Act Naturally

Guardare e non parlar(n)e

Da dieci anni, ormai, per me vedere un film è legato, nella maggior parte dei casi, a doverne poi parlare o scrivere. Questa volta, però, non farò altro che consigliarvi questo film: si chiama L’uomo fiammifero, ed è diretto da Marco Chiarini, un giovane regista abruzzese. E’ una fiaba, un film dichiaratamente per ragazzi, che ti incanta dopo dieci minuti e di cui, alla fine, ami anche le imperfezioni. E’ un film finanziato dagli spettatori, che ha attratto anche Francesco Pannofino (interpreta uno dei ruoli principali), che trabocca di trovate e fantasia. E’ un film artigianale, senza essere post, avant, chic: è artigianale come una sedia o una mortadella. Roba, insomma, che esiste solo per lo scopo che ha.

Marco Chiarini, con L’uomo fiammifero, vuole raccontare bene una bella storia con i mezzi del cinema. E ci riesce alla grande. Anni fa, nove per la precisione, mi è capitato di condividere una stanza con Marco e altri, in occasione del Sulmona Film Festival. Mi dispiace di non ricordare alcuni momenti precisi: di Marco mi sovviene solo un umorismo surreale e continuo nei confronti del mio cognome, che venne infine scomposto e ridotto a pura sequenza di suoni tale che la sua ultima mail, di sei anni fa, eh, inizi con “Ciao Roland Garros, come stai?”. A Sulmona Marco ci è tornato l’anno scorso, e si è portato a casa il Premio della Giuria. Qualche mese prima era tra i candidati al David di Donatello come miglior esordiente.
Ricordi personali e riconoscimenti ufficiali a parte: vedetevelo. L’altra sera mi ha letteralmente risollevato da una giornata faticosissima. Anche solo per questo mi ci sono già affezionato.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=dxx6bYeRS4s&fs=1&hl=it_IT]

Di |2011-02-22T08:00:00+01:0022 Febbraio 2011|Categorie: Act Naturally|Tag: , , , , |0 Commenti

Una possibilità per documentarsi

Ma come, ho pensato: io che segnalo un sacco di cose mie su questo blog, in sommo disprezzo a ogni contenimento dell’ego, mi sono dimenticato di piazzare l’ennesimo link autopromozionale?
Rimediamo: da qualche mese collaboro con la Pampero. Non mi pagano in bevande, se no chissà che fine facevo, e non faccio l’assaggiatore. Insieme all’amico-di-lunga-data F. e a validi collaboratori, scrivo per lo più di cinema. Niente di nuovo sul fronte, direte voi, vista la trasmissioncina apposita. Sì, però Pampero Fundaciòn si occupa di documentari. Ed ecco che l’interesse un po’ aumenta, visto che in Italia il documentario ha trovato o ritrovato di recente un po’ di attenzione da parte degli addetti ai lavori e della società intiera.
Qui c’è il mio ultimo pezzo, uscito alla fine della scorsa settimana, sulla meravigliosa coppia Kinski-Herzog. Ma ve ne sono molti, molti altri firmati dal resto della redazione che meritano una lettura attenta.

Giochiamo che…

Venerdì ho visto uno spettacolo che mi ha fatto rimanere con gli occhi spalancati sul palcoscenico, tranne quando li ho asciugati per le risate sguaiate che ciò che vedevo mi provocava. Si chiama Duel, ed è opera di due straordinari musicisti, Laurent Cirade al violoncello e Paul Staïcu al piano. In un’ora e venti i due hanno letteralmente giocato con la musica, suonando in maniera bizzarra i rispettivi strumenti (a cui si sono aggiunti un violino, un didjeridoo, diverse percussioni e una specie di celesta), ma trasfigurando gli stessi. Per cui il violino è diventato un poppante, il pianoforte un bancomat, il violoncello una chitarra, uno spiedo da arrosto e una donna da conquistare. Lo stesso trattamento è stato riservato alla musica, da Mozart a Lou Reed, da Boccherini a Grieg: tutto scomposto, rimescolato, usato per giocare, appunto.
Lo spirito di Duel è esattamente quello del gioco più puro, del “fare finta che”, del recitare (jouer). E ciò che i due destano è meraviglia, stupore e fascinazione totale. Da domani sono a Milano: non perdeteli.

