Per chi si fosse perso la serata di martedì…
Noi ci siamo divertiti…
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[youtube=http://youtu.be/LsGsbztnqAQ]
http://mediaservices.myspace.com/services/media/embed.aspx/m=102737640,t=1,mt=video
Noi ci siamo divertiti…
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Altre informazioni qua.
Ebbene sì, lettori milanesi del blog (ma ce n’è qualcuno?). Vabbè, comunque: io e il mio libercolo La guerra in cucina sbarchiamo venerdì 15 gennaio alla Libreria Centofioridi piazzale Dateo. Là alle 19 Gianluca Morozzi e Matteo B. Bianchi presenteranno me e i miei racconti, e io li ringrazierò. Accorrete numerosi: ringrazierò anche voi, firmerò le copie, stringerò mani e bacerò bambini e statuette-ricordo.
Peraltro Matteo ha anche recensito il mio libro sul numero di Linus in edicola in questi giorni: se cliccate sull’immagine la vedete grande e potete leggere le belle cose che ha scritto sui miei scritti (ops). Fatevi vivi!
Capita, per diversi motivi, che questo blog si tramuti certe volte in una sorta di agenda dei cavoli miei. Abbiate pazienza e prendete nota, se vi va.
Martedì 10 novembre alle 19 al Circolo ARCI Macondo in via del Pratello a Bologna inizia YouPost, una rassegna organizzata dall’Officina Letteraria Bartleby, in cui scrittori sono affiancati da musicisti per serate di chiacchiere, letture, sbevazzamenti e mangiarini, come si dice. Io sarò accompagnato alla chitarra da Gianluca Morozzi, e andrò a leggere racconti tratti da La guerra in cucina e, udite udite, post scelti dai ragazzi di Bartleby negli archivi di questo blog. Senti l’autore che legge delle Pornovicine! Come suonerà Neighbours dal vivo? Scoprivatelo.
Mercoledì 11 novembre intorno alle 18 e 30 alla libreria Feltrinelli sotto le torri felsinee, invece, ci sarà la presentazione della collana “I libri di Belasco”, diretta da Morozzi (sempre lui), dentro la quale c’è anche La guerra in cucina (sempre lei). Insieme a me, tutti gli autori della collana, il curatore e il misterioso editore.
Bene, mi preparo per andare a Milano a vedere i Massive Attack e per prendere accordi per una presentazione della raccolta a gennaio, nella metropoli meneghina. Un’ultima cosa: è uscita la prima recensione della raccolta. La trovate qua.
Lo voglio quel senso di bellezza e di mistero che [i racconti] hanno ora, ma non voglio perdere di vista, perdere il contatto con i piccoli nessi umani che avevo visto nella prima versione che mi hai mandato. In qualche modo sembravano essere più pieni, nel senso migliore, in quella prima revisione.
Raymond Carver, Principianti, Einaudi, Torino 2009, p. 287. Traduzione di Riccardo Duranti.
Ecco, i piccoli nessi umani, che sicuramente lo stesso Lish aveva tirato fuori all’inizio del suo lavoro. Ecco cosa c’è in più in Principianti e Cattedrale rispetto a Di cosa parliamo. I nessi umani. Qualcosa che non è poco per nessuno, figuriamoci per Carver, che di questi nessi, tessuti in manciate di parole, ha fatto grande la sua scrittura.
Certo, il problema se mi ricomprerò o meno la discografia dei Beatles tra qualche mese permane.
Non avevo mai sentito parlare di Kevin Canty: colpa mia avere aperto solo un paio di settimane fa, dopo un sonno di un annetto e mezzo nella mia libreria il suo primo e finora unico libro tradotto in italiano, Tenersi la mano nel sonno, una raccolta di racconti pubblicata (ancora una volta) da minimum fax.
Be’, miei piccoli lettori: questo libro mi ha dato i brividi.
E’ vero, mi piace molto la letteratura americana e la forma del racconto, più o meno breve. Come molti di voi, amo Carver e la sua maestria nell’usare solo ed esclusivamente le parole necessarie a quello che sta narrando. Per molti versi, Canty assomiglia molto a Carver: anche lui parla di pesca, di boschi, di fiumi e laghi. Non è uno scrittore metropolitano, insomma. A differenza di Carver, però, Canty rischia, si impenna, si inarca e colpisce nel giro di mezza riga. Il suo stile (che se proprio volete possiamo anche definire minimalista, per quello che può servire) è asciutto, ma fortemente dinamico: spesso le sue frasi sono solo successioni brevissime di nomi, o aggettivi, o entrambe le cose. Spesso sono frasi ellittiche del soggetto. Eppure, in ogni racconto, Canty ci fa sentire sulla pelle la brezza, l’odore degli alberi e la paura.
