Tomorrow Never Knows

God Inc.

Leggo questo ora sul sito di Repubblica. E io, da correntista Unicredit, con mutuo Unicredit, che devo dire, senza incorrere in denunce per vilipendi e offese varie?
Dio c’è e conta insieme a noi? E se così fosse, qual è il suo IBAN?
Tutto è una tragica barzelletta, miei piccoli lettori. Raccontata pure male.

Di |2008-10-06T11:36:00+02:006 Ottobre 2008|Categorie: I Am The Walrus, Lady Madonna, Taxman, Tomorrow Never Knows|Tag: , , |1 Commento

Tutta colpa di Ghareeb

Dalla mailing list legata a Baldoni, mi arriva la segnalazione di un’intervista fatta a Maurizio Scelli, che nel 2004, quando Enzo fu rapito e ucciso, era il commissario straordinario della Croce Rossa Italiana in Iraq. Prendetevi cinque minuti e leggetela. Riporto qua sotto una delle ultime domande e la seguente risposta di Scelli.

Recentemente il quotidiano arabo Al Haiat, ha pubblicato la foto di Saad Erebi al Ubaidy, a capo nell’agosto del 2004 dell’Esercito Islamico che attuò e rivendicò, l’assassinio di Baldoni, seduto accanto al comandante delle Forze Usa in Iraq, il generale David Petraeus e il vice premier iracheno Bahram Saleh. Ci sono gli estremi per aprire un’inchiesta?

Dubito molto che in Iraq, oggi come oggi si possano fare delle inchieste volte ad accertare chi abbia realmente rapito e ucciso Enzo Baldoni e il suo autista Ghareeb, del quale fece molto male a fidarsi e credo che ne sia il principale responsabile al punto da essere stato eliminato in quanto testimone scomodo.

Capito? Scelli mette l’ennesima pietra sopra al caso Baldoni. Evita la domanda, più che legittima, e chiosa con un goffo tentativo, dando la colpa all’autista di Enzo. Fatemi capire: Ghareeb consegna Enzo a qualcuno (qualcuno che poi è stato visto con gli americani, ma nel casino dell’Iraq odierno non solo tutto è possibile, ma tutto pare naturale). E poi viene eliminato in quanto testimone scomodo di una cosa che ha fatto lui stesso?

Ancora una volta, dopo tre anni e mezzo, sono triste e senza parole.

Oltre il paradosso

I corsi e i ricorsi di cui sotto continuano. Esattamente quattro anni fa scrivevo un post, intitolato Etica, in cui mi chiedevo che limiti si potessero raggiungere nel giornalismo sventolando la bandiera del “diritto all’informazione”. Allora ancora non facevo parte di una categoria alla quale mi dimentico spesso – colpevolmente – di appartenere, quella appunto dei giornalisti.

L’omicidio di Garlasco ha spostato la questione ancora più in là: prima che di etica, infatti, è possibile parlare molto oggettivamente di paradosso della comunicazione, o di sindrome della faccia-come-il-culo (e scusate i tecnicismi). Nell’edizione del TG1 delle 20 dell’altroieri, una giornalista ha redatto un intero servizio sull’accanimento dei mezzi di comunicazione nei confronti dei protagonisti di quel fatto di cronaca. Mentre la voce parlava degli innumerevoli tentativi di interviste andate a vuoto, delle continue richieste ai giornalisti da parte di amici e familiari della ragazza uccisa di smetterla di assediare le loro case, le immagini mostravano il fidanzato di Chiara in lacrime, il dolore della madre e del padre della ragazza, microfoni appoggiati ad altoparlanti di citofoni, riprese di persone in macchina che se ne vanno.
Non contenta di questo, la direzione del TG1 ha proseguito con un secondo servizio, di tono vagamente vittimistico, in cui un’altra giornalista “si lamentava” del fatto che lei e i suoi colleghi fossero chiamati “sciacalli” e “mostri”, concludendo con una frase simile a “i mostri sono altrove”.

Io non ho parole. So benissimo che, in questi giorni, non parlare di quell’omicidio (anche solo per ricordarne i momenti, per fare delle ricostruzioni, solo per citarlo) significherebbe “bucare la notizia” (altro paradosso: di notizie non ce ne sono), nel meccanismo perverso che ormai regola l’informazione nel nostro Paese (e non solo qua). Ma, quanto meno, che si abbia la decenza di non contraddirsi in maniera così esplicita e di non fare le vittime. In tutta questa faccenda, di vittima certa ce n’è una sola.

