I’m Happy Just To Dance With You

L’altro lato della lista

Da oggi sul sito di Maps escono le nostre liste musicali di fine anno, che ogni tanto ho anche riportato qua, sebbene io odi le liste: questa mattina è stata pubblicata la mia. Per arrivare ai dieci (più cinque) dischi dell’anno ho fatto una selezione di cinquantadue album. Un numero casuale che però mi ha fatto pensare a quanto sarebbe stato bello ascoltare per una settimana solo quei dischi, senza perdersi in altro. Pur avendo una mezza idea di “suggerire” qua un disco diverso del 2011 per tutto il 2012 (poco realizzabile) e un’altra mezza idea di stilare una classifica della musica che, per un motivo o l’altro, non ho potuto mettere in radio (come quel Felt di cui ho parlato qualche giorno fa) ho pensato che una cosa da fare subito, oggi, era compilare la colonna dei cattivi.

Ecco quindi il peggio del 2011 musicale: si tratta di opinioni del tutto personali che spesso hanno avuto a che fare con delusioni, più che con giudizi di valore veri e propri. Ma, visto che si tratta di dischi ascoltati e concerti effettivamente visti, gli elementi di queste liste mi hanno comunque, in un modo o nell’altro, fatto perdere tempo. E quindi, vendetta.

I peggiori dischi del 2011 (per come mi sono venuti in mente, senza un’ordine preciso)
1. Coldplay – Mylo Xyloto (Parlophone): perché davvero non si può sentire. Per dire che io Viva la vida lo salvavo anche. Qua e là. Ma questo, proprio, no. È una caramella al bitume andata a male.
2. dEUS – Keep You Close (Pias): perché non posso farcela a sopportare un altro disco più che dimenticabile della band belga. Mi fa soffrire troppo. Abbasta, pietà.
3. Hercules and Love Affair – Blue Songs (Moshi Moshi): perché se vuoi farci ballare, allora facci ballare. Non queste vie di mezzo poco convinte.
4. Ladytron – Gravity the Seducer (Nettwerk): perché non si è obbligati a fare uscire un disco, eh, se non si hanno pezzi buoni a sufficienza manco per un ep.
5. The Chemical Brothers – Hanna OST (Back Lot): perché è la prova che nomi grossi dell’elettronica (sebbene ultimamente non così brillanti) funzionano poco con le colonne sonore. A proposito: vogliamo un vero album dei Daft Punk.
6. Prefuse 73 – The Only She Chapters (Warp): perché, davvero, va bene tutto ma questo disco dove vuole andare?
7. Digitalism – I Love You, Dude (V2): ma come si fa a fare un disco insipido come questo dopo avere sfornato un capolavoro come Idealism? Meglio il disco di remix I Club You Dude.
8. Lykke Li – Wounded Rhymes (Atlantic/LL): perché è la prova di come io certe infiammanti passioni di certa infiammata stampa musicale non le capisca proprio. E non mi dispiaccia di non capirle.
9. Moby – Destroyed (Little Idiot): perché ho provato a difenderlo davanti a tutti, quando è uscito, ma poi mi sono ritrovato da solo con lui e gli ho detto “Sei irrecuperabile, vattene”.
10. Lou Reed e Metallica – Lulu (Warner/Vertigo): perché?

I peggiori concerti del 2011 (come sopra)
1. Gonjasufi (Link, Bologna, 20.05.11): perché Bob Marley e tanti altri suonavano e cantavano benissimo da strafatti, ma quando non c’è genio non c’è droguccia che tenga. Orripilante.
2. Iron and Wine (Locomotiv Club, Bologna, 12.02.11): perché va bene che vuoi arrangiare i tuoi pezzi, ma aspetta di avere sessant’anni e un contratto in un casinò di Las Vegas per deturpare anche i tuoi brani più belli.
3. EMA (Locomotiv Club, Bologna, 13.11.2011): perché se alcune cose del disco erano belle, ti devi portare dietro qualcuno che te le sappia suonare.
4. Adam Green (Vicolo Bolognetti, Bologna, 30.06.11): perché mezz’ora di concerto scazzato con la chitarrina beandoti del pubblico adorante, no, dai.
5. Godspeed You! Black Emperor (Estragon, Bologna, 26.01.11): perché avevo un ricordo talmente bello del concerto al Link del 2002 che non ce l’avrebbero fatta a sostituirlo, neanche con un concerto di pari livello, figuriamoci con uno così così.

