I’ve Just Seen A Face

Première

Ho sempre cercato di andare alle anteprime stampa dei film che mi interessano, ma (per questioni di lavoro) era da molto che non riuscivo ad assistere ad una di esse. Ieri, finalmente, ce l’ho fatta. E ho osservato  la varia umanità presente. Ho già parlato di gente da festival, ma l’anteprima cinematografica è un’altra cosa, soprattutto in una città come Bologna, dove proiezioni di questo tipo non sono frequenti come a Milano o Roma. Non c’è una vera routine, per questo motivo. Cionostante, ci sono delle tipologie ben definite di personaggi, spesso orribilmente incrociate tra loro.

Il giornalista generico di cultura contrasta, in effetti, quello che ho detto. Già, perché il GGC, chiamiamolo così, è inserito nella routine quotidiana degli appuntamenti culturali da-non-perdere. Entra in sala mollemente un quarto d’ora dopo l’effettivo orario previsto per la proiezione, ma tutti stanno aspettando lui. Ha quel posto di lavoro da trentacinque anni: può fare ciò che vuole. Scorre sinuoso tra le file delle poltrone salutando tutti, ma facendo cenni di assenso più intimi e misteriosi agli altri GGC che, bah, sono arrivati meno in ritardo di lui. Il GGC non si è ancora seduto e gli altri iniziano a spazientirsi: lui, allora, fa un cenno all’addetta stampa, le ricorda che hanno una partita a burraco in sospeso, e finalmente inizia la proiezione.
Il giovane stagista fiuta l’aria come un cerbiatto in pericolo: e lo è. È una farfalla nella stagione degli amori, oppure una talpa depressa, a seconda di quanto sia distante la fine del contratto (fotodegradabile) che ha firmato rinunciando a ogni diritto umano e civile. È alla proiezione per due motivi: per sbaglio o perché il caporedattore cultura ha avuto un ictus fulminante. Ma è la sua grande occasione: ha letto tutto sul regista, conosce a menadito la filmografia di ogni singolo membro del cast e non dorme da due giorni per l’agitazione. Ha la penna, il bloc-notes e ogni altro mezzo di registrazione immaginabile. È pronto per l’Intervista, ma deve prima guadagnarsi la fiducia (o anche solo una minima attenzione) dell’addetta stampa.
L’addetta stampa è come nei film polizieschi: nel senso che di solito c’è l’addetta stampa buona e quella cattiva. L’addetta stampa buona lo è a tal punto che dà una cartella stampa anche al giovane stagista, pensate un po’. Promette interviste di un’ora e mezzo. Poi passa a rassicurare altri giornalisti. E lascia il campo alla sua gemella cattiva. L’addetta stampa cattiva ha rispetto solo per gli ospiti (attori, regista, o chi per loro) e per il giornalista generico di cultura con il quale, forse, ha anche avuto una storia, o ci sono questioni di soldi di mezzo, o entrambe le cose. Ha un particolare gusto sadico, sfogato ovviamente soprattutto sul giovane stagista. Talvolta, addirittura, lo iscrive alla lista, in fondo, però. Così trova l’intervistato stanco e spossato per la sequela di domande identiche e fuori tema alle quali ha dovuto rispondere: al primo segno evidente di stanchezza o rottura di balle che l’intervistato esprime, l’addetta stampa cattiva irrompe sulla scena e interrompe tutto, anche dopo la prima mezza risposta. Caccia via il giovane stagista, poi si volta verso l’intervistato e sorride, sorride al punto tale che i suoi lineamenti si modificano, accostandosi molto a quelli dell’addetta stampa buona.
Il giornalista-zerbino è la causa dell’unico rumore che si sente durante la proiezione. Come una pentola di zuppa sul fuoco, il giornalista-zerbino gorgoglia apprezzamenti, borbotta consensi e poi esplode in fragorose risate anche laddove d’ironia ve n’era solo una punta, così, tanto per alleggerire una scena violentissima e cruenta. Ma lui coglie il Film come fa la terra secca con l’acqua ed esprime questa comunione non appena può. Ovviamente è suo il primo intervento, quando l’addetta stampa dà il via alle domande. Ma lui non chiede, afferma, scandendo di solito complimenti talmente esagerati e fuori luogo da fare vergognare chiunque: il tutto dà luogo a ipotesi dietrologiche che sbocciano nella sala come gemme, nel tentativo di rispondere alla domanda: “Ma perché si spreca in sperticate lodi? Qual è il vantaggio?”. Nessuno lo sa. Forse il giornalista-zerbino ha sempre voluto intraprendere una carriera nell’ambito della settima arte: si spiega spesso, così, la sua scarsa riuscita nel campo della scrittura.
Quello capitato lì per caso ha due possibilità, a seconda dell’addetta stampa che incontra per prima. Se è quella buona, la sua ingenua domanda “Ma c’è un film gratis?” verrà accolta da un sorriso e da un invito a entrare. Se è quella cattiva, la risposta sarà glaciale al punto tale da lussare una vertebra del capitato lì per caso e, nello stesso tempo, fargli morire le piante del salotto. Talvolta quello capitato lì per caso, però, viene fatto entrare: in fondo è sempre una presenza utile, quando c’è il sentore che l’anteprima stampa possa venire disertata da molti.
Poi ci sono attori, registi, produttori, eccetera. Ma sono persone molto, molto meno divertenti, di solito.