(E, ovviamente, penso a Enzo, morto tre anni fa, e a quanto si sarebbe incazzato, ancora una volta, per tutto questo schifo.)

In una galassia lontana lontana…

Il tenutario del blog (bloglord?) ringrazia i curatori del numero di oggi del supplemento Nova del “Sole24Ore”, che hanno incluso A Day in the Life nella “galassia dei blog italiani”. Praticamente un paginone centrale senza conigliette, ma con molte lineette e centinaia di nomi di blog più o meno famosi, collegati tra loro, sparsi ovunque su due fogli. Il paginone è al centro di uno speciale chiamato “Bigblogbang”.

Ma ringrazia soprattutto il fatto che il quotidiano economico non sia un tabloid, perché ci sono dentro per un paio di centimetri appena.

Vengo in pace.

Specchio delle mie trame

Nell’ultimo numero di “Specchio”, supplemento settimanale de “La Stampa”, c’è un’intervista di Marco Gregoretti a Licio Gelli. L’occasione è data dall’uscita di Licio Gelli. Parla il venerabile, un libro-intervista al capo della P2 di Sandro Neri.
Gelli, nell’articolo di “Specchio”, inizia subito a provocare: “Io sono l’ultimo gerarca fascista in servizio permanente effettivo in vita”, dice che per risollevare il paese servono “due anni di dittatura”, che dovrebbero iniziare con l’abolizione del Consiglio Superiore della Magistratura e delle Regioni. Gelli definisce la Massoneria come “una scuola di etica”, e parla della strage di Bologna come di un “incidente di percorso”.

La cosa che mi chiedo è: salvaguardando il diritto all’informazione, perché dare ancora spazio a Licio Gelli, adesso, considerando che è agli arresti domiciliari, ha 87 anni, ha fatto dei danni incommensurabili al Paese, e da lui i magistrati non potranno sapere nulla? Che informazioni mai mi daranno l’articolo e il libro (citato all’inizio, ma di cui poi non si parla neanche per una riga: tutt’altra cosa è l’articolo di Alfonso Contrera su “L’Espresso”, riportato da Dagospia)? Ditemelo voi, perché io proprio…

Guardare per non dimenticare

Cinque anni fa io, a differenza di molti altri miei coetanei, conoscenti, amici, non ero alle manifestazioni contro il G8 di Genova. Non ci sono andato per un motivo molto banale: i miei genitori mi hanno chiesto di non andarci per non farli preoccupare. Erano anni che non mi facevano una richiesta del genere, e ho deciso a malincuore di accontentarli, per amor loro e basta. Cinque anni fa, nei giorni del G8, ero a casa dei miei, mentre loro erano in vacanza, e seguivo, sulla rete e in televisione, quello che stava succedendo a Genova. Mi ricordo delle prime voci “è scappato il morto”: un morto che, prima di diventare Carlo Giuliani, era stato uno che se la meritava, un tossico, uno che era stato addirittura ucciso da un altro manifestante: i “noglobal” che si azzannano tra loro come cani impazziti.

Poi il morto è diventato Carlo Giuliani. Poi ci sono stati i fatti della Diaz, di Bolzaneto.

Quando sono tornato a Bologna ho pensato subito ad una cosa soltanto: l’unico modo per non dimenticare era mostrare quello che era successo, e sfruttare le centinaia di reporter (nel vero senso del termine) che erano stati a Genova con telefoni, macchine fotografiche, cineprese, videocamere. Le notizie arrivavano di continuo, e i cerchi si stringevano sempre di più. Carabinieri e poliziotti avevano picchiato il padre di un’amica di un amico, un compagno di scuola delle medie di un altro era stato torturato in carcere, e così via. E poi le foto: teste spaccate, nasi rotti, bocche rosse e nere, per i buchi lasciati dai denti saltati.

Le foto, quelle sono importanti. Lo capì Diario, che fece uscire poco dopo i fatti del G8 un numero che, praticamente, raccoglieva solo fotografie, scattate da amatori o professionisti, poco importava. Quello che importa è continuare a sfogliare quel giornale, continuare a rivedere le videocassette, i filmati sul web, a risentire le dirette radiofoniche. Perché la memoria non solo di un omicidio rimasto impunito, ma soprattutto della più grande violazione dei diritti umani dalla seconda guerra mondiale ad oggi venga ricordata, sempre, non con la solita ormonale, cretina e barricadera rabbia rivolta agli “sbirri”, ma con una rabbia che sia il carburante per andare avanti, cercare la verità, mettere i colpevoli (tutti i colpevoli) con le spalle al muro, fare capire loro che questo non potrà e non dovrà accadere mai più.