Peggior Artwork del 2011
Potevo aiutarmi con le liste in rete, ma si tratta spesso di dischi che non ho mai sentito. Ma Tao of the Dead non è neanche male, copertina a parte.

Un’illustrazione che non troverebbe posto neanche nelle edizioni delle fiabe taroccate che si vendono nelle stazioni dei treni.

Il peggior video del 2011
In questo caso mi sono fatto aiutare dalle liste trovate in rete, ma guardate che roba:

Ah, ci credono veramente, gli Alternate Reality.

Musica da camera

La musica da sentire per Maps è talmente tanta che ci si dimentica di quella che si vorrebbe sentire. Per fortuna ho passato un fine settimana praticamente da recluso, dedicato (tra le altre cose) all’alienante “restauro” del blog (sono arrivato al gennaio 2005, urrà): ne ho approfittato per ascoltare dischi passati in secondo piano, poiché poco adatti alla programmazione della mia trasmissione. Sebbene ne abbia sentiti diversi, uno solo ha veramente destato la mia attenzione: è il nuovo album di un giovane pianista tedesco, Nils Frahm, intitolato Felt, uscito da poche settimane per la Erased Tapes.

Felt è un pianista classico di formazione, ma che ha presto dimostrato un interesse per ambiti più sperimentali e ha incontrato sul suo cammino, come spesso accade, l’elettronica. Ma il punto di partenza e nucleo di Felt è di tutt’altro tipo: l’album nasce dall’esigenza del berlinese di non svegliare i suoi vicini mentre suonava di notte. Come fare?

Con lo stesso meccanismo che mette in azione la sordina, il pedale centrale che hanno alcuni pianoforti verticali: premendolo, un panno di feltro si interpone tra i martelletti e le corde. Il suono viene attutito, creando degli effetti di risonanza molto particolari, quanto spesso difficili da cogliere, a meno che uno non ponga i microfoni molto dentro al piano, avendo poi l’accuratezza di essere particolarmente delicati nel suonarlo.

Ciò è esattamente ciò che fa Frahm, portandoci letteralmente all’interno del suo pianoforte, tra gli scricchiolii dei tasti, i crepitii del legno e i fruscii che avvolgono l’ascoltatore tanto quanto le melodie delle nove tracce del disco.

Queste non sono del tutto minimali, come si potrebbe pensare: usando altri strumenti, nastri e registrazioni d’ambiente, Felt suona come un album ricco nella sua semplicità, talvolta commovente senza essere ricattatorio. Certo, Frahm sussurra e respira piano, ma c’è una precisa dinamica costruita dall’ordine delle tracce, tanto che la sensazione di essere in quell’appartamento berlinese cresce con il passare del tempo, o con lo scorrere della notte.

Fino a che, all’ultimo brano, “More”, il musicista osa e aumenta la forza del suo tocco: non gli importa se i vicini si svegliano, è quasi l’alba. E se davvero hanno dormito, non sanno cosa si sono persi.

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Three Days (a Week)

Il fine settimana appena trascorso lo ricorderò finché campo, a prescindere che io ne scriva o meno: ma voglio comunque annotare qualcosa di queste ore passate (ma dai?) all’insegna della mia grande passione per quei quattro ragazzotti inglesi.

