bologna

Festivalieri

C’è una strana sensazione, quando finisce un festival di cinema e ci sei andato, diciamo, “per lavoro”. Da un lato sei saturo di film, code, file, incastri di proiezioni, articoli scritti di corsa. Dall’altro, invece, senti che non vorresti vivere in altro modo. Ma non è di questo che voglio parlarvi, ma della fauna-da-festival. Anche un festival tutto sommato piccolo come il Future Film Festival di Bologna, presenta caratteristiche simili ad altri festival più grandi. Vediamo, quindi, da chi è normalmente popolato un festival di cinema.

Primo e pericolosissimo personaggio è il logorroico. Che voi direte “E vabbè, ma quello c’è anche a teatro, alle Poste, alla fermata del venticinque”. Eh sì. Ma il logorroico-da-festival porta a strane reazioni la sua vittima. Perché si è lì al festival, in fondo in fondo, per una passione comune, il cinema. Quindi gli argomenti di conversazione possono essere interessanti, volendo. Ma è come dire di avere voglia di un panino e trovarsi di fronte ad una rosetta di sedici quintali. Manca la misura, al logorroico. Ti si siede accanto in uno dei primi giorni, e quel momento segna la tua fine. Perché tu sei gentile, inizi a scambiare due parole, che poi diventano due parole alla seconda, alla terza, alla quarta e così via, fino a che non ne sei sommerso. Allora, nelle proiezioni successive, entri in sala con impermeabile ed occhiali scuri, ti guardi intorno, pare non ci sia. Tiri un sospiro di sollievo, ed ecco che dalla fila di fronte si erge una testa, gira a centottanta gradi che neanche Regan ne L’esorcista e ti vede. E, ancora una volta, sei finito e preghi solo che si abbassino le luci. Oppure: sei in fila, in mezzo ad alcuni rassicuranti sconosciuti, e ti senti toccare sulla spalla. E’ sempre lui, pronto, con la rosetta gigante in mano. Per te.

L’esperto. Qualsiasi cosa tu sappia su X, beh, l’esperto ne sa di più. E non solo su X, ma anche sui film in cui X portava solo i panini sul set, sulla figlia di X, sulle collaborazioni non accreditate di X. L’esperto, notoriamente, ti fa sentire una cacca. Per cui, semplicemente, la smetti di parlare e, se sei proprio di animo buono, inizi a prendere appunti e i tuoi contributi verbali alla comunicazione si limitano a “Mm” e “Certo”. Ovviamente esistono delle combinazioni, come l’esperto logorroico, che mettono a dura prova anche gli animi più tenaci. Ho visto delle persone cercare di tagliarsi le vene con il bordo plastificato del pass, pur di sfuggire a persone come l’esperto logorroico.

Il giornalista famoso. Può fare quello che vuole. Insultare le maschere, togliersi le scarpe, fare le puzzette, insultare le persone ad alta voce, saltare le file, avere bevande e cibo gratis, toccare il culo ad attori e/o attrici, ruttare sonoramente e poi vantarsi. Ma soprattutto può insindacabilmente decidere se un film è brutto o meno. Questo accade quando scrive di un film. Anche quando non l’ha visto. O quando l’ha visto, ma solo per metà, perché poi si è messo a dormire, russando clamorosamente. Poi si sveglia e applaude o bofonchia qualcosa. Conosce tutti per nome, dal barista del caffè di fronte al cinema al regista a cui viene dato il premio alla carriera. Ed è sempre attorniato da qualche personaggio, spesso anagraficamente più giovane di lui, il paggio, che sempre e comunque gli dà ragione e ride alle sue battute. Sa che prenderà il suo posto, e che potrà palpare, sbafare, dormire, ruttare, condannare, salutare al posto suo. Un giorno o l’altro.

Il giornalista di “Case e giardini”. Non si sa come abbia avuto un accredito per un festival cinematografico. Forse è lì solo per vedere gli attori e le attrici, forse si è sbagliato, forse è noto nella sua redazione che odia il cinema, e l’accredito diventa una specie di esilio forzato. Non ne sa assolutamente niente di cinema, ma non osa dirlo. Può parlarvi di taglio di prati e di arredamenti di interni per ore, e probabilmente con cognizione di causa, ma a malapena sa che cosa sia un cinema. Ha altri interessi e altre passioni. Si addormenta spesso, sognando esempi di edilizia del Dorset o del New England. Ma, perdio, è un giornalista e, alle conferenze stampa deve fare la sua porca figura. Se ne esce, quindi, con domande del genere: “Mi può ripetere quando ci sarà la dimostrazione gratuita di trucco de Il Signore degli Anelli?” (sentita veramente alla conferenza stampa inaugurale del FFF).