E i personaggi! Sono talmente vivi che paiono balzare fuori dalla pagina: Canty li coglie quasi sempre in un momento di dolore, ma non si tratta di un dolore da shock, bensì un dolore che va vissuto, volenti o nolenti, e che i caratteri di cui parla si sforzano di superare, pur essendoci immersi. Si tratta del dolore necessario per arrivare all’epifania, sì, proprio quella di Joyce. E non crediate che sia un caso che, in questo stesso post, accosti Canty a due enormi nomi della letteratura del ventesimo secolo. Leggetelo, ve ne prego. E poi, se vi va, scrivetemi. Sono davvero curioso di sapere che ne pensate di questa magnifica raccolta.
(…) mai parlammo di quel pomeriggio, o di Kendellan, mai più parlammo l’uno con l’altra apertamente. Lei era sempre mia madre e io suo figlio. Ma dopo di allora tutto sarebbe stato in codice, ambiguo, un silenzio pieno di domande non fatte, parole senza risposte. E ora sono cresciuto, mia madre è morta e mio padre è morto. E questa è tutta l’infanzia che mai avrò.
Kevin Canty, “Il vestito rosso”, in Tenersi la mano nel sonno, minimum fax, 2007, p. 81, trad. di Veronica Raimo e Fabio Severo.
Non faccio mai troppo caso alle citazioni che ci sono sulle copertine dei libri: frasi come “Con questo romanzo Pinco Pallino riscrive la letteratura contemporanea” mi irritano e tendono a non farmi leggere il volume in questione. Ma so di essere un’eccezione. Come lo è lo stralcio di una recensione del “Washington Post Book World” posta nella seconda di copertina di Tre vite, ultimo libro di Rick Moody pubblicato in Italia da minimum fax. Perché effettivamente quello che chiude il volume, “Albertine”, è “uno dei racconti più belli che siano stati pubblicati nel nuovo millennio”.
Devo dire, però, che Tre vite non inizia bene. Il primo dei tre racconti lunghi che lo compone, “L’armata Omega”, ruota eccessivamente intorno ai deliri del protagonista, un ex funzionario ministeriale americano che vede intorno a sé, sull’esclusiva isola dove si è ritirato dopo la pensione, gli indizi di un complotto ai danni della sicurezza nazionale. Eccessivamente lungo, seppure stilisticamente molto buono, il racconto non funziona del tutto, perché fa troppo gioco sulla caratteristica che accomuna i tre scritti: il “tradimento” del lettore da parte dell’io narrante (nel caso di “L’armata Omega” e di “Albertine”) o comunque del fuoco della narrazione.
Accade lo stesso anche in “K&K”, il secondo racconto, che parla di alcuni misteriosi e minacciosi biglietti infilati nella buchetta dei suggerimenti di una piccola azienda statunitense. In questo caso Moody usa la terza persona, ma l’assunto di base non cambia. Il racconto è però sostenuto da una narrazione più strutturata e tesa, e da un’ambientazione “aziendale” tutto sommato divertente.
E poi, “Albertine”: praticamente un capolavoro, che, è vero, risente molto delle oscure profezie di Philip Dick, ma del resto parlando di una sostanza che fa letteralmente rivivere i ricordi, sensazioni, profumi e sapori compresi, e ambientando il tutto in una New York rasa al suolo per metà da un attentato terroristico atomico, c’è poco da fare. Il racconto, di nuovo in prima persona, parte come una sorta di “inchiesta” che il protagonista deve fare sulla nuova droga, chiamata appunto Albertine. E anche in questo caso c’è una comunanza con gli altri due scritti, che in qualche modo riformulano lo stesso principio di “ricerca”. Poi, però, con uno stile che si fa via via sempre più fluido e serrato, Moody ci conduce nei labirinti delle potenzialità (o della realtà?) di questa droga, non avendo paura di tirare fuori le teorie sul tempo e gli studi junghiani sull’inconscio collettivo. Ci si rifugia nel passato perché il presente è troppo triste, perché sono morte milioni di persone, perché non c’è lavoro e Manhattan è un’enorme discarica (vi risparmio gli ovvi richiami al post 11 settembre). Ma se il passato si può rivivere, allora lo si può anche modificare per avere un presente migliore. E se si prende una dose di Albertine quando si è in un ricordo, cosa succede? L’acquisto del libro varrebbe anche solo per queste dense e altissime novanta pagine che lo chiudono.