Venerdì 25 novembre – George Harrison: Living in the Material World

Il primo appuntamento con il “Beatles-weekend” è alla Cineteca di Bologna per la prima italiana del documentario su George Harrison (di cui oggi ricorre il decennale della scomparsa). I biglietti sono stati comprati da tempo, non si sa mai, anche perché la Sala Mastroianni dove proiettano il film di Scorsese (a cui è intitolata l’altra sala della Cineteca: una buffa coincidenza che avrebbe divertito non poco anche i Fab Four) non è così grande. Ci sono diverse persone pronte a entrare nella sala, compreso… Walter Veltroni. Ohibò. Entriamo per primi con lo scopo di sederci nella fila di poltrone che permette di stendere le gambe, visto che il film dura quasi tre ore e mezzo, ma su ognuna di quelle poltrone c’è il cartello “Riservato”. Riservato a chi? Ma a Veltroni, all’assessore alla cultura Ronchi e a Red Ronnie. E famiglie.

La gente seduta intorno a noi si gira verso la “fila VIP” con sguardo tra il deprecante e il curioso e borbotta battute e lazzi nei confronti dei privilegiati. Si respira una bella aria, tra le poltrone del cinema, c’è attesa. Si spengono le luci e ci immergiamo nel documentario, realmente bello e riuscito. Ci si commuove, si sorride consapevoli per cose già conosciute e ci si emoziona per immagini e aneddoti mai sentiti prima.

Come dico nel post che esce oggi su “Seconda Visione” (ne parleremo stasera in onda), l’esperienza che il documentario di Scorsese offre allo spettatore è incredibile anche perché parallela al percorso che Harrison stesso ha fatto nei suoi confronti. Un percorso spirituale di conoscenza, realizzato attraverso un film.

Un’impresa difficilissima portata a termine con sobrietà, ironia e profondità. Durante la visione, poi, ogni apparizione sullo schermo di McCartney è accompagnata dal pensiero che tra ventiquattro ore saremo nuovamente in mezzo a persone (cento volte tanto) che la pensano come noi e, finalmente, vedremo Paul. Dal vivo.

Sabato 26 novembre – Paul McCartney “On the Run” tour

All’ora di pranzo arrivano da Roma M. e A. Ovviamente sono in città per il concerto: andando a prenderli in stazione già si avverte nell’aria un’eccitazione generale. Sento qualcuno dei Menlove, che mi dice che Paul è al Baglioni, no, è a Giardini Margherita, macché, è in Piazza Maggiore, ma forse è già al Palasport di Casalecchio. Tutto si rivelerà incredibilmente vero, ma lo scopriremo solo quella notte, tornati a casa, leggendo le cronache dell’incredibile giornata.

Alle 17 siano già in fila all’entrata dell’Arena: siamo pressati, già un po’ stanchi, ma con la voglia mostruosa di entrare. Ed eccoci nel parterre. C’è qualcuno vestito come la band in Sgt. Pepper’s, centinaia di magliette dei Beatles, cartelloni, striscioni, sorrisi a trentadue denti. Alle otto e mezzo parte un lungo video di introduzione e la gente già canta le canzoni diffuse dall’impianto e applaude quando un Paul ragazzino, giovane, quarantenne, sessantenne appare sui maxischermi che proiettano l’introduzione al live. Questa è la prima data del tour europeo e ci sentiamo tutti uniti nel privilegio di assistere a un concerto storico già sulla carta, oltre che nell’amore folle, irrazionale e sincero che tutti e tredicimila nutriamo per i Beatles.

Alle nove si spengono le luci e inizia uno dei concerti che ricorderò per sempre. Una scaletta fantastica che inizia con “Magical Mystery Tour” e si conclude con “The End” (didascalico? E chi se ne importa) attraverso trentacinque canzoni per lo più prese dal repertorio del quartetto di Liverpool, ma che ha uno dei momenti più alti nella resa letteralmente pirotecnica di “Live and Let Die”.

Si salta, si canta, ci si commuove (soprattutto su una “Something” durante la quale compaiono solo foto come questa quassù): ogni tanto mi guardo intorno e vedo solo gente che sorride, si bacia, si abbraccia, urla e agita mani e braccia. Una festa totale, come non credo di avere mai visto prima. Paul è in buona forma: la voce si scalda canzone dopo canzone, fino a osare tantissimo per potenza e altezza, considerata l’età del nostro.