Il cacciatore di gadget. Spesso è un giornalista, ma non è detto. Prende tutto ciò che è gratis, dagli adesivi alle sagome pubblicitarie in cartone dei personaggi di un film d’azione ungherese. Dalle colonne sonore alle magliette, lui del merchandising gratuito non si vuole perdere neanche un articolo. E poi sfoggia tutti i suoi trofei insieme, magari venendo alle proiezioni con cappellino del film Y, maglietta del film Z e penna della casa di produzione K. E si vanta tantissimo, ma solo con lo sguardo. Non vede l’ora, infatti, di fare morire di invidia i suoi concorrenti, gli altri cacciatori di gadget. Vede pochissimi film, ma è evidente, dovendo fare file chilometriche davanti agli uffici stampa delle case di produzione.

Il nerd. Spesso è combinato con tutte le categorie precedenti. Ma sì, lo conoscete il nerd da festival. E’ quello che, ne I Simpson, alle convention di fumetti o di fantascienza, pronuncia affermazioni del tipo: “Nella puntata 4F6Y si vede in lontananza un cugino della protagonista che assomiglia tanto al nemico di un numero speciale (e introvabile) del fumetto Superboy and the Tafanoids. Perché questa scelta?”. Il nerd cinematografico spesso indossa le magliette guadagnate agli altri festival, ha un colore della pelle verdognolo, dovuto alla prolungata reclusione al buio per la visione di film, telefilm e quant’altro, i raggi televisivi gli hanno procurato una forma rara di acne perenne e si intende soltanto con gli altri nerd. Ha la spocchia del giornalista famoso, la fame di roba gratis del cacciatore di gadget, la cultura totale dell’esperto, l’incapacità nelle relazioni sociali del giornalista di “Case e giardini”, la parlantina del logorroico. Ed è molto, molto solo.

L’attricetta. Tipica dei grandi festival, ha avuto un accredito in qualche modo. O in qualcun altro. Sta sempre in vista, va a tutte le feste, si cambia d’abito almeno sei volte al giorno, anche in una tempesta di neve ha la capacità di avere un make-up perfetto. Sorride a tutti, ché non si sa mai, e, per lo stesso motivo, non rifiuta mai di farsi fotografare. Ha con sè, nascoste in una borsetta piccolissima, almeno duecento copie del suo book fotografico e curriculum (che di solito inizia con frasi come “a sei anni ho fatto la Madonna nella recita delle elementari”). Oggetto del desiderio del nerd, oggetto di scherno del giornalista famoso (che poi, regolarmente, se la tromba), l’attricetta ci crede tantissimo. Il problema vero dell’attricetta non è che manca di tenacia, no. Né di volontà. No, il vero problema dell’attricetta è quell’accento ciociaro che non riuscirebbe ad estirpare neanche con un trapianto di corde vocali. Quindi va in giro, sculetta e sorride. Ma in rigorosissimo silenzio, finché può.

L’attore-un-tempo-famoso. Il suo comportamento è molto simile a quello dell’attricetta, con la differenza che, detto palesemente, non ha neanche il minimo di possibilità di attrazione che ha l’attricetta. Infatti è in crisi di astinenza da successo, magari momentaneo, e si è ridotto ad uno straccio d’uomo. Non è più capace neanche di allacciarsi le scarpe. Anch’esso è oggetto di culto del nerd, che ne conosce vita, morte e miracoli. Ma l’attore-un-tempo-famoso non lo sopporta, il nerd, per ovvi motivi (vabbè essere caduti in basso, ma non a quel livello). Tenta di conoscere l’attricetta e, quando gli va bene, la poverina ci casca. “Sai, sono un attore” ed è fatta, anche se l’ultima volta che è apparso su uno schermo è stato, per sbaglio, nella folla inquadrata in un servizio di Studio Aperto sul traffico. Tenta di avere una scrittura, qualsiasi cosa, è disposto veramente a tutto. Alla fine del festival, di solito, si ubriaca e tratta male tutti, buttando nel cesso il minimo lavorìo diplomatico svolto fino a quel momento. Scarica le frustrazioni su chiunque e manda sonoramente a fare in culo l’unico produttore che gli avrebbe dato due lire. Ma se ne accorge drammaticamente troppo tardi.