[youtube=http://youtu.be/VwZv7iq_PW0]

Di |2011-02-07T08:00:00+01:007 Febbraio 2011|Categorie: Act Naturally|Tag: , , , , , , , |0 Commenti

Non chiamarmi terremoto

Quanto si parla a vanvera del terremoto che ha colpito l’Abruzzo più di un anno fa? Un sacco. Ora, non è che le immagini siano garanzia di veridicità, ma andare sul campo e parlare con la gente, be’, serve. Per questo vi segnalo, qua, Non chiamarmi terremoto, un documentario che, scrivono dalla produzione,

non è un’inchiesta su cosa ha funzionato e cosa no prima, durante e dopo il terremoto di l’Aquila. 
Naturalmente vengono fuori anche elementi, riflessioni e narrazioni su questo, ma il nostro film vuole ottenere un altro risultato: vuole dare a tutti, a partire dagli studenti delle scuole medie e superiori, informazioni e elementi utili a prevenire i disastri causati dai terremoti. 
Prevedere quando e dove esattamente ci sarà un terremoto, e di che entità, oggi non è possibile. Ma lavorare per ridurne gli impatti, per evitare crolli e morte, per ridurre il rischio di annientamento economico e sociale associato a disastri come il terremoto di l’Aquila, questo sì, questo è assai possibile. E dipende, anche e in buona parte, dalla consapevolezza da parte dei cittadini tutti di rischi, regole, comportamenti che possono ridurre i danni. Esigere che un edificio sia ben costruito, prevedere spazi di fuga e misure di emergenza, non permettere abusivismi e cattive gestioni delle ristrutturazioni, delle costruzioni, della pianificazione di un territorio, controllare i propri amministratori e coloro che sono delegati a fare le scelte in materia di sicurezza sismica e di gestione delle emergenze…  Sono molti i punti dove anche un cittadino, meglio se riunito in una collettività consapevole e responsabile, può intervenire.
Siamo convinti che questo film possa dare agli studenti, alle loro famiglie e quindi alle comunità locali informazioni e motivazioni utili per non trovarsi impreparati e per non rimanere passivi in attesa del prossimo terremoto.
Per fare questo è necessario che il film arrivi nel maggior numero di scuole medie, comunità, emittenti possibili e noi ce la stiamo mettendo tutta.
Abbiamo però bisogno di aiuto: il progetto non è a fine di lucro, ma naturalmente ha dei costi vivi, di lavoro e di materiali, che non riusciamo a coprire interamente da soli. Stiamo cercando finanziamenti pubblici e privati, ma abbiamo deciso anche di provare a rivolgerci direttamente agli amici, ai colleghi, agli insegnanti, ai cittadini, alle famiglie. A tutti quelli che pensano che questo video possa essere utile se gira tra le scuole, se arriva ai ragazzi, se arriva sui media e sulla rete.

Orsù, guardate il trailer e, soprattutto, andate sul sito del documentario per saperne di più su come diffonderlo e sostenerlo.
[youtube=http://youtu.be/70A4KlBVuVw]

The Residents, The Texas Chainsaw Massacre e l'inossidabile Sigmund

Non sapevo davvero cosa aspettarmi dal concerto dei The Residents di venerdì scorso all’Estragon. La band, in attività da una quarantina scarsa d’anni, è davvero uno dei casi più strani della storia della musica del secolo scorso. Non si sa chi siano, non rilasciano interviste, non appaiono mai senza maschere e, soprattutto, da decine di anni fanno esattamente la musica che vogliono, senza alcun tipo di compromesso, perseguendo la loro visione artistica (e quanto è bello usare questo termine quando ha senso).
Il locale alla periferia nord di Bologna, l’altra sera, si presentava già in maniera diversa dal solito: tutti seduti, un palco che ricordava una sorta di salotto, con tanto di abat-jour, televisione e poltrona. Tutti si chiedevano come sarebbero apparsi sul palco Randy e soci (i nomi li sappiamo, ma vuol dire ovviamente poco). Vestiti da conigli? Nel classico costume a forma di globo oculare?

Poco dopo le 22, i tre Residents rimasti hanno fatto la loro comparsa: Randy con una calotta di gomma che gli copriva metà faccia e gli dava le sembianze di un vecchio dai capelli lunghi e l’aria spettrale, gli altri due con delle maschere nere e parrucche. Ed è iniziato lo spettacolo. Già, perché dire che quello della band californiana (si sa anche questo) sia un concerto è scorretto, non solo riduttivo. La musica e le “canzoni”, si alternano a video e lunghe narrazioni di Randy: tutto è esplicito. “Benvenuti nel nostro salotto, oggi vi racconterò delle storie. Alcune di esse sono spettrali.”
E via con gente sepolta, il “popolo dello specchio”, apparizioni e fantasmi, tutte storie narrate come si farebbe intorno a un camino, ma con un livello di inquietudine, trasmesso dall’impatto visivo dei tre, decisamente maggiore.