Neighbours 12

Qualche tempo fa la vicina dell’appartamento di sopra, N., se n’è andata cercar la fortuna in giro per il mondo. “Affitterò l’appartamento a qualcuno”, mi aveva detto. “Fammi sapere”, avevo replicato io, dimenticandomi poi della cosa. Qualche mese fa ho iniziato a sentire dei rumori provenire dal piano di sopra. Passi pesanti, che facevano scricchiolare lievemente anche alcune cose intorno a me.
“Sono i solai di legno: materiale elastico, e quindi con capacità ottime di trasmissione delle vibrazioni, senza incorrere in deformazioni”, pensavo aggrappandomi a brandelli di nozioni di educazione tecnica delle medie e fisica delle superiori. “Qualcuno c’è” concludevo, “ma non è detto che sia un ciccione: gli stessi tonfi li sentivo quando N. si muoveva nel suo appartamento, e N. non è di certo una cicciona.”
Poi ho scambiato due parole con N. su Skype.
“Sì, c’è un nuovo inquilino, ho affittato l’appartamento”, mi ha detto. “Non si è presentato?”
“Veramente no”, le ho scritto io, pensando che continuo a conoscere pochissime delle persone che vivono nel palazzo dove abito.
“Gli dirò di farsi vivo”, mi ha assicurato lei. Nessuno si è ancora presentato, almeno fisicamente alla mia porta. Perché ormai le abitudini del misterioso vicino del piano di sopra sono ormai assodate, soprattutto nelle ore notturne. Ama guardare la televisione, forse a letto, un tempo a volumi più alti di ora, sempre tra mezzanotte e l’una. Poi, presumo, spegne televisore e abat-jour e si mette a dormire. Per qualche minuto c’è silenzio. Poi, nella quiete della notte che ci può essere in una viuzza del centro storico di Bologna, si sente yyaaaaawwwwnnn. Uno sbadiglio quasi ferino, ma che ha in sè anche il godimento dell’aver raggiunto il riposo dopo una giornata faticosa. Lo sbadiglio che vorrei fare io, ma che non mi viene. “Perché?”, mi chiedo. Ma nel frattempo sento che il mio vicino si addormenta e anche io decido che posso assopirmi.

Di |2011-02-28T08:00:00+01:0028 Febbraio 2011|Categorie: I've Just Seen A Face|Tag: , , , |0 Commenti

Servizio pubblico

L’autobus che mi ha riportato a casa venerdì pomeriggio mi ha visto stanco, troppo stanco per reagire a quello che ho visto e sentito.
Alla fermata successiva alla mia salgono due ragazzi e una ragazza. Io sono seduto vicino all’obliteratrice.
“Lo facciamo il biglietto?”, dice una ragazza. Ha più o meno venticinque anni, l’aria un po’ strafottente, un piercing sotto il labbro inferiore.
“Io non lo faccio mai”, risponde uno dei due ragazzi, poco più grande di lei, dall’apparenza assolutamente normale.
Bastano queste battute per farmi girare le scatole. I tre si spostano, senza fare il biglietto, facendosi strada a fatica su un autobus abbastanza pieno: ma non si spostano abbastanza perché io non li senta, sebbene a tratti.
I tre iniziano a conversare sull’aumento dei biglietti, in vigore da domani. E si lamentano.
“Che poi” aggiunge la ragazza, “io ti devo pagare per questo servizio? Cioè, in Olanda mica ci sono gli autobus pieni di gente”. Vorrei investirla con un fuoco di fila di parole, banali e non troppo ragionate,  sparate di seguito. Dirle “Che cazzo c’entra”, “Gli olandesi vanno in bicicletta” e fare anche degli appunti su come l’olandese medio possiede una forma di senso civico sufficientemente sviluppata. Ma sono stanco e non reagisco.
I tre continuano a dire banalità, a vantarsi di non avere pagato il biglietto in diverse città d’Italia: una specie di grand tour della violazione di regole, condito con salti del cancello della metro di Roma, evasioni da corriere lombarde e altro.
“Se le cose funzionassero”, continua la ragazza, “ecco, allora sarebbe un servizio pubblico.”
Ed eccola, la frase che mi fa capire che il problema di tutto è il modo in cui gli italiani vedono la cosa pubblica, in genere.
Prima che scendano, riesco a sentire uno di loro che chiede: “Ma è vero che un tempo a Bologna non si pagavano gli autobus?”