Una giornata niente male: la nuda cronaca di uno di quei giorni in cui è meglio rimanere nel letto. Di chiunque.

Io ci credo. Continuo a perseguire il mio programma, o almeno tento di farlo. Quindi: sveglia alle nove, una sana colazione e iniziamo con un po’ di studio. Poi mi ricordo: devo telefonare alla nota università con le scale mobili, perché devo capire cosa è successo con il mio contratto. Una parentesi esplicativa è necessaria. Infatti, qualche giorno fa, è arrivata, all’indirizzo al quale ufficialmente risiedo, a 300 e passa chilometri da Bologna, una missiva dalla suddetta università, che mi diceva di recarmi presso l’altra sede dell’università, ai piedi delle Dolomiti, per firmare il contratto.

Dopo infiniti tentativi di entrare in contatto con la magica università, allietati dal tema di “Momenti di gloria” (e se mai dovessi beccare Vangelis…), finalmente, con un paio di rapidi passaggi di persona, riesco a parlare con chi-mi-serve.
“Ma no, si tratta di un errore!”
“Ah, bene”, faccio io, “quindi posso passare a Milano per firmare il contratto…”
“Eh sì, però venga quanto prima. Prima firma, prima le paghiamo la prima tranche del suo compenso”
“Quindi quando dovrei venire?”
Silenzio. Dopo una lunghissima pausa la donna dice: “Vediamo, che ore sono…?”
Sospiro e dico: “Fa niente, magari vengo il ventotto, quando devo fare esami, posso firmare quel giorno, no?”
“Sì, poi però la paghiamo il aisfgaisfebbraio”
“Il venti febbraio?”
“Il ventisette febbraio”, precisa la solerte addetta all’amministrazione.
E io penso che, anche se avesse detto “il ventinove febbraio”, mi sarebbe andata di culo, ché tanto il 2004 è bisestile.

Pomeriggio. Devo andare al cinema per questo simpatico programmino, in particolare mi tocca andare a vedere un filmaccio per una rubrica significativamente chiamata “Il duro mestiere del critico”. La morte di cui devo morire si chiama Mona Lisa Smile. Ne parlerò sull’apposito blog, ma potete farvi un’idea dei miei sentimenti d’amore per Tori Amos messi alla dura prova, esattamente come i suoi.
Esco dal cinema. Devo ritirare i soldi dell’affitto (che ammonta a 300 euro per una stanza, così, ve lo dico). Prima di ritirare i soldi, però, chiedo al Bancomat l’estratto conto.

“Sicuro?” fa lui.
“Dammi lo scontrino”, dico io.
“A Fra’, guarda che poi ci rimani male, e ti rovina la giornata”
“A parte che sono le sei di sera, e la giornata va già male… fa’ il tuo dovere, dammi lo scontrino con su scritto quanto mi rimane, e non chiamarmi ‘a Fra’”
“Sicuro sicuro?”
“Dammelo, stampalo.”
Stampa dello scontrino in corso.
“Fallo uscire, maledetto.”
“Beccate questo”, dice il Bancomat.

Aveva ragione lui. Mi allontano tristemente dal Bancomat che sentenzia, come il Puffo Quattrocchi: “Telavevodetto, io”.