Cos’è la memoria? La memoria è il groove. Sono un supergruppo di deejay che sparano un groove, e sei tu che balli, insegui le disperazioni del cuore, insegui qualcosa che non c’è più, è così effimero che lo riconosci solo dalle tracce che lascia, come una certa corda pizzicata in un certo modo raccoglie il tuono dei secoli, come il sapore delle ciliegie fresche rievoca indolenti coppie romantiche su portici ottocenteschi, tutte le storie del passato che ti vorticano attorno. La memoria è il groove, il solco, la bugia, la storia che non capisci mai fino in fondo, il posto migliore in cui stare. La memoria è la puttana, la fabbrica di vergogna, la maledizione e la consolazione.
(Rick Moody, Tre Vite, minimum fax, Roma, 2008, pp. 223-224. Trad. di Adelaide Cioni e Francesco Pacifico)
Tempo fa avevo parlato di novità editoriali in uscita che mi riguardavano, una volta tanto, come autore.
Beh, intanto la prima. È uscito, per Manni editori, Quello che c’è tra di noi, una raccolta di racconti di vari autori – tra cui ci sono anche io, ma dai – che trattano di amore omosessuale. È un volume che esce in occasione del Pride di Bologna, e che verrà presentato domani alle 1830 al Cassero della città felsinea nella quale risiedo ormai da dodici anni (la casa nuova compie invece, in questi giorni, 2 anni, io ne ho fatti trenta da una decina – di giorni).
Venite, accorrete numerosi, comprate il libro, se vi va. E se leggete il mio racconto, sono sinceramente curioso di sapere cosa ne pensate: non solo da etero ho scritto di amori omosessuali, ma ho parlato di donne. Triplo salto mortale.
P.S. Per le prossime novità, controllate qua, nei prossimi giorni. Ma vi farò sapere.
Chi sono? Vi chiederete. Ma i nomi dei sette nani, secono lo stupefacente Biancaneve di Donald Barthelme. Ho aspettato di avere il tempo e la calma necessaria per leggere il terzo libro di Barthelme che minimum fax ha ben pensato di ripubblicare, dopo Ritorna, dottor Caligari! e Atti innaturali, pratiche innominabili. Ero un po’ dubbioso, visto che i due volumi citati sono di racconti e, considerando la fortuna delle riedizioni dell’opera del grande scrittore americano, pare che Barthelme sia ricordato più per questo genere letterario che per altri, sebbene abbia scritto anche un altro romanzo, una favola per bambini e molti saggi.
E invece funziona tutto alla perfezione: come al solito, la scrittura di Barthelme non è facile, come è lecito aspettarsi da uno dei principali esponenti del postmodernismo letterario americano. Ma questa difficoltà è ampiamente compensata dall’incredibile arguzia e ingegnosità del libro. La fiaba di Biancaneve è presa come riferimento, come testo-base che diventa esplicito nel questionario rivolto al lettore che interrompe il libro a metà (una delle domande che ci viene rivolta è “Dopo avere letto fino a questo punto ha capito che Paul incarna la figura del principe?”). Ma l’attenzione di Barthelme è tutta sulla protagonista, bellissima, amata disperatamente dai sette nani (che di lavoro creano omogeneizzati e lavano palazzi), osteggiata dalla perfida Jane e insidata dal volgarissimo Hogo de Bergerac.
Il minimo gesto è fonte di lunghe disquisizioni, che si interrompono bruscamente così come sono iniziate, ci sono analisi apparentemente minuziose di psicologie e comportamenti che si risolvono in un nonsense, discorsi a mo’ di comizio, momenti surreali altissimi.
Ma la struttura del libro – e non potrebbe essere altrimenti – è un insieme di frammenti brevi, legati dal continuo rimando che il lettore fa (anche involontariamente) all’icona di Biancaneve, che Barthelme rielabora e distrugge con raffinatezza e anarchia. Un capolavoro, davvero, che non dimostra minimamente i suoi quarant’anni. Ma, d’altro canto, certi romanzi e certi personaggi sono immortali.