Troie

Mercoledì ero sull’autobus che mi riportava a casa, quando è salito dalle porte centrali un uomo piuttosto basso e molto grasso. Aveva due stampelle e un oggetto che era una via di mezzo tra un trolley e un carrellino per la spesa. Con estrema fatica si è arrampicato sul pianale dell’autobus ed è avanzato, spingendo se stesso con le stampelle e il carrellino.
Mi sono offerto di aiutarlo e almeno ho trascinato io il carrellino per un metro fino alle prossimità del sedile che l’uomo stava per conquistare. Ovviamente, non appena si è seduto, mi ha iniziato a raccontare la sua storia, dopo avermi ringraziato ed essersi lamentato che non lo aiuta nessuno.
“Mi hanno preso sulle strisce e mi hanno ridotto così. Le placche, con le placche sono tornato a casa. Il dottore mi ha detto Si riprenderà, ma…” e ha concluso la frase con un eloquente gesto dell’ombrello. “E i dolori, di notte… Da piangere”, ha aggiunto sbuffando rabbioso e lisciandosi i pantaloni sformati.
Io annuivo.
“E poi le troie con gli stronzi nel carrello…”
Io ho fatto una faccia a punto di domanda.
“Quelle che salgono con lo stronzo nel carrello e non ti fanno passare”
Inizio a capire: mamma con passeggino. Possibile?
“Una volta ero con questa troia con lo stronzo nel carrello e vedeva che dovevo scendere, ma…”
“Non c’è bisogno di chiamarle troie”, ho detto.
Le teste degli altri passeggeri si sono voltate, come se fosse venuto un suono da una fonte inattesa, come se una pietra avesse deciso di mettersi a fischiettare di punto in bianco. Anche l’uomo ha espresso dello smarrimento.
“Le troie”, ha ribadito con minor convinzione. “Le… Io, insomma…”. Poi si è ripreso. “Le troie!”
“Sì, ma non c’è bisogno di chiamarle troie. Nessuno dev’essere chiamato in quel modo”, ho ripetuto.
In quel momento un’altra voce si introduce nella conversazione. Io non faccio in tempo a girarmi che sento qualcuno dire: “Ma sì, lo dice per… nervosismo”.
È una donna che parla.
“Sì, ma…”
“Per nervosismo, così”, ribatte lei un po’ debolmente.
Il pensiero e le parole giuste sono arrivate troppo tardi, e quindi non ho detto: “E speriamo che lei non lo incontri mai in un momento di nervosismo, anche se mi sembra pronta a giustificare un uomo che le dà della troia.” Inteso con o senza stronzo nel carrello.

Il DJ vs il Paese Reale

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La parola d’ordine era una sola, settimane prima della serata: pants down, letteralmente “giù le mutande”. Nel gergo dei dj si traduce anche con “braga calata”. Vuol dire, in sostanza, mettere pezzi “facili”, che conoscono tutti. Un esempio: “I Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode è “pants down” molto di più, che ne so, di “Odessa” di Caribou. Io sono un dj dilettante per tutte le stagioni, quindi non ero spaventato dal diktat: posso accontentare tutti. Questo è quello che pensavo fino a martedì.