Sera. Siccome la trasmissione è domani e devo vedere un altro film, mi tocca cenare presto, anche perché dopo il film devo tornare in radio per il programma notturno di cui qui a sinistra, in basso, scorrete, scorrete. Il film prescelto, per doveri di cronaca, è L’ultimo samurai. E so già che si tratta di una vaccata colossale, ma tocca. Quindi decido di cenare in fretta. “Che mi faccio da mangiare?” penso. “Cappelletti in brodo”. Detta così, pare bellissimo. Ma non fatevi ingannare: allontanate dalla mente donne emiliane che fanno la sfoglia, cucine accoglienti, tramonti splendidi. Sostituite le donne emiliane con un pacchetto di cappelletti già pronti e un dado da brodo, la cucina accogliente con una cucina non poi così accogliente e il tramonto con una luce al neon. Ma tant’è. L’acqua bolle, tento di non pensare a niente, butto i cappelletti. Passa uno dei miei coinquilini, M., che nota una strana macchia verde su uno dei cappelletti. “Dev’essere il ripieno che è uscito”, dico io. “Secondo me è muffa”, dice lui. Ovviamente ha ragione lui. Mi immagino di andare al supermercato incazzato come una iena e protestare perché mi hanno venduto dei cappelletti ammuffiti, ma l’idea scompare, come i cappelletti verdi e il brodo, nel cesso. La mia cena consiste, quindi, di una scatoletta di tonno, due pacchetti di crackers, maionese, variamente combinati tra loro, e un’arancia. Ma poi ho un’illuminazione. Ho della ricotta. Prendo un cucchiaio di cacao amaro, un cucchiaino di zucchero e mescolo il tutto alla ricotta. Me la preparava sempre la mamma, questa merenda-dolce. Ma non ho tempo di commuovermi, devo andare a vedere il secondo probabile-film-di-merda della giornata.

Che, puntualmente, si rivela un film-di-merda. Non mi rimane altro che andare a prendere l’autobus, per andare in radio. Non ho il biglietto, ma tanto l’ATC sta pubblicizzando questa grande trovata di mettere i distributori di biglietti automatici in ogni autobus. Ovviamente l’autobus che devo prendere ha i distributori guasti. Quindi entro in modalità ansiosa, per cui ogni persona che sale che vagamente assomigli ad un controllore mi mette uno stato di agitazione terribile. Non essendoci una tipologia fisiognomica di controllore dell’autobus, qualsiasi persona che salga sull’autobus mi fa sudare freddo. Decido di tirare fuori il libro e di mettermi a leggere, quindi. Solo che la lettura mi prende talmente tanto che non mi accorgo di avere passato la mia fermata. Me ne accorgo, fortunatamente, poco dopo. Scendo e mi trovo in un luogo che per me ha significati profondi. Un luogo legato ad uno degli ultimi momenti di armonia passati con la mia ex-ragazza (che suppongo ormai abbia dato le dimissioni – oltre che da ragazza del sottoscritto – anche dal genere Homo Sapiens). Un luogo magico. Un incrocio nella periferia occidentale di Bologna in cui io, lei e l’ormai mitico V. abbiamo rilevato il passaggio delle macchine, negli ultimi giorni di dicembre del 2002. Abbiamo rischiato il congelamento contando le macchine che passavano in quell’incrocio. Un lavoro di merda, se non si era capito.

La trasmissione in radio va bene, considerando l’orario. Nessuna telefonata in diretta, tre mail dalla stessa persona. Nella prima mi richiede un pezzo. Nella seconda me ne richiede un altro, che però non ho e non trovo. Nella terza mi dice “va bene lo stesso quello che hai messo, buonanotte”. E così mi sembra di fare l’ultima mezz’ora di trasmissione (dall’una e cinquanta alle due e venti) parlando al nulla.

Il 61, quando arriva, alle due e quaranta, è popolato da cinque individui, che scendono due fermate dopo quella in cui sono salito io. Faccio il viaggio da solo, leggendo con un occhio il libro, con l’altro stando attento a non scazzare la fermata, ché se scazzi la fermata del notturno rischi di ritrovarti nel centro di Casalecchio alle tre del mattino. E di rimanerci.
Scendo e percorro la solita strada. Sono a pezzi. La vetrina del negozio di Armani di via Farini è cambiata. I manichini sono seduti su delle specie di panchine sospese e hanno l’aria stanca anche loro. Per educazione, quando passo loro davanti, gli auguro la buonanotte.
Sono finalmente a casa. Stanco morto. Umanamente morto (la retorica, eh?).
Ma tanto io nei prossimi giorni mi trasformo in cartone animato.

Possibilità

Potrei raccontarvi tante cose, successe in questo fine settimana.
Potrei dirvi che sono contento che qualcuno ci sia (di nuovo).
Potrei dirvi che la “sindrome da clessidra di Windows” continua, per certi versi.
Potrei dirvi che ho conosciuto, grazie all’amica norvegese che ho ospitato nel fine settimana, cose della Norvegia che non sapevo (che ne so, che ha due lingue, che amano mangiare, a Natale, gelatina di merluzzo, che il loro primo ministro è un prete, che lì non fa così freddo come si dice, eccetera eccetera eccetera. Sì, abbiamo parlato molto.)
Potrei dirvi che sono salito per la seconda volta sulla Torre degli Asinelli, e, mentre arrancavo gradino dopo gradino (e sono cinquecento) mi dicevo “fuma, fuma” e poi la vista dall’alto era talmente bella che mi è venuta voglia di sedermi là e fumare una sigaretta (non l’ho fatto).
Potrei dirvi che ho dormito poco, troppo poco e sto crollando dal sonno.

