Archivi mensili: Novembre 2011

Meglio di McGyver

Lo smartphone che ho avuto con il nuovo abbonamento di telefonia mobile un anno e qualche mese fa mi ha spesso dato dei problemi. Anche delle gioie, eh, ma perlopiù mi ha fatto penare. Potete immaginare quando, sabato scorso prima di un’intervista, in mezzo a tremila cose in sospeso, mi sono reso conto che lo smartphone non si caricava più. Stacca, riattacca, aprilo, togli la batteria, riprova, di’ le cose al contrario, lascialo riposare, sii indifferente, sbattilo per terra, chiama un esorcista. mettilo nel forno, usa tutte le prese di corrente della casa. Niente.
Ho usato quindi un telefono di riserva e, ieri mattina, ho iniziato il lungo percorso di riparazione. Sono andato dove ho fatto l’abbonamento. Mi hanno dato l’indirizzo del centro di assistenza. Ho preso un autobus e sono arrivato al numero 4 della strada in cui c’è l’assistenza. Che è al numero 84. Ho fatto un chilometro e passa a piedi, nel mezzo del nulla e sono arrivato alla sede indicata, che sfoggiava sulla porta tutte le marche di cellulare tranne la mia.
“No”, mi ha detto il ragazzo quando è arrivato il mio turno, “noi per il tuo cellulare facciamo solo da centro di raccolta. Lo spediamo all’assistenza italiana. Poi là risolvono entro 20 giorni lavorativi. Ah, ovviamente perdi tutti i dati. Hai fatto un backup?”.
Spesso mi arrendo al destino, ma in questo caso ho voltato i tacchi, fatto più di un chilometro a piedi, perso un autobus, salito su un altro. Sono arrivato a casa, ho preso delle forbicine e ho rimesso a posto i contatti dello smartphone.
Ora funziona.
Sigla.

[youtube=http://youtu.be/eKdkSffzMZw]

Di |2011-11-15T08:00:00+01:0015 Novembre 2011|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |0 Commenti

Ritorno alle radici


Se qualcuno mi avesse detto “Tori Amos è tornata alle sue radici”, musicalmente parlando, mi sarebbe preso un colpo: già è un po’ che la mia beniamina non tira fuori un album convincente, ma addirittura arrivare ai “fasti” cotonatissimi di Y Kan’t Tori Read mi sarebbe parso esagerato, persino come suicidio pubblico. Sebbene l’ultimo Night of Hunters sia quanto di più lontano possibile dall’esordio della musicista, è un disco che va a pescare ancora prima: le notizie che sarebbe uscito per Deutsche Grammophon erano un chiaro indizio, ma che l’album avesse un’impronta così classica è stata una sorpresa.
Curioso, poi, il fatto che il titolo del primo disco si riferisse alle lamentele degli insegnanti dell’istituto di musica prestigioso che Tori frequentò da bambina-prodigio sul fatto che non volesse leggere la musica (classica, ovviamente). E invece la pianista la riprende in mano, aiutata da un illuminato produttore dell’etichetta tedesca (ce lo raccontano nel dvd allegato al disco), e prende secoli di musica per creare un ciclo di canzoni… be’, un po’ troppo alla Tori Amos, tematicamente parlando, ma interessanti. Il tutto con voce, piano, fiati e quartetto d’archi.
Quest’ultimo è anche in tour con la musicista: qua sopra potete leggere la recensione che ho scritto sul concerto milanese di più di un mese fa per il numero di Jam in edicola questo mese. Tre su cinque, che è anche il voto che darei al disco. Non sappiamo se Tori ora sappia leggere la musica classica o meno, ma la suona bene. Che sia la strada buona?

Il potere del manifesto

L’influenza che mi ha colto nel fine settimana mi ha permesso di avere un po’ di tempo per me: con somma gioia, quindi, ho preso in mano un volumone acquistato in Inghilterra quasi un anno fa. Si chiama The Art of Hammer e, lungi dall’essere un trattato di storia degli utensili, raccoglie i manifesti più belli della casa cinematografica inglese. Versioni britanniche e statunitensi, ma anche italiane, tedesche, francesi e belghe di affiche di film come La maledizione di Frankenstein, Dracula il vampiro, La mummia e tanti altri.
Dopo essermi perso per più di un’ora nei colori sgargianti delle riproduzioni, tra canini insanguinati e decoltè, mi sono reso conto con stupore che, decadi dopo, quei manifesti (seppur ridotti rispetto alle dimensioni originarie) continuavano a funzionare: mi avevano ipnotizzato e desideravo ardentemente vedere o rivedere i film a cui corrispondevano.
Poi uno dice: la magia del cinema.