Quando arrivo al posto deputato per il djset, la scena è surreale: la scaletta degli incontri di pugilato (sì, pugilato) previsti per quella sera ha subito un ritardo mostruoso, quindi mi trovo circondato da gong, arbitri, uomini e donne più o meno nerboruti e supporter belluini. L’organizzatore della serata mi dice che c’è un sacco di gente che è là ma non vede l’ora di ballare. Fino a quel momento gli unici a fare gioco di gambe sono gli atleti sul ring. Ultimo incontro e l’annunciatore della manifestazione sportiva dice “Rimanete con noi, perché c’è la discoteca“. Io mi rendo conto di essere la discoteca. Parto. Parto con “Bouchet Funk” dei Calibro 35, ma non è sufficiente. Allora metto “The Twist”, di Chubby Checker e…

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Terzo pezzo, ore 2330 circa: “Cousins” dei Vampire Weekend (2010). Una ragazza si presenta da me e mi fa “Ma il dj quando arriva?”. Io sono con delle cuffie al collo dietro a un mixer e con una marea di cd davanti a me. È vero, non ho un cappellino con su scritto “DIGGEI”, ma mi pare evidente il ruolo che ricopro. “Sarei io, le dico”. “Ah”, fa lei delusa. “No, perché insomma… Stai mettendo musica vecchia.” “Veramente questo pezzo è uscito l’altro ieri”, dico io. “Ah”, fa lei, ancora più delusa. “No, è che sai, qualcosa di più ballabile…”.
Il concetto di “ballabile”, amici e amiche, è qualcosa intorno alla quale bisognerebbe fare degli studi di antropologia. Gli esseri umani hanno danzato ai ritmi di tamburi di pelle di scimmia, valzer di Strauss, polke, mazurke, fino a ritmi trance e goa. Che cazzo vuol dire “ballabile”? E’ un tipico concetto che prende forma nella prassi: una cosa è ballabile se la gente ci balla.
Ma non ci penso, e la rassicuro, sfoderando il mio miglior sorriso: “Tranquilla, ora metto qualcosa di ballabile”, le dico, come se fino a quel momento avessi avuto una predilezione per Berio e John Cage (sulle cui musiche, peraltro, qualcuno ballava). “Ah”, fa lei, forse un po’ meno delusa, e se ne va.
Arriva l’organizzatore della serata. “Senti, va bene, ma ora metti un riempipista, tipo Aretha Franklin. Ricorda: pants down“. Lesto inserisco nel cdj “Respect”, e la gente inizia a ballare. Prendo nota mentalmente del fatto che posso mettere della musica black, soul e simile, quando…
Quinto pezzo, ore 2340 circa. Arriva un’altra ragazza e mi fa: “Senti, io ho qui delle ragazze di una comunità che a mezzanotte devono andare via e vorrebbero ballare la musica moderna”.
Nuova digressione: ai djset c’è sempre qualcuno in qualche situazione particolare tale per cui si richiede un certo brano. Mi sono capitate davanti donne che dicevano di aver scoperto di essere incinte quella sera stessa e volevano i Soulwax, chissà perché, laureate e laureati da una manciata di ore che non potevano non sentire i Cure, gente che si era lasciata, messa insieme e rilasciata e che quindi…
Sfodero un altro sorriso e dico “Ma certo”, decidendo implicitamente di continuare per la mia strada. Sento che si avvicina un lieve mal di testa.
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Decimo pezzo, ore 2355 circa. Arriva un’altra ragazza. “Ti posso fare una richiesta?” “Certo” “Ce l’hai ‘Waka-Waka’?”.
Panico.
Mi rendo conto che no, non ho niente di Shakira, nulla. Né un mp3 nel cellulare, né un disco, né una parodia, un video, nulla.
“No, mi dispiace”, rispondo. E lei mi guarda come se fosse entrata in una salumeria e il commesso, perplesso, le avesse detto “Prosciutto? Uhm, ma cosa intende esattamente?”. Io capisco che la mia idea di pants down equivale, agli occhi e soprattutto alle orecchie di chi ho davanti, a una selezione quasi avanguardistica.
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Sedicesimo pezzo, ore 0015 circa. L’organizzatore della serata non è contento. “Senti,” mi dice, “c’è una festa di laurea con settanta persone e altre trenta di là. Hai un pubblico potenziale di cento persone da far ballare.” E allora io calo la braga davvero e ringrazio i Culture Club per “Karma Chamaleon”, e soprattutto l’amico M. che, per due capodanni di seguito, mi ha fatto scaricare il peggio della musica del ventennio ’70-’80 con la quale ho riempito tre cd, prima di uscire di casa, dicendo “Sai mai”. Quei cd mi hanno salvato le chiappe, denudate, ovviamente. La selezione inizia a essere terribile, degna della colonna sonora di una puntata de “I ragazzi della terza C”. Metto di seguito Cyndi Lauper, Madonna, gli Wham! e poi è un tripudio: capisco di avere toccato il fondo quando attacco i Santa Esmeralda e Claudio Cecchetto. Nel frattempo almeno sei ragazze mi chiedono “Waka-Waka”, tant’è che penso di mettere un cartello con su scritto “Ci dispiace,”Waka-Waka” l’abbiamo finito. Ma l’Emmenthal è in offerta”.