In realtà volevo solo cambiare font, come faccio ogni mese, e cambiare foto (questa è di Tina Modotti, “Le mani di un burattinaio”, 1929).
E anche dirvi che, come al solito, questa notte, o meglio, nella notte tra lunedì e martedì sono in onda, come sempre, sui 96.3 MHz per chi sta a Bologna. E, per gli altri, qui. Tra l’altro vi farò sentire e intervisterò loro. Che sono bravi, secondo me.

Tutto qua.

Microcosmi notturni

Sono appena tornato dalla radio (grazie a tutti quelli che mi hanno ascoltato), come al solito, con l’autobus notturno. Il 61, appunto. Che per andare dalla radio fino alla zona del centro in cui abito fa un giro enorme e lunghissimo. Ma è ormai più di un anno che lo prendo a quell’ora, e mi sono sempre divertito ad osservare quello che capita nell’autobus.
La fauna dell’autobus notturno bolognese è spesso così composta:

  • prostituta/e, spesso africana/e; se la ragazza è sola si fa i cavoli suoi; se è in compagnia, e le sue amiche non sono troppo stanche, chiacchierano, di solito ad alta voce in quella lingua, credo un pidgin, misto di inglese e lingua madre;gente che torna distrutta da cene, feste, serate fuori: di solito sono seduti uno dietro all’altro e regolarmente appoggiano la testa sulla fine dello schienale del sedile davanti; il dramma è se qualcuno interrompe la catena magica, sedendosi sull’ultimo sedile in posizione eretta;
  • vari matti e/o vecchietti più o meno ciarlieri;
  • studenti e studentesse stranieri.

Provate ora a tentare delle combinazioni: io le ho viste quasi tutte. Giovanotti ubriachi che tentano di flirtare con algide svedesi, svedesi ubriache che tentano di flirtare con stagionati pazzerelli, prostitute che chiacchierano con l’autista, autisti pazzi svedesi… No. Questa no.

È bello e strano il clima che si respira sull’autobus notturno, soprattutto nella tratta che faccio io, perché in mezzo c’è una sosta di cinque minuti al deposito, che allunga ancora il viaggio. Quando l’autobus si ferma, molti si svegliano, non essendoci più il rombo del motore a cullarli. L’autista scende e… chiude le porte. Ci si ritrova quindi in una situazione tipo ascensore, in cui il silenzio è assoluto, come può esserlo nella periferia di Bologna alle 3 del mattino. Per di più in un autobus. Oggi ho pensato: adesso mi alzo e leggo qualcosa a tutti. Così. Poi mi è venuto in mente che già ci penserà Bergonzoni sabato prossimo.

How old are you?

Oggi sembra domenica, e l’aria è tiepida. Andando a comprare del vino (in quella che forse diventerà la “notaenoteca”?) ho incrociato due bambini. Due ragazzini. Insomma, avranno avuto dodici-tredici anni. Risalivano la strada di casa mia verso i Giardini. E fumavano una sigaretta, a tiri brevi, cercando quasi di nasconderla.

Avevano gli occhi bassi, probabilmente stavano marinando la scuola, forse era la prima volta che lo facevano. Forse lui un po’ è innamorato di lei e dei suoi capelli lunghi lunghi. Forse lei viene presa in giro perché esce-con-un-maschio.
Avevano gli occhi bassi. Ma sorridevano e camminavano a gran passi, per rifugiarsi nel parco, lontani da occhi indiscreti. L’ho visto, quanto si sentivano grandi. Ho iniziato a pensare a me, a cosa sono e alla mia età e a che cos’ero quando avevo la loro età.

Mi ha svegliato il saluto dell’enotecaro (!) e il peso delle tre bottiglie di Pinot nero che ho comprato.