Il filmato Quale verità per piazza Alimonda?
Il dossier di Indymedia sui giorni di Genova
350 testimonianze su quei giorni
Altre foto dei cortei e delle cariche
Le foto del pomeriggio di cinque anni fa in piazza Alimonda

Two Works and No Play Make ADayintheLife a Dull Boy*

Lo ammetto: alla faccia della crisi, ho due lavori. Il primo, di mattina, mi identifica come “giornalista”. Il secondo, di pomeriggio, mi identifica come “responsabile ufficio stampa”.
Ammetto anche, alla faccia dell’opulenza, che con due lavori riesco a malapena a campare.
E anche che il primo dura fino a dicembre e il secondo fino ai primi di agosto. Alla faccia dell’indeterminazione.
Ma comunque, fare il giornalista di mattina e tenere su un ufficio stampa il pomeriggio è schizofrenico: se facessi bene il mio lavoro dovrei mandarmi delle mail da solo, cercarmi al telefono e lamentarmi perché quel giornalista non c’è mai, e neanche quell’ufficio stampa si riesce mai a trovare quando serve. Ma per fortuna la mia sanità mentale è ancora saldamente appesa ad un filo, quindi tengo botta, diciamo.
Il vantaggio dell’essere allo stesso tempo venditore e compratore, attaccante e terzino, cerchio e botte, è che puoi parlare male di entrambe le categorie, senza pericolo di essere smentito, come, del resto, farebbe qualsiasi persona sana di mente che non è né giornalista, né si occupa di un ufficio stampa.
Considerando che questo secondo lavoro lo faccio da poco, mi sono trovato spesso ad avere a che fare (e quindi a parlare male di) uffici stampa. Il peggio che possa capitare ad un giornalista è una addetta stampa di Milano di una grande casa discografica; che detta così sembra che voglia parlare di una persona in particolare, e che ne nasconda il nome dietro uno squallido giro di parole: invece no, provate a fare qualche telefonata e vedrete che chi risponde al telefono degli uffici stampa delle grandi case discografiche (che stanno tutte a Milano) è, di solito, una donna.
Nervosissima.

Ma anche i giornalisti non sono da meno (e io lo posso dire perché per metà della giornata, bla bla bla… capito il trucchetto?).
Oggi, per esempio, ho parlato con una giornalista, che voleva delle informazioni ulteriori a quelle che le avevo mandato con il comunicato stampa e la mail, per scrivere un pezzo sulla campagna di cui mi occupo. Mi chiede di mandarle una pubblicazione legata alla campagna: quattro mega in pdf. Gliela mando, torna indietro, la richiamo. “Guarda che la tua mail non regge l’allegato. Hai un’altra mail a cui posso mandarla?” Lei è talmente stupita dalla domanda che sento il rumore che fanno i suoi occhi quando strabuzzano. Poi, come se nulla fosse, mi dà una mail alternativa, e si cautela.
“Potrei venirlo a prendere, il file”, dice. “Ma non ho un dischetto.”
“Guarda, quattro mega in un dischetto non ti ci stanno, ti ci vorrebbe una chiavetta usb”: reagisce come se le avessi detto che avere un dispositivo portatile di teletrasporto tornerebbe utile. La telefonata si chiude con lei che mi dice “Se avessi bisogno di altre informazioni, ti chiamo: è il tuo lavoro, no?”
Sì, è il mio lavoro del pomeriggio, e ancora manca un sacco alla fine del pomeriggio. Quanto meno abbastanza da ricevere un’altra telefonata della giornalista. Mi inizia a fare delle domande che hanno risposta nel comunicato, ma lungi da me dirle: “Ma allora manco l’hai letto”, quindi rispondo educatamente. Mi chiede quando inizia la campagna, e le dico la data. “Quanto va avanti?”, continua lei. “Eh, dipende”, dico io, e spiego che, sebbene sia una campagna nazionale, è organizzata autonomamente anche dagli enti che vi aderiscono a livello locale. “Quindi, fino a quando va avanti?”, insiste. “Di solito gli eventi locali sono organizzati fino alla metà di agosto circa, ma non credo ci sia bisogno di essere così precisi”, dico tentando di chiosare.
Pare si sia placata, ma è solo un’apparenza. “Che spettacoli sono legati alla campagna?” Stavolta sono io che strabuzzo gli occhi: non c’è alcuno spettacolo legato alla campagna, dico, ma lei insiste: “Eh, mica me lo sono inventato, l’ho letto nei comunicati.” “I comunicati li ho scritti io, giuro che non c’è alcuno spettacolo.” Niente, non è convinta, mi dice di aspettare in linea, e va a leggere le mail che le ho mandato. Torna al telefono. “Ah, no, mi sono confusa: avete dei personaggi dello spettacolo come testimonial.”
Un momento di silenzio.
“Senti, ma quando inizia e quando finisce, la campagna?”