Tra un “Waka Waka” e l’altro, una ragazza (tutte ragazze, quella sera) mi chiede “qualcosa di Nina Hagen”. La richiesta mi allibisce e mi rendo conto di avere davanti un pubblico che non potrà mai essere contento al 100%. Ripiego sui Cure, che insomma, almeno sono un po’ più cupi di Shakira e degli Human League (“Che musica triste”, mi dice una, senza aggiungere altro. Mi verrebbe da dirle che Chicco Lazzaretti e Bruno Sacchi non la pensavano così, ma lascio perdere).
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Intorno a mezzanotte e quarantacinque si presenta una ragazza, che si dichiara subito un’amante della musica elettronica. Io sto iniziando proprio a passare un po’ di electro dozzinale quando lei comincia a parlare del fatto che non capisce quelli che si drogano e ascoltano la musica, che però la musica elettronica è bella ma insomma, la chitarra e la batteria sono altra cosa, e inizia a chiedermi se conosco quel pezzo che fa “papapa” o quell’altro che ha un ritornello simile a “trallala”. Imbarazzato, balbetto “Eh, non so, così è un po’ vago…”, ma poi mi risollevo e dico “Ti metto i Bloody Beetroots, eh?” La ragazza si allarga in un sorriso, mentre preparo il disco. “Dai, dai, che bello, grazie!” Io minimizzo, mentre vedo scorrere il minutaggio del pezzo che sta andando. Mancano 30 secondi alla fine e lei è ancora là che mi scrive nomi di band su un foglio (e magari qualche tralalà). “Li metti, allora?” “Sì, tra venti secondi” “Dai, li metti!” “Sì, mancano dieci secondi” “Evviva, i Bloody Beetrots!”, trilla lei. Io catturo il suo sguardo e lo indirizzo verso il contatore dell’altro cdj: lei si rende conto che i secondi che enumero sono realmente sessantesimi di minuto e ai primi ticchettii di “Warp” è in pista e balla felice.
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È l’una: mi hanno chiesto i Duran Duran e li ho messi, ed è giunto un tipo con aria truce che mi ha detto: “Ma che è? I Duran Duran? Ma questa è roba di vent’anni fa” “Anche trenta”, ho detto io. “Metti i Queen, piuttosto!” Alla richiesta rimango basito. Il tipo si allarga in un sorriso: “Scherzavo”, dice, lasciandomi un’alitata di RedBull, e se ne va.
Poco dopo arriva una neolaureata in economia: mi dà una foglia di alloro direttamente dalla corona che porta in testa, e mi chiede “Waka Waka” e poi Lady Gaga (“Mi dispiace, non ce l’ho”, ho detto, restituendole la foglia). “Allora qualcosa di ballabile, movimentato…”, insiste la neodottoressa. “Ho messo i Chemical Brothers”, dico io. “Non so chi siano”, replica lei. “Non sai chi sono i Chemical Brothers?” “No”, dice lei un po’ stizzita. “Sai, nella mia vita ho fatto altre scelte: ho studiato economia.”
Il nesso mi sfugge, ma forse è colpa del mal di testa che è diventato insopportabile: chiedo all’organizzatore della serata un Moment. Poco dopo lui torna con una pasticca e io la ingollo senza chiedermi nulla: era un Moment, comunque. Si sa che la droga la mettono nella Coca-Cola.
L’una e venti: ancora risuonano i bassi e la cassa in quattro dei pezzi che metto, quando arriva un tipo: “Hai della house?” “Stiamo chiudendo, mi dispiace”, replico io. “Un pezzettino?” “Eh, mi dispiace, non ce l’ho”. “Un pezzo breve…” Mentre continuo a dire che non ho niente di house, né a casa, né con me, né a casa dei miei, penso al salumiere. “Mi è rimasto questo culetto di prosciutto crudo, glielo regalo”. Ma io non ce l’ho il prosciutto crudo, signò. “Comunque, cioè”, dico indicando le casse, “ho messo della techno…” “Ah, ma la techno fa schifo” “Invece la house”, mi lascio sfuggire. “Eh, be’, no, la house…” Prima di infilarmi in una discussione senza uscita, il tipo se ne va, per fortuna.
In coda riesco a piazzare i Beatles e David Bowie: alle schitarrate di “Ziggy Stardust”, una ragazza si alza e mi dice “Era ora”. Io guardo l’orologio: il mio scontro col paese reale è finito e, mentre metto a posto i dischi, spero che sia rimasto almeno un arbitro dai match di pugilato che sancisca un verdetto di parità. Almeno non sono andato al tappeto.