Penso che quest’uomo è sul palco ininterrottamente da cinquantaquattro anni, ma mostra un entusiamo puro e contagioso dall’inizio alla fine. Scherza, ride, dice delle frasi in italiano senza nascondere di leggerle. Ci ha in mano. Del resto è Paul McCartney. Lo stordimento per lo spettacolo a cui abbiamo assistito ci entra dentro e non mi ha ancora abbandonato.

Domenica 27 novembre – Band on the Run

Durante il pranzo che precede la partenza di M. e A. quasi non si parla della serata precedente. Che c’è da dire, del resto? Siamo ancora increduli di fronte al concerto che abbiamo visto: non tanto perché non pensavamo che ci saremmo divertiti, ma perché è stata un’esperienza fortissima, difficile da descrivere a parole, come del resto avrete capito leggendo l’esile resoconto di sabato. Sarà la stanchezza o la strana aria che le domeniche portano con loro, ma mi pare di fluttuare lungo la giornata, con leggerezza.

Quando cala la sera decidiamo di vedere il documentario allegato all’edizione speciale di uno dei dischi più belli della carriera solista di McCartney, quel Band on the Run uscito quasi quarant’anni fa. E ogni volta che Paul compare, questa volta sullo storto tubo catodico di casa mia, penso che c’era proprio lui, quel ragazzo che abbraccia la moglie Linda e si muove con disinvoltura tra basso, chitarra, pianoforte e batteria, sul palco la sera prima.

Mano a mano che il documentario si avvicina alla fine, portando con sé il ritorno alla normalità del lunedì mattina, due sentimenti si accavallano: la nostalgia per quello che è stato (tutto: dalla Beatlemania degli anni ’60, mai vissuta, alla faticosa uscita dal parcheggio del Palasport, più che vissuta) insieme alla gioia per avere dentro di sé immagini, suoni e memorie bellissime e indimenticabili. Da questo contrasto emerge solo una cosa: l’amore per la musica che questi quattro incredibili esseri umani hanno creato, insieme e da soli.

Un amore condiviso che abbiamo potuto percepire nell’aria, tutti insieme, in un fine settimana particolare, ma che pulsa ogniqualvolta arrivi all’orecchio di qualcuno una manciata di note di “Day Tripper”, del pezzo che dà il titolo a questo blog, o di qualsiasi altra canzone di Harrison, Lennon, McCartney e Starr. “I Beatles”, si dice, e immediatamente si sorride, perché ci si sente a casa.

Ritorno al Locomotiv

Dopo avere messo i dischi, negli ultimi mesi, al Covo e a Vicolo Bolognetti, si ritorna al Locomotiv: a prescindere dall’impegno, ci sarei tornato lo stesso, visto che domani sera per la prima volta arrivano in città (e saranno ospiti a Maps) i Pinback, una di quelle band che fanno bei dischi, piacciono, ma mica hanno sfondato. Forse sarà l’occasione per ascoltare qualche brano dall’imminente prossimo disco. In ogni caso, dopo il concerto, torno nella splendida “casetta del dj” del club di via Serlio per aprire le danze.

Orsù, siateci: ne vale la pena (per la band, sia mai).

Ritorno alle radici


Se qualcuno mi avesse detto “Tori Amos è tornata alle sue radici”, musicalmente parlando, mi sarebbe preso un colpo: già è un po’ che la mia beniamina non tira fuori un album convincente, ma addirittura arrivare ai “fasti” cotonatissimi di Y Kan’t Tori Read mi sarebbe parso esagerato, persino come suicidio pubblico. Sebbene l’ultimo Night of Hunters sia quanto di più lontano possibile dall’esordio della musicista, è un disco che va a pescare ancora prima: le notizie che sarebbe uscito per Deutsche Grammophon erano un chiaro indizio, ma che l’album avesse un’impronta così classica è stata una sorpresa.

Curioso, poi, il fatto che il titolo del primo disco si riferisse alle lamentele degli insegnanti dell’istituto di musica prestigioso che Tori frequentò da bambina-prodigio sul fatto che non volesse leggere la musica (classica, ovviamente). E invece la pianista la riprende in mano, aiutata da un illuminato produttore dell’etichetta tedesca (ce lo raccontano nel dvd allegato al disco), e prende secoli di musica per creare un ciclo di canzoni… be’, un po’ troppo alla Tori Amos, tematicamente parlando, ma interessanti. Il tutto con voce, piano, fiati e quartetto d’archi.