Di |2022-10-24T09:08:15+02:0010 Novembre 2011|Categorie: Act Naturally, Paperback Writer|Tag: , , , , , , , , |Commenti disabilitati su Il potere del manifesto

Efficienza fiscale

No, diciamolo, perché se no qua non ci accorgiamo mai dei progressi che si fanno: l’altro giorno mi è arrivata una raccomandata dalla Agenzie delle Entrate. Ora, quando arriva una missiva di tal guisa, è bene spaventarsi, perché solo raramente la suddetta busta contiene, che ne so, un rimborso. Solitamente la lettera è del tipo “Ricordati che devi morire”, oppure è una multa.
Avrei quasi preferito un bigliettino “memento mori” scritto a mano, ma invece no. “Irregolarità nella dichiarazione dei redditi 2010”. Multa. Di dodici euro e cinquanta centesimi. Che sono andato a pagare mezz’ora dopo avere ricevuto la raccomandata, ché è bene non scherzare con certe Agenzie.
In fondo sono contento di questa sanzione: perché se l’ho ricevuta io, che guadagno neanche novecento euro al mese, chissà quanti soldi entreranno nelle casse dello Stato dai milionari: un errorino l’avranno fatto anche loro, no?

Di |2011-11-09T08:00:00+01:009 Novembre 2011|Categorie: I'm A Loser, Taxman|Tag: , , |4 Commenti

Cosa resterà di questi anni '80

Quando ISBN Edizioni mi ha mandato Player One, il romanzo d’esordio di Ernest Cline (supernerd, sceneggiatore di Fanboys, campione di slam poetry e possessore di una DeLorean), mi sono preoccupato: come possono pensare che legga seicento e passa pagine di libro in pochi giorni, in tempo per presentarlo a Bologna? La preoccupazione è svanita nel momento in cui l’ho aperto: le pagine sono volate, non appena ho conosciuto il protagonista del romanzo, Wade, un nerd appena maggiorenne che, come la maggior parte degli abitanti della Terra tra una trentina d’anni, vive per lo più collegato a OASIS, una simulazione di realtà (dove si gioca, si studia, si fa sesso, si va a scuola, si ammazza, si muore) ideata da un geniale incrocio tra Wozniac e Jobs, James Halliday. Quando il creatore di OASIS, unica speranza – per quanto fittizia – di un pianeta ridotto al lumicino, muore, indice la caccia al tesoro più grande della storia: chi troverà l’Easter Egg nascosto in OASIS (un universo fatto di migliaia di pianeti) erediterà il sistema stesso e le fortune del suo creatore. Inizia quindi una sfida per lo più incentrata su quiz, giochi e prove legate all’immaginario pop anni ’80, con richiami continui a musiche, film, e – ovviamente – giochi (per computer e non) di quella decade.
Della trama non vi racconto nulla di più (ci penserà il film che ne verrà tratto a rovinare tutto), ma del libro è bene parlare un po’: raramente un romanzo mi ha così immediatamente preso e divertito. Le pagine si divorano, si sorride spesso e, sebbene dopo la metà il ritmo si ingolfi un po’ e il finale sia alquanto prevedibile, leggere Player One è uno spasso. Soprattutto per chi, come me, ha vissuto da ragazzino gli anni ’80, è cresciuto con i vari Goonies, Wargames e Indiana Jones, sebbene io non sia stato un uguale appassionato di giochi di ruolo e videogame. Per Wade gli anni ’80 sono un’epoca esotica, che lui e i suoi sodali Gunter (Egg Hunter, cioè cacciatori di “uova”, coinvolti nella gara globale al centro del romanzo) conoscono attraverso musiche, videoclip, serie televisive e videogame. Per Halliday gli anni ’80 sono la giovinezza. Due modi di mitizzare un periodo storico. Proprio dal punto di vista storico, però, gli anni ’80 (come dice giustamente Matteo Bittanti) sono l’ultimo momento in cui i nerd sono stati emarginati: infatti viviamo oggi in un mondo dominato da nerd e geek, dove smanettoni e fan accaniti (di qualsiasi cosa) sono posizionati ben in alto nella scala sociale. Venticinque anni fa, rincoglioniti dal lato più luccicante della decade in questione, non l’avrebbe detto nessuno.
In Player One, dunque, gli anni ’80 sono il riferimento principale, tuttavia si sfora anche più indietro nel tempo, quando si citano serie giapponesi degli anni ’50, ma raramente più avanti: nel romanzo non compare alcun riferimento a qualcosa che sia stato creato oltre il ventesimo secolo. Perché? Forse perché negli ultimi anni, come dice Simon Reynolds in Retromania, viviamo in un continuo richiamo a ciò che è stato, senza effettivamente fare?
E perché, nonostante il finale conciliante, nessuno fa una mossa per operare nel mondo reale, che tra crisi energetiche e degli alloggi, povertà e violenza, di una mano avrebbe anche bisogno? C’è un lato criticabile nella cultura nerd: come in tutte le sottoculture il nerd è autoreferenziale ma, soprattutto, vive nel suo mondo (o, come direbbe l’amico C., “è felicemente prigioniero del suo immaginario”). Facendo un balzo di lato, forse neanche troppo composto, ci si chiede se uno dei lati negativi della cultura nerd sia quello di avere contribuito a ridurre le persone alla clausura volontaria, al non uscire di casa e affrontare il mondo: quando leggo delle rivolte arabe (e oplà, atterraggio maldestro) penso che la reale differenza tra i giovani italiani, europei e statunitensi e quelli dei Paesi che stanno provando a fare qualcosa è che i ragazzi egiziani, tunisini e algerini non hanno armi di distrazione e, soprattutto, abbiano prime necessità da conquistare. Quando non si ha da mangiare, si capisce, risolvere uno schema di PacMan o finire l’ennesima stagione di una serie TV è cosa di ben poco conto.
Eppure, nel mondo reale immaginato da Ernest Cline, Wade e i suoi amici fanno pochissimo: sì, una delle protagoniste, Art3mis, dice che vorrebbe dare i soldi del premio alla popolazione del globo per risollevarlo dallo stato in cui si trova, ma la cosa suona come un segno di spunta alla voce “impegno sociale”. Insomma, non vorrei che ci fossimo già dentro la Terra preconizzata da Cline: per ora, di OASIS qua non c’è traccia.

