiede aiuto con lo sguardo al calabrofrancese (che pensa “e mho sono cazzhi thuoi, io ‘u thurn’ l’ho finith”), alla fine dice: “120 euro”. E aggiunge “Però è spesso, eh”, e fa’ un gesto con due dita. Lo spazio tra il suo pollice e il suo indice corrisponde esattamente allo spessore di una mazzetta di banconote. Sorride. Sorridono.
Sorridiamo anche io e C., perché il vino che abbiamo bevuto ci viene offerto dall’attrice anziana (che, detto per inciso, è una delle pochissime persone di spettacolo che conosco che ha mantenuto una certa umanità).
Sipario.

Resoconto emotivo di una settimana intensa

Mi è arrivata una mail da un amico dei miei, dal nulla. Non lo vedo da anni, ma mi è sempre rimasta un’immagine vivida di lui, del suo umorismo, della sua casa. Adesso ho anche un’immagine vivida di qualcos’altro.

Caro Francesco, ti ricordo con tanto affetto per le tue risate a crepapelle.
Era quel tempo, quando si giocava a tombola, a casa mia.

No, voi non siete obbligati a commuovervi, ma credo che queste siano tra le parole più belle che abbia ricevuto.

Mercoledì ci chiama in diretta un ascoltatore entusiasta di quello che facciamo, la sua felicità è incontenibile e, per un momento, i tempi, la diretta, i volumi, scompaiono. Ci godiamo la sua meravigliosa e spontanea gioia. Sì, gioia.

Vedo la Beatles Anthology, e sento Ringo che parla di quando lui, Paul e George si sono rivisti per registrare “Free as a bird“. Ringo dice che, per evitare di farsi prendere dall’emozione, pensava continuamente che John fosse in pausa, a prendere un caffè o fuori, a farsi un giro. E poi aggiunge: “Perché John non c’è, è in Paradiso”. E indica seriamente il cielo con un dito.

Oggi, passeggiando per la città intasata dall’ansia consumistica, sento riecheggiare le note di “I Feel Fine”. Un gruppetto, per strada, sta suonando delle canzoni dei Beatles. Presto intorno a loro si raduna un sacco di gente, e tantissimi bambini piccoli, avvolti in strati e strati di giubbottini e cappelli e guanti. Tutti, e dico tutti, sorridono beati.

Ma la chiusura di questo resoconto è lo scambio che ho avuto ieri sera con un ascoltatore di una ventina di anni più vecchio di me. Mi dice: “Ma siete così cinici in radio, poi uno vi vede dal vivo e…”. Si ferma. Io provo: “E abbiamo la faccia da bravi ragazzi?” Lui non pare convinto. Riprovo: “Sembriamo dei coglioni?”. Lui pare convinto.

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