Durante lo spettacolo ho riflettuto su quello che stavo vedendo, a partire da un dato curioso: il primo disco dei The Residents è uscito nello stesso anno di Non aprite quella porta. Un caso? Forse, ma le assonanze tra i due eventi (e lo spettacolo di venerdì) sono tantissime.
Il film di Tobe Hooper, lo sapete, è agghiacciante: trenta e passa anni dopo la storia di alcuni ragazzi “normali” che vengono massacrati da una famiglia non tanto normale, che abita in una casa ordinaria, in una città come ce ne sono migliaia negli USA, è uno stereotipo. Ma all’epoca il film scioccò non tanto per la violenza del film (che pure è pesantissima), quanto proprio per l’idea che l’orrore fosse dietro l’angolo, a portata di mano, nella pulita e linda (per modo di dire) America. In realtà già da qualche anno il cinema americano indipendente sfogava i mostri dell’inconscio collettivo attraverso un nuovo modo di fare horror: ma i morti viventi di Romero (1968) erano altro. Erano zombie, non (più) umani, uscivano dalle tombe: un’ottima metafora psicanalitica, ma anche una presa di distanza, qualcosa che poneva un’area di sicurezza, per quanto labile, tra la quotidianità e l’orrore. Non aprite quella porta, invece, inizia con un cartello che dice, in sostanza, che la storia è vera. Anche qua, un elemento scontato nel 2010, ma mica tanto nei primi anni ’70 del secolo scorso, sebbene si trattasse di una trovata pubblicitaria.
Insomma, era la distorsione del normale che operava negli spettatori del film di Hooper: la famiglia degli sterminatori era, in fondo, una famiglia, con le sue regole e le sue posizioni. E la famiglia, si sa, sta alla base di quasi tutte le forme sociali, è il primo legame e legante. Da notare, inoltre, che il salotto ha una sua importanza, nell’economia del film.
Cosa c’entra tutto questo con The Residents?

Pensiamo sempre al 1974: il loro primo disco si chiama Meet the Residents, e l’assonanza con l’edizione americana del quasi omonimo disco dei Beatles ha come correlativo la copertina, che vedete qua a fianco. Una distorsione, corrosione, stravolgimento della comunque riconoscibilissima immagine del disco degli inglesi, che comunque, quattro anni dopo lo scioglimento, erano una certezza, qualcosa di condiviso. Ma andiamo alle canzoni: la prima è uno stravolgimento totale della hit portata al successo da Nancy Sinatra “These Boots are Made for Walking”. E si continua con urla, melodie popolari passate al tritacarne, schizzi di acido su strutture ben note (familiari!) della tradizione americana, o anglosassone. Tutto è riconoscibile, eppure diverso. Esattamente come il salotto sul palco dell’Estragon.
Ma non mi sto inventando niente: il buon Freud aveva capito (e spiegato) tutto nello stracitato saggio sul perturbante che, come sapete, in tedesco si dice Unheimlich: una parola che include ed esclude allo stesso tempo la vicinanza, la familiarità, il riconoscibile.
The Residents hanno messo in scena la stanza della condivisione familiare, il salotto, e hanno raccontato da là delle storie, un altro elemento di coesione sociale e culturale. Ma le storie erano distorte, bizzarre, inquietanti. Il continuo passaggio da riconoscibile/riconosciuto, familiare/vicino, noto/esperito, a sconosciuto, lontano, ignoto è quello che ha fatto sì che fossi affascinato, spaesato e turbato allo stesso tempo.
E, quando sono usciti di scena sulla melodia poi presa dalla Coca-Cola per un famoso spot, ho capito che, ancora una volta, il lato oscuro degli USA, e non solo, è appena più in là del celebrato “American way of life”. Probabilmente, dietro quella porta chiusa che dà sul salotto.

L'inossidabile classe del 1935

Mentre leggevo, con gusto e passione, l’ultimo libro di David Lodge, Il prof è sordo, non ho potuto fare a meno di pensare al mio rapporto con i film di Woody Allen. Qualsiasi cosa faccia l’attore, regista, sceneggiatore e, ma sì, dai, musicista americano, io lo vado a vedere. E certo, posso uscire dal cinema più o meno contento, ma anche nelle sue prove peggiori, riconosco il mondo, il pensiero, il punto di vista di Allen.