Ernest Cline sarà mio ospite a Maps domani pomeriggio e domani sera, insieme a Luigi Bernardi, presenteremo Player One a Modo Infoshop, a Bologna.

I know a song to sing on this dark night

Esce oggi Crazy Clown Time, di David Lynch: sebbene non si tratti della prima incursione del regista in ambito musicale (basti ricordare che Lynch ha messo le mani nello splendido Dark Night of the Soul, oltre che in svariati album, per non parlare delle colonne sonore dei suoi film e corti), questo è il primo disco firmato tutto da David Lynch, che lo suona insieme a Dean Hurley, ma soprattutto lo canta.
L’uscita del primo singolo, “Good Day Today” (che ha un video, non troppo bello, realizzato dal vincitore di un concorso indetto dallo stesso Lynch), sono stato sviato completamente: ero convinto che il disco si sarebbe rivelato completamente costruito su quei ritmi electro morbidi e che la voce di Lynch fosse un cameo, un’eccezione. E invece, sebbene l’apertura del disco sia affidata alla riuscita “Pinky’s Dream”, con l’ormai onnipresente Karen O, le seguenti 13 tracce vedono un uso multiforme della voce dell’autore. Una volta è con l’eco, un’altra col vocoder, un’altra ancora resa metallica e quadrata. Ecco il vero debutto del disco: la voce di Lynch. Una voce che pensavo di non riconoscere, ma che ho individuato subito (con stupore) all’uscita della prima anticipazione dell’album.
Allora però non mi sbagliavo solo sulle parti vocali, ma anche sui timbri: Crazy Clown Time è basato spesso, sì, su tappeti e ritmiche elettroniche, ma ci sono diversi brani suonati: solo una batteria e una chitarra, spesso piena di riverbero, che incede lenta su accordi ondeggianti (“Football Game”, “The Night Bell With Lightning”, l’unico strumentale del disco), come se si trattasse di una versione agonizzante di un lento da ballare nella penombra dell’One Eyed Jacks o, chissà, nel nuovissimo Club Silencio, aperto da poco a Parigi.
Non è un caso citare il bordello di Twin Peaks, perché è impossibile separare la musica di Lynch dal suo mondo visivo, oltre che – ovviamente – sonoro. Tutto Crazy Clown Time è inquietante: il titolo del post è preso dal testo di “Noah’s Ark”, ma provate a sentire il brano (tutto il disco è ascoltabile sul sito della NPR), che arranca su una voce spezzata e poi risolve dicendo che la canzone di cui si parla “è la canzone dell’amore”. O anche la titletrack, che narra il punto di vista di un bambino “su una festa in cortile”, dice la pur bella recensione della Radio Pubblica statunitense. Ehm, no: Suzy e Molly si strappano le camicie, Buddy rovescia addosso alle donne della birra e poi sputa e urla forte. Non si tratta esattamente di un barbecue tra vicini.
La voce di Lynch, quindi, è al centro di tutto, anche dell’ossessiva litania al vocoder di “Strange Unproductive Thinking”, del blues distortissimo di “I Know” (altro video, migliore, “realizzato” con la stessa modalità del primo), delle atmosfere “badalementiane” di “Speed Roadster”, di ogni storia narrata con assoluta serietà e normalità. È proprio questa attitudine che attira da sempre l’ascoltatore e lo spettatore nel mondo di Lynch: dove sembra tutto normale, perché tutto viene presentato in maniera apparentemente