Di |2003-09-20T12:17:00+02:0020 Settembre 2003|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , |8 Commenti

Neighbours 2

Mi piacerebbe rimandarvi alla prima puntata della saga, ma purtroppo sono una schiappa con la gestione del template e non ho i permalinks.

“Francesco, ma come parli?”. “Ehilà, mamma”. Imbarazzo. “Che hai detto? Templi? Permanente?” “Ma no, parlavo del templeit che è il modello del mio blog, e che non ha dei link sull’ora. Cioè, quando posto qualcosa…”. Mia madre inizia a diventare terrea. “Ti continui a fare le canne?” “Mamma, ma che c’entrano le canne” “Magari ti ubriachi ogni sera, lì, sul templeit”. “Mamma…” “Che è blog? Ma non era ‘Blob’? Ti piaceva tanto!” “Ma lo guardo ancora e mi piace. Sto parlando di blog, una specie di diario…””Se ti fai la permanente, secondo me, stai male”. Mi arrendo. Ma datemi una mano con i permalinks. Io nel frattempo spiego a mia madre di che si tratta.

Nella mia casetta, al piano di sotto, proprio sotto di me, abita un geometra. O meglio, ha lo studio un geometra. Anche se una domenica mattina l’ho sorpreso sulla porta, un po’ assonnato, in maglietta e boxer. “Amore sul tecnigrafo”. Insomma, il geometra ha la finestra di una parte del suo studio proprio sul pozzo luce dove si affaccia la finestra di camera mia. Questo vuol dire che, per esempio, d’estate, quando abbiamo tutti e due le finestre aperte, è meglio che io non tenga la musica troppo alta. All’inizio per dirmi di abbassare fischiava, e io abbaiavo, di conseguenza. Poi ci siamo conosciuti meglio. E adesso prima fischia, poi dice il mio nome. Io abbaio, ma se me lo chiede gli porgo la zampa. Progressi. Questione di addestramento.

Ho conosciuto il geometra del piano di sotto perché lui, anche se non conta niente, era l’amministratore del condominio. Quindi lui sa e può. Ha una specie di carica onoraria, che ne so, come gli ex-presidenti della Repubblica che diventano poi senatori a vita. Avevo una bicicletta. E la mettevo nel cortiletto del palazzo. Lui mi ha detto che non si poteva, citandomi una delibera condominiale. Io un po’ ho insistito. Lui anche. “Che gliene frega?” pensavo. Ma sarebbe come dire che gli frega dell’Italia a… Esempio sbagliato. Scusate. Insomma, l’ho messa fuori, la bici. E me l’hanno rubata. Ce l’ho avuta con lui, per un po’. Ho pensato di tenere la musica a tutto volume quando cavolo mi pareva a me. Per un po’ l’ho fatto, ma lui si ad un certo punto si è rifiutato di darmi l’osso-di-gomma-che-ne-vado-pazzo. Quindi ho smesso.

Il geometra del piano di sotto ha una strana caratteristica. Quando parla al telefono aumenta automaticamente il tono di voce. Ora, il mio squallido tenore di vita fa sì che, quando lui (e il resto del mondo sul fuso di Greenwich+1) inizia a lavorare, io sia in piena fase REM. E lui, una delle prime cose che fa, è telefonare. Quindi io mi sveglio regolarmente con le sue telefonate. Una delle ultime è andata così. Giuro.

“Pronto, Sandro, ciao, sono M. Bene, bene, tu? Sei tornato, eh? Anche io. No, bene. Senti, Sandro, mi hai fatto quella richiesta? Come… Ma no, Sandro, te l’avevo detto prima delle vacanze, Sandro. Ma Sandro, come. Ma Sandro, non l’hai fatta. Ma come, non te l’ho dett… Mosocc’ ma non… Sandro. Sì che. Sandro. Sandro. Io. Ma no, figurati se me lo sono dimenticato, Sandro. Ma la rich. Sandro, non mi fare. Sandro te l’ho detto prima delle vacanze, figurati se. Sandro. Sandro. No, mi serve oggi, Sandro, che figura ci faccio, Sandro? Ma stai scherzando? Ma secondo te io. Sandro, sto perdendo la. Cosa? No, facciamo. Sandro. Sandro. Domani? Ma mi serve oggi, soccSandro. Te l’avevo chiesto, mi ricordo benissimo. No, alle dodici. Passo io, Sandro. Va bene Sandro. Ciao.” Socc.