Lo stesso vale per Lodge, del quale lessi Scambi una quindicina di anni fa e che, da allora, non ho più abbandonato. Certo, c’è da dire che Lodge è meno produttivo del suo quasi coetaneo e quindi si dà meno occasione di fallire, del tutto o in parte. Rimane però comune ai due il gusto e la maestria del racconto, inteso proprio come “arte della narrazione” (un’espressione che è molto simile al titolo di un bellissimo saggio dell’inglese).

Come in Allen, inoltre, è sempre facile riconoscere nei romanzi di David Lodge l’autore stesso, che viene nascosto con un garbo quasi vezzoso, molto britannico: non sta bene (ed è anche privo di senso) chiedersi “Ma il Desmond di Deaf Sentence (questo il geniale titolo originale del romanzo di cui vi parlo) sarà veramente lui?”. Con elegante savoir faire, Lodge ci dice nella postfazione che sì, la sordità di cui è afflitto il protagonista è effettivamente un’esperienza provata in prima persona, così come la figura del padre, solo e malato, ha a che fare con la vita reale dello scrittore. Ed è proprio il personaggio del padre ad essere importante nel libro: l’accademico in pensione ha una moglie più giovane di lui, figli, nipoti e una studentessa tanto fascinosa quanto pazza che tenta di invischiarlo in un progetto di ricerca sulle lettere dei suicidi, con tanto di risvolti sadomasochisti; Lodge si diverte un mondo a mostrarci quanto ne sa di linguistica, oltre che di narratologia; ma sono i momenti con il padre a dare un interesse maggiore al libro. Un padre sordo, ma per motivi geriatrici, più che altro, con la prostata mal funzionante, tirchio e cocciuto, nostalgico del suo passato di musicista per orchestre da sale da ballo (Radio Days, come fa a non venire in mente?), che il figlio si costringe a visitare di tanto in tanto, affrontando un viaggio dall’immaginaria cittadina del nord dove Desmond risiede, fino ad un sobborgo del sud-est londinese da cui il padre non vuole andarsene.

Non aspettatevi pietismi: Lodge sa fare divertire, e spesso riduce il lettore a sonore risate. Ma è come, esattamente come nei film di Allen degli ultimi dieci anni, che in questo Il prof è sordo, il brillante scrittore inglese, toccati i 75 anni, si renda conto che, per quanto ci si possa scherzare su, la morte è qualcosa di concreto, vicino, seppure non immediato. È pervaso da uno strano senso funereo, questo libro: o forse sarebbe meglio dire che tra le righe si sente la paura del rendersi conto che le cose non funzionano come prima. Le orecchie, l’apparato riproduttivo, la memoria. Ci si scherza sopra, certo, ma in un momento topico del libro, al quale non accennerò per preservarvi il piacere della lettura, l’inconfondibile humour di Lodge scompare, per dare vita a pagine inaspettatamente dense di sacra umanità, resa in maniera tangibile quanto, per sua stessa natura, sfuggente e fuggitiva.
Anything works, dice Woody Allen nel suo ultimo film: “basta che funzioni”. E nelle ultime prove dei due grandi del ’35, a mio avviso, tutto funziona, e bene. Speriamo solo che, fino all’ultimo, abbiano voglia di raccontarci le loro storie, a modo loro: io sarò là a bearmi delle loro parole.

Così è, non vi pare?

Vito Ciancimino inizia a parlare: è da novembre che molti temono le parole del figlio dell’ex sindaco di Palermo. Ovviamente, tra chi è più teso, c’è Berlusconi. Ciancimino, infatti, ha già cominciato a raccontare che, nonostante l’archiviazione (notate bene: archiviazione, cioè sospensione in attesa di nuovi dati, non assoluzione) dei processi in cui Berlusconi è imputato di concorso esterno in associazione mafiosa (notate bene: il reato indica una presenza costante e disponibile di qualcuno nei confronti di mafiosi, sebbene quel qualcuno non sia parte integrante dell’associazione criminale stessa), c’è stato effettivamente qualcosa di poco chiaro nei primi investimenti da palazzinaro del capo di Governo. Qualcosa che ha a che fare con Milano 2. Qualcosa di cui tutti sanno, anche se non ci sono le prove.
E voi direte: ma Silvio B. si è divincolato da tanti processi… Eh sì, ma i processi per mafia sono una cosa diversa. Chi è coinvolto in questi tipi di procedimenti deve dimostrare che ogni nichelino del suo patrimonio non ha alcun tipo di provenienza derivante dalla criminalità organizzata. Volendo, in attesa di riscontri e verifiche, è anche possibile che i magistrati decidano in via cautelativa di congelare – del tutto o in parte – il patrimonio dell’indagato. Ora capite che dramma sarebbe, questo, per Berlusconi. Ma è da