Santi e tabacchi

L’altro giorno entro in un tabacchino: aspettavo un amico che non arrivava e ho deciso di comprarmi delle gomme da masticare e ripararmi dalla pioggia. Appena varco la soglia del negozio, un cliente mi dice: “Torna subito”. Immagino si riferisca al proprietario dell’esercizio, che poco dopo fa la sua comparsa. L’uomo si presenta urlando, ma con aria divertita, ed esclama senza indugi: “A quei tre stronzi, la prossima volta, gliela faccio vedere io. Mi tiro giù le braghe, mi metto carponi, e gli faccio parcheggiare la bicicletta tra le mie chiappe.” I pochi clienti nel locale non reagiscono, ma il silenzio viene di nuovo riempito dal vocione dell’uomo, che ripete la questione. “Quanti sono? Ah, ma vedono: giù le braghe e che mi mettano la bicicletta nel solco del culo.”
Poi serve un cliente e tocca a me. Gli porgo il pacchetto di chewing gum e due euro. Mentre mi dà il resto, sollevo lo sguardo e noto, in alto sul bancone, una foto che ritrae, senza dubbio nonostante il tempo passato, il proprietario che tiene un braccio sulla spalla di un monaco tibetano (per me potrebbe essere il Dalai Lama), davanti a quello che potrebbe essere un tempio buddista. E, ancora una volta, dubito della definizione di “pace interiore”.

Punto sul grosso

Chatroulette è qualcosa di incredibile. Se non sapete cos’è, funziona così: ci si collega al sito, si accende la cam e si viene connessi a caso con un utente. Premendo F9 si salta ad un altro utente e così via.

A parte il fatto che dopo un po’ si viene presi da convulsioni, e che in mezz’ora ho visto più membri maschili di quanti ne abbia visti in tutta la sua vita un primario di urologia, è fantastico vedere cosa la gente mette in cam.
Una parata di pupazzi, volti mascherati, cartelli veri o digitali, e gente mascherata che si accoppia con pupazzi, per chiudere il cerchio.
Ecco una ventina di screenshot presi durante un paio di “sedute”.









Di |2010-02-15T08:42:00+01:0015 Febbraio 2010|Categorie: I Am The Walrus, I've Just Seen A Face|Tag: , , |4 Commenti

Referrers – Gente che cerca altro – 16

Dagli stessi produttori di Neighbours, in associazione con Google, Virgilio, Yahoo! e Shinystat
16. pesce spada postmoderno
“Oggi me ne vado via prima”, aveva detto ai colleghi. “Eh, già”, l’aveva canzonato uno di loro. “Oggi ti porti a casa la dottoressa…”. Gli altri avevano riso, e anche lui si era lasciato andare a una risatina. Perché lo sapeva che era invidia, la loro. Gliel’aveva letto in faccia quando lei era andata al banco per la prima volta, e si era fatta servire di totani e sarde da lui, e da nessun altro. Avevano parlato, mentre lui puliva rapidamente i pesci davanti ai suoi occhi: era in paese per occuparsi dell’apertura di una nuova galleria d’arte. “Arte”, aveva detto lui. “Contemporanea”, aveva aggiunto lei. “Anche se mi sono laureata in storia dell’arte medievale”, aveva concluso. Non gli staccava gli occhi di dosso. Per carità, Salvatore piaceva alle donne, ma… a una laureata? Che cosa mai avrebbe potuto trovarci in uno come lui? E invece la dottoressa, così l’avevano nominata da subito gli altri pescatori, era tornata altre volte, e, tra un foglio di giornale arrotolato e una testa di pesce che guizzava, staccata di netto dal corpo con un colpo secco di coltello, lei e Salvatore parlavano, sorridevano e si guardavano.

Fino a che, qualche giorno prima, lei l’aveva spiazzato. “Vieni a cenare da me? Ma cucini tu, che ne dici?” gli aveva chiesto. L’ultima volta che Salvatore era arrossito faceva le elementari: se lo ricordava benissimo. Maria, la prima della classe, gli aveva detto, davanti a tutti, che era innamorata di lui e che da quel momento lui era il suo ragazzo. Avere voti alti, evidentemente, era un passe-partout invincibile. Lui, allora, aveva abbassato gli occhi senza dire nulla. Di fronte alla richiesta della dottoressa, gli occhi di Salvatore si erano abbassati di nuovo, mentre mormorava un “Magari andiamo a cena da qualche parte?”, abbastanza piano perché lei non sentisse nulla, ma non abbastanza perché un “Sì, vabbè” di risposta non arrivasse da qualcuno dei suoi compagni. “Come?” aveva detto lei. “No, dicevo che porto il pesce spada”, aveva detto lui. Si erano guardati a lungo, prima di accordarsi e dopo, e poi se n’era andata.

Salvatore si era tolto il grembiule e aveva salutato tutti, ma un urlo lo fece tornare indietro. “‘U pisci“, aveva sbraitato uno, agitando un cartoccio con dentro la cena di quella sera. “Grazie”, aveva mormorato Salvatore. “E prego”, aveva detto di rimando quello. “E salutaci tanto la dottoressa, eh”. Salvatore se ne andò sorridendo, ma era attanagliato dalla mattina da un dubbio. Come cucinare quel pescespada? Doveva trovare una ricetta in grado di stupirla, non le solite cose. Qualcosa che lo ponesse sul suo livello, almeno a tavola. Qualcosa di… Ecco, di “contemporaneo”, come aveva detto lei. Ma forse anche qualcosa di più. Rimase a lungo sotto la doccia, fintanto che la puzza di pesce si attenuò per diventare una parte dell’odore della sua pelle, tutt’altro che sgradevole. Poi, vestito con un asciugamano addosso, si mise al computer. Rimase sul pescespada, ma deviò dal “contemporaneo”, andando a casaccio, inserendo parole nel motore di ricerca, senza trovare nulla di convincente, perdendosi tra pagine e pagine che parlavano di tutto, tranne che di cucina di alto livello, per laureati. Si rese conto d’improvviso che era tardi, doveva andare. Ma che fare?

Il giorno dopo l’amico al quale aveva confessato i suoi dubbi culinari, interrogò immediatamente Salvatore. “Allora, come ‘u facisti ‘u pisci?” Salvatore schernì l’amico che gli aveva consigliato di fare pasta e pomodoro (“Quella sapi fàciri, io“) e rispose: “Olio, limone, aglio, origano”, con gli occhi che brillavano di gioia. L’amico rise e iniziò a diffondere tra i banchi del mercato la notizia che Salvatore aveva conquistato la dottoressa con un semplice pesce spada co’ o’ sammurigghiu.

Neighbours 12

Quando si abita in una via stretta, diventano vicini anche quelli che vivono due numeri civici più in là. Soprattutto se hanno la finestra della camera che dà sulla strada, e sono giovani e sguaiati (sto invecchiando, ‘mbè?).
Domenica ho lavorato, di mattina. E ho dormito poco la notte prima. Tornando a casa dalla radio avevo un solo desiderio: dormire, nonostante io non sia tipo da pennichella. Comunque, dopo pranzo mi sono messo a letto, intorno alle 14. Poco dopo, una voce inconfondibie mi ha svegliato, quella di Lady Gaga e della sua hit “Poker Face”. Una delle forme meno ispirate dell’arte umana occidentale delle contemporaneità. E i vicini che cantavano a squarciagola. Maledette siano le playlist: già, perché dopo Lady Gaga mi sono toccati Tiziano Ferro, Eros Ramazzotti e altri. Sempre in versione simil-karaoke. Mentre rimanevo inerte a subire, disteso sul letto, mi sono detto che questo è il Paese reale, altro che “compilazione degli Afterhours”, con tutto il rispetto.
A metà pomeriggio hanno finito, e io sono rimasto in stato catatonico per buona parte della giornata.
Cala il buio, e sale il sonno, che ormai è talmente enorme che ha un suo codice fiscale, SNN qualcosa. Ma fa caldo, e non riesco a dormire fino all’una passata. Quando finalmente sto per addormentarmi sento delle persone che, apparentemente, discutono per strada, proprio sotto la mia finestra. In realtà è solo perché non sono un tipo impressionabile che non penso che queste persone siano nella stanza di là, oppure appese su delle impalcature sulla facciata del mio palazzo. La discussione è animata, animatissima: colgo la musica, ma non le parole, se non a sprazzi. “Ci sono delle regole, e vanno rispettate”, “Questa è disonestà pura”, “Che strategia imbarazzante hai usato”. Sono loro, i miei vicini, e probabilmente stanno discutendo di politica internazionale, di strategie geoeconomiche, dei risultati del G8. Ma poi, una frase che sento distintamente mi fa comprendere la tremenda verità. “Ma scusa, il colore viene prima o dopo la scala reale?”. I deficienti stanno giocando a poker, ma con una tale animosità che pare siano su un tavolo verde alla Fiera del Bestiame di Pizzighettone, nel momento dell’asta dei tori da monta. Vanno avanti così per un paio d’ore, urlando punti e puntate e, orrore!, riproducendo i toni dei commentatori delle partite di poker alla televisione (che non ho mai visto, ma da quello che ho capito hanno bizzarramente riciclato dei giornalisti che si occupavano di wrestling, dal tono che usano).
E ripenso al Paese reale, prima di addormentarmi, finalmente, con un ultimo pensiero: se nel pomeriggio ascoltavano quella canzone di Lady Gaga e poi di sera giocavano urlando a poker, spero che la prossima volta, in controtendenza, rimangano affascinati da “Bridge over Troubled Water” e vadano a giocare a carte su un fiume.

Neighbours 11

In realtà questo nuovo (e inaspettato) capitolo della saga che racconta le vicende dei miei vicini di casa, è uno spinoff dell’episodio numero nove, perché la protagonista è la stessa.
Caratteristica della mia vicina di casa è che la incontro sempre quando sono di fretta, e lei ha voglia di chiacchierare. Specifico: io, a dire la verità, sono sempre di fretta, e lei ha semprevoglia di chiacchierare. Quando è da sola, parla al telefono. Tantissimo, a voce altissima. D’inverno, chi se ne frega. D’estate, con le finestre aperte, capirete…Comunque, scendo trafelato le scale di casa, dopo avere mangiato qualcosa per pranzo. Un gradino dopo l’altro mi chiedo se quello che ho ingurgitato nei sei fantozziani secondi che posso concedermi tra il lavoro della mattina e quello del pomeriggio sia effettivamente commestibile. Poi mi domando  se, qualunque cosa esso sia, io l’abbia scartato. Passo velocemente la lingua in bocca, non sento traccia di cellophane, e… E lei è lì, davanti al portone del palazzo, apparentemente immobile.
– Ciao Francesco, come va?
– Ciao… Eh, – dico io ansimando – di fretta.
Ma queste parole hanno su di lei l’effetto di un granello di sabbia nel deserto. E la vicina inizia a parlarmi dei cazzi suoi. No, perché poi forse lei lo sa che, essendo inverno, non sento le sue telefonate, e quindi non sono mica aggiornato sulla sua vita. E infatti…
– L’hai sentita la mia cagnetta?
– No – dico io. Del resto è inverno, le finestre sono chiuse. Mi chiedo se la cagnetta, d’estate, farà delle interurbane. Semmai, internazionali, visto che…
– È uno Yorkshire Terrier, piccola così, e ha sempre voglia di giocare…
Il tempo scorre veloce, ma solo per me.
– È un cane piccolo – continua lei, e io capisco che non do l’idea di essere Piero Angela, ma so cos’è uno Yorkshire Terrier. – Pesa poco più di un chilo, ma arriva al massimo a un chilo e sei.
Ecco, alla quantificazione del peso massimo di un essere vivente, io vengo preso dallo sconforto, come se tutto fosse già disegnato, previsto, predetto. Mi immagino Dio che dice: “E questo lo chiamiamo Yorkshire Terrier, ecco, gli mettiamo dei peli qua, dei peli là… Massimo un chilo e sei, eh, che se no non ci stiamo coi conti. Segna.” E se uno Yorkshire Terrier volesse ingrassare fino ai cinque, dieci, mille chili? Non può? Posso prendermela con il Papa, in ogni caso?
Ma la vicina continua.
– Me l’hanno regalato i miei figli per Natale… Ma capisce tutto, anche se è piccolo…
Aridaje, sembra che voglia giustificarlo. Io, intanto, affascinato dalla Licia Colò del piano di sotto, sto perdendo secondi preziosi e autobus, insieme. Di colpo, l’illuminazione: non ho aperto bocca, ma so cosa dire per stroncare la conversazione, ho la frase. Ma la vicina, che ha un master in loquela, mi anticipa.
– Insomma, è un topo.
– Sì – dico io. Sposto il peso in avanti. – Be’, devo proprio andare.Dentro di me penso, mentre salgo sull’autobus: “Un chilo e sei.”
Di |2009-02-19T00:21:00+01:0019 Febbraio 2009|Categorie: I've Just Seen A Face|Tag: , , , , |1 Commento
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