Insomma, sono cose che traumatizzano. Ma poi mi sono riaddormentato. Indovinate che ho sognato? No, non Sandro. Ho sognato Filippa Lagerbach e Tori Amos che litigavano perché erano entrambe innamorate di me. Uno dei miei sogni erotici preferiti.

Domenica

Chi mi conosce lo sa (per citare illustri concittadini): io odio le domeniche. Non so perché non le sopporto.
Bologna, di domenica, si trasforma ulteriormente. Famiglie che si tengono per mano (una a una: nessuna catena umana) e vanno a prendere il gelato in centro. Oppure si prende l’autobus e si va dalla periferia verso il centro. E allora si vedono coppie che vanno a pranzo dai genitori o, molto più spesso, signori anziani che vanno a pranzo dai figli. Con, ovviamente, il padre che ha in mano una bottiglia di vino e la moglie un vassoio di paste. Vestiti bene, si chiedono per quanto ancora andranno a trovare i figli. E magari pensano che la nuora, o il genero, proprio non gli è mai piaciuto. Ma non lo dicono, lo pensano.
Bologna, di domenica, è la città dei Giardini Margherita con gente che pattina, gioca a calcio, suona, fuma o va semplicemente a leggere il giornale. E nei prati si trovano le comunità di stranieri: i russi, per esempio. Si siedono per terra, o su qualche panchina e chiacchierano chiacchierano chiacchierano.
A Bologna, di domenica, è quasi tutto chiuso. Rimangono aperti soltanto i negozi dei pakistani, in centro. I clienti sono pochissimi. E finalmente i pakistani possono parlare tra di loro nella loro lingua, e magari smetterla di sorridere (sono sempre sempre gentili e sorridenti: cosa rara negli esercizi commerciali del centro, a parte rari casi) e condividere preoccupazioni, nostalgie, cose buffe successe nei giorni passati.
Fuori dalla stazione, nel piazzale centrale, le cose non cambiano quasi mai. Ma di domenica si ritrovano spesso immigrati dell’est. Stanno lì e chiacchierano. Mi sono sempre chiesto perché si ritrovino davanti alla stazione, con tutti i posti che ci sono a Bologna. A volte penso, in maniera ingenuo-romantica, che queste persone hanno lo spostamento nel sangue. E quindi non c’è luogo più familiare del non-luogo per eccellenza, la stazione.
Non mi piacciono le domeniche. Ma oggi sento che mi fanno tenerezza. Uscirò, forse, per guardarmi in giro. Oppure no, terrò queste mie parole e farò finta che siano quello che c’è fuori.  Buona domenica a tutti voi che mi leggete. Posso ringraziarvi, ancora una volta, per le cose carine che mi scrivete? Grazie.

Di |2003-09-07T14:58:04+02:007 Settembre 2003|Categorie: I Me Mine, There's A Place|Tag: , , , , , , , |1 Commento

La rivolta degli oggetti

Dopo il mio portatile, che ho tentato di distruggere e in parte ce l’ho fatta, altri oggetti tecnologici mi dichiarano la guerra. Il mio telefonino, per esempio, ha smesso di suonare. E il nostro ligio eroe che fa? Va al Nokia Point (brivido e raccapriccio) vicino a casa sua…

…ma che cacchio, disse un lettore del blog. ma tutto vicino a casa sua? il notolocale, la notagelateria, il notonokiapoint…

… per tre volte. Eh sì. Perché evidentemente ci sono milioni di utenti Nokia a Bologna e nel mondo, fatto sta che il Nokia Point è sempre pieno e dentro c’è una sola persona. O almeno così pare. Se poi nascondono gli altri impiegati nel retrobottega, non lo so. Siccome già mi sentivo scemo ad andare al NP (basta scriverlo per esteso, ché mi viene l’orticaria), quando vedevo pieno me ne andavo. Alla fine ieri ce l’ho fatta.