Quest’ultimo è anche in tour con la musicista: qua sopra potete leggere la recensione che ho scritto sul concerto milanese di più di un mese fa per il numero di Jam in edicola questo mese. Tre su cinque, che è anche il voto che darei al disco. Non sappiamo se Tori ora sappia leggere la musica classica o meno, ma la suona bene. Che sia la strada buona?

I know a song to sing on this dark night

Esce oggi Crazy Clown Time, di David Lynch: sebbene non si tratti della prima incursione del regista in ambito musicale (basti ricordare che Lynch ha messo le mani nello splendido Dark Night of the Soul, oltre che in svariati album, per non parlare delle colonne sonore dei suoi film e corti), questo è il primo disco firmato tutto da David Lynch, che lo suona insieme a Dean Hurley, ma soprattutto lo canta.

L’uscita del primo singolo, “Good Day Today” (che ha un video, non troppo bello, realizzato dal vincitore di un concorso indetto dallo stesso Lynch), sono stato sviato completamente: ero convinto che il disco si sarebbe rivelato completamente costruito su quei ritmi electro morbidi e che la voce di Lynch fosse un cameo, un’eccezione.

E invece, sebbene l’apertura del disco sia affidata alla riuscita “Pinky’s Dream”, con l’ormai onnipresente Karen O, le seguenti 13 tracce vedono un uso multiforme della voce dell’autore. Una volta è con l’eco, un’altra col vocoder, un’altra ancora resa metallica e quadrata. Ecco il vero debutto del disco: la voce di Lynch. Una voce che pensavo di non riconoscere, ma che ho individuato subito (con stupore) all’uscita della prima anticipazione dell’album.

Allora però non mi sbagliavo solo sulle parti vocali, ma anche sui timbri: Crazy Clown Time è basato spesso, sì, su tappeti e ritmiche elettroniche, ma ci sono diversi brani suonati: solo una batteria e una chitarra, spesso piena di riverbero, che incede lenta su accordi ondeggianti (“Football Game”, “The Night Bell With Lightning”, l’unico strumentale del disco), come se si trattasse di una versione agonizzante di un lento da ballare nella penombra dell’One Eyed Jacks o, chissà, nel nuovissimo Club Silencio, aperto da poco a Parigi.

Non è un caso citare il bordello di Twin Peaks, perché è impossibile separare la musica di Lynch dal suo mondo visivo, oltre che – ovviamente – sonoro. Tutto Crazy Clown Time è inquietante: il titolo del post è preso dal testo di “Noah’s Ark”, ma provate a sentire il brano (tutto il disco è ascoltabile sul sito della NPR), che arranca su una voce spezzata e poi risolve dicendo che la canzone di cui si parla “è la canzone dell’amore”.

O anche la titletrack, che narra il punto di vista di un bambino “su una festa in cortile”, dice la pur bella recensione della Radio Pubblica statunitense. Ehm, no: Suzy e Molly si strappano le camicie, Buddy rovescia addosso alle donne della birra e poi sputa e urla forte. Non si tratta esattamente di un barbecue tra vicini.

La voce di Lynch, quindi, è al centro di tutto, anche dell’ossessiva litania al vocoder di “Strange Unproductive Thinking”, del blues distortissimo di “I Know” (altro video, migliore, “realizzato” con la stessa modalità del primo), delle atmosfere “badalementiane” di “Speed Roadster”, di ogni storia narrata con assoluta serietà e normalità.

È proprio questa attitudine che attira da sempre l’ascoltatore e lo spettatore nel mondo di Lynch: dove sembra tutto normale, perché tutto viene presentato in maniera apparentemente canonica. Le canzoni hanno una struttura riconoscibile, i film sono girati con rispetto assoluto (scena per scena, si intende) per le regole basilari della grammatica: eppure, nascosto tra le ombre c’è un orecchio in un prato, un misterioso ciondolo a forma di gong, una stanza rossa, un sussurro inquietante, talvolta un cantato stridulo che parla d’amore.