canonica. Le canzoni hanno una struttura riconoscibile, i film sono girati con rispetto assoluto (scena per scena, si intende) per le regole basilari della grammatica: eppure, nascosto tra le ombre c’è un orecchio in un prato, un misterioso ciondolo a forma di gong, una stanza rossa, un sussurro inquietante, talvolta un cantato stridulo che parla d’amore. Questi tipici indizi lynchiani sono arricchiti dal fatto che, in questo “artefatto”, Lynch non si limita a mettere in scena, ma interpreta: diventa l’amante depresso, il bambino, il folle, mettendosi in prima fila. Ecco perché la voce di Lynch è il vero debutto di questo disco.
Crazy Clown Time non è un capolavoro, perché è troppo lungo, tanto per citare il primo difetto che balza alle orecchie, e non tutti i brani sono riusciti: è un album faticoso, che però ripaga l’ascoltatore quanto più egli vi si lascia andare. Così come non si può guardare una puntata di “Rabbits” stirando, né perdere l’attenzione durante la visione di un qualsiasi lungometraggio di Lynch, è fuorviante cercare di capire questo disco senza dedicargli completamente l’ora abbondante della sua durata, magari cercando di capire o intuirne i testi mentre lo si ascolta. Dopo ciò, a prescindere dal vostro giudizio, di una cosa sarete certi: questo album non è un bluff, o il curioso hobby di un geniale e bizzarro visionario. Questo album è David Lynch, come lo è The Alphabet, INLAND EMPIRE e le previsioni del tempo che ha curato. Prendere o lasciare.

Le parole di altri

È da giorni che penso a Renzi e allo show alla Leopolda di Firenze, ma non trovo le parole per dire, ancora una volta, quanto sia deluso da tutto: dall’elegante vuoto pneumatico, da personaggi messi là perché “Oh, hai visto, c’è anche _____”, da mancanza di contenuti. Per fortuna le parole le ha Leonardo:

Forse è un’esigenza mia: io, di fronte a Renzi, vorrei concentrarmi sui contenuti. La cosa mi risulta faticosa perché tutt’intorno a Renzi continua a vorticare una coreografia che magari è irrilevante, eppure sembra studiata apposta per dar fastidio a me: cioè è proprio come se dietro la Leopolda ci fosse un team di strateghi della comunicazione che, per nessun motivo al mondo, si fossero detti: mettiamoci dentro tutto quello che può risultare molesto a Leonardo, avete presente? Quel blog che fa sì e no mille accessi. Per cui: Jovanotti. L’autocoscienza di Baricco, uno che si presenta ciao non voglio fare il presidente. E meno male, sennò al Teatro Valle Occupato dovresti mandarci i carri armati. Il frigorifero Smeg che fa pendant col Mac. (Donde il dubbio: ma la Smeg ha capito tutto perché fa i frigoriferi a forma di Mac o è Steve Jobs che…) Potrei andare avanti a lungo, però non vorrei farne una questione estetica. Anche Veltroni aveva intorno a sé un’estetica che mi urticava, ma non era quello il suo problema. Il problema non era il suo ridurre il Novecento a figurine: in fondo era una cosa anche simpatica, funzionale a un certo tipo di divulgazione eccetera. Il problema è che sotto la figurina non c’era niente: che quando Veltroni si ritrovò a dirigere il PD, per sei mesi non fece niente. Io vorrei capire cosa farebbe Renzi e non m’interessa se Jovanotti gli piace o no.

Torna in cima