Il ragazzo che mi serve è gentile, ma di quei tecnici che sembra che aggiungano a qualsiasi cosa essi dicano una specie di riferimento stabile, come se esistesse un catalogo universale dei danni-tipici-del-telefonino. È solo per una loro gentilezza che ti dicono “deve cambiare la batteria”, invece che qualcosa come “A4T56 /bis”. Insomma, do il mio telefonino e dico che non si sente più la suoneria. La prima cosa che fa è smontarlo in due nanosecondi (io ci metto minimo un paio di minuti) e dire “Bisogna riprogrammarlo”. Che mi sa tanto di Philip Dick. Prima che faccia un’altra mossa lo fermo e gli spiego meglio il problema. Allora lui si blocca, smonta ulteriormente il mio telefonino e nel frattempo dice qualcosa, con aria grave, come: “Quando questo cellulare smette di suonare, vuol dire una sola cosa”. Con perfetto tempismo mi apre davanti il cellulare. Dentro c’è una macchia marrone. Un bel marrone chiaro, ambrato, per me inconfondibile.

“È annegato”, dice. Poi odora il cellulare. “Vino o caffè”. Poi, come il più consumato dei sommelier, aggiunge. “Ma direi vino”. Due donne sulla trentina ridacchiano. Io anche.
Ma quello non era vino. Era Jack Daniels.
Solo che non mi andava di dirlo in un Nokia Point.

Di |2003-09-04T10:49:33+02:004 Settembre 2003|Categorie: I'm A Loser|Tag: , , , , , , , |2 Commenti

Felicità, dipendenze e piaceri

Forse devo prenderne atto. Ne sono dipendente. Anche stanotte, nonostante sia piuttosto tardi, mi sono guardato su Rai Click un’altra puntata di “Blu Notte”. Era il caso della Croara, questa volta. Un altro caso irrisolto, un delitto commesso da queste parti. Lucarelli un po’ gigioneggia come sempre, ma in fondo è bravo, molto bravo a raccontare le storie. Ecco, uno dei piaceri della vita, per me, subito dopo la triade (non in quest’ordine) “sesso-cibo-sonno” è quello di ascoltare e raccontare storie. Forse per questo scrivo. Forse per questo scrivo qua.
Lucarelli descrive Bologna, una città che conosce bene, in maniera diversa dal solito. Diversa da quella di cui parla Pazienza, diversa da quella delle cronache del ’77, diversa da quella di Brizzi. Vede il lato “paesano” di Bologna, e di conseguenza anche il lato oscuro, che, come ben sappiamo, ogni paese ha. Queste descrizioni mi fanno rabbrividire di piacere, perché ho la sensazione di non conoscerla del tutto questa città che mi ha adottato ormai sette anni fa, e che ho vissuto (per quello che ho fatto) pienamente e senza risparmiarmi.
Bologna ti coccola, me ne sono reso conto oggi, seduto in Piazza Maggiore. San Petronio mi sembrava enorme, eppure la sua facciata ormai così familiare, era affettuosa, e gli altri palazzi della piazza sembravano avvolgermi e abbracciarmi. Talvolta l’abbraccio si fa soffocante, ma talvolta, quando si ha freddo, è così bello coprirsi fino a sentire quasi che ti manca il respiro.
Non so quanto resterò in questa città. Non lo so. Ma so che mi resterà dentro. E non è detto che io non ci ritorni. Io, che raramente torno sui miei passi.
Torno brevemente al caso di “Blu Notte”. I genitori di Lea, la vittima, hanno fatto pubblicare il diario della figlia. In una pagina lei dice che la sua unica aspirazione è essere felice.
Ecco.

Brividini

Ok, ha piovuto. Ma poco. Io, infrangendo le promesse, ho acceso la televisione, ma per vedere qualcosa offerto dalla TV di Fastweb. L’archivio di RaiClick, per la precisione la puntata di “Blu Notte”, condotta da quell’amabile narratore di Carlo Lucarelli, sul caso della Uno Bianca. Sapete com’è, uno vive a Bologna, si informa sulla città e sulle cose che sono accadute qui e nei dintorni. In fondo ci vivo solo da sette anni, no? Beh. Come al solito il tono è un po’ piacione, ma il programma nel complesso è interessante. Mi ha fatto paura.
Mi è venuta la curiosità di sapere qualcosa di più del cosiddetto “Delitto del DAMS”. Anche perché è avvenuto in via del Riccio, non molto lontano da dove sono adesso. E in via del Riccio ci ha abitato un mio carissimo amico fino a poco tempo fa. Ma la puntata pare non essere disponibile.
Penso che potrei stare tutta la notte a guardare quelle trasmissioni. Ma ho finito la birra.
E, in fondo, sono solo soletto in una casa enorme.
Aiuto.

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