Questi tipici indizi lynchiani sono arricchiti dal fatto che, in questo “artefatto”, Lynch non si limita a mettere in scena, ma interpreta: diventa l’amante depresso, il bambino, il folle, mettendosi in prima fila. Ecco perché la voce di Lynch è il vero debutto di questo disco.

Crazy Clown Time non è un capolavoro, perché è troppo lungo, tanto per citare il primo difetto che balza alle orecchie, e non tutti i brani sono riusciti: è un album faticoso, che però ripaga l’ascoltatore quanto più egli vi si lascia andare.

Così come non si può guardare una puntata di “Rabbits” stirando, né perdere l’attenzione durante la visione di un qualsiasi lungometraggio di Lynch, è fuorviante cercare di capire questo disco senza dedicargli completamente l’ora abbondante della sua durata, magari cercando di capire o intuirne i testi mentre lo si ascolta. Dopo ciò, a prescindere dal vostro giudizio, di una cosa sarete certi: questo album non è un bluff, o il curioso hobby di un geniale e bizzarro visionario.

Questo album è David Lynch, come lo è The Alphabet, INLAND EMPIRE e le previsioni del tempo che ha curato. Prendere o lasciare.

Uno ogni tre giorni

Novembre è spesso un mese di grandi concerti: sarà che il ritmo impacciato dell’inizio della stagione è lontano esattamente quanto la pausa natalizia, ma da venerdì alla fine del mese saranno ben nove i concertini che il tenutario del blog andrà a vedere.

Dagli amici A Classic Education alla curiosità per EMA, dal minimalismo scarnificato di Josh T. Pearson alle sonorità danzerecce dei Junior Boys, dalle grandi aspettative per gli Horrors alla quasi certezza dei Fleet Foxes, dallo struggente desiderio di rivedere John Grant all'”oh, finalmente” dei Pinback. Ah, già: c’è anche Paul McCartney.

Metropolitane superficiali

Sul Corriere della Sera on line, c’è una notizia intitolata “La rivincita delle ragazze”: si parla di un sito americano (SubwayCrush), dove gli utenti postano foto di ragazzi belli e aitanti (almeno, la maggior parte di loro) “rubate” in metropolitana. Quale sarebbe la rivincita?

Che le ragazze, per una volta, fanno “le voyeuse”, giudicando gli scatti che loro stesse pubblicano. L’unica regola? “Niente foto di ragazze”. E ti credo: i nickname della maggior parte degli utenti (ben visibili in ogni post) sono maschili. Di questo, però, l’articolista del Corriere non si è accorta, continuando a declinare tutto l’articolo “al femminile”: e allora le dedico l’immortale brano degli Elio e le storie tese.

Such a perfect death

Quando, qualche mese fa, è uscita la notizia che Lou Reed e i Metallica stavano incidendo un album insieme, sono stato tra i pochi a non reagire così.

Mi sono detto “Aspettiamo, stiamo a vedere, metti che.” Perché? Perché ho fiducia nelle persone. Perché spero che i Metallica tornino a fare un album buono dopo vent’anni. Sì, la linea tra l’essere fiducioso e fesso è sottile, lo so.

Nel frattempo qualcuno si è fatto delle domande (come “Ma santiddio, perché, perché?”), ha avanzato ipotesi (“Sono impazziti tutti”), si è chiesto che accidenti avrebbero fatto insieme quei cinque. Pensa, parla, ipotizza e il tempo passa.

Passa fino a che escono i primi trenta secondi di “The View”, la seconda traccia di Lulu, un disco che trae la sua origine da alcune composizioni che Lou Reed ha scritto per le rappresentazioni di due testi teatrali di Wedekind.


Ecco, ora sono triste e preoccupato anche io.

Di |2024-05-13T20:47:51+02:0023 Settembre 2011|Categorie: I Am The Walrus, I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , , , |1 Commento
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