E domani mattina, di nuovo a fare il collega di questa qua.

* E mi rendo conto di avere usato un’altra volta un titolo simile, in un posto che aveva sempre a che fare con giornalisti.

3%

Ho appena finito di vedere il servizio di Rai News 24 su quello che è accaduto a Falluja, Iraq, negli ultimi mesi.
La frase del servizio che mi ha più colpito è stata quella che si riferiva ai filmati della guerra del Vietnam: solo il tre per cento del materiale video proveniente dal Vietnam aveva contenuti violenti, ma (anche) questo è servito a scatenare la protesta contro la guerra.

Per questo pubblico qui diversi link, che hanno a che fare con quello che io, nel mio minuscolo, e altri hanno fatto per documentare quello che è successo a Falluja e in Iraq e che sta presumibilmente accadendo ancora. Una piccola parte del materiale disponibile in rete. Il 3%?
Solo l’ultimo link riguarda il servizio andato in onda qualche giorno fa.

Leggete e guardate tutto con attenzione, per quanto immagini e parole siano insostenibili. Poi vi chiedo un favore: copiate questo post, o solo i link in esso contenuti, magari aggiungendone degli altri, sul vostro blog. Oppure usate la mail, o qualsiasi altro mezzo che il 2005 ci offre, trent’anni dopo il Vietnam.
Si dice sempre che siamo in pochissimi, “noi blogger”, e forse è vero. Siamo “un” 3%? Si dice anche che siamo bravissimi a fare catene sui libri che leggiamo o i dischi che ascoltiamo. Adesso facciamo una catena diversa, se vi va.

Enzo Baldoni parla di Falluja (RealMedia)
Enzo Baldoni racconta di Falluja
(agosto 2004)

Giuliana Sgrena: Falluja, una strage al giorno
(settembre 2004)

Falluja: ieri e oggi
(novembre 2004, periodo del primo probabile attacco con MK-77)
Il video linkato nell’articolo si riferisce ad un attacco dell’aprile 2003: scaricatelo qua (tasto destro, salva con nome)

Rapporto da Falluja 1 e 2
(gennaio 2005)

Napalm by any other name
(aprile 2005)

Il servizio di RaiNews24
(novembre 2005)

Esiste forse un'ironica giustizia nelle gif animate?

Sul sito di Repubblica, oggi, c’è un articolo che parla di un’indagine dell’Eurispes sul lavoro oggi, sulle aspettative di chi lavora.
Praticamente una ricerca di Riza Psicosomatica sulla depressione.
Ma tanto il rapporto verrà bellamente ignorato, e si continueranno a magnificare le opere (grandi, medie, piccine) di questo governo, che ci ha dato lavoro (un lavoro di solito part time, senza diritti, senza possibilità di sviluppo, con il quale non puoi accendere un mutuo, ma manco affittarti un monolocale da solo).
Ma il perfido caso, o un perfido webmaster, ha voluto che, accanto al paragrafo sul lavoro atipico e sugli abusi che si fanno di quelli che hanno un contratto Co.Co.Co., comparisse una pubblicità sull’Opa Tim Telecom, una delle aziende che più sfrutta le anomalie contrattuali, tanto che ci sono diversi procedimenti in piedi contro l’azienda stessa. Il risultato, comunque è questo, o meglio ancora, questo.

Lavoratore atipico TIM, o altro, che leggi questo post: ridi amaro, ma non farti vedere. Ricordati che, fondamentalmente, non conti un cazzo e che non ci vuole niente per perdere il quasi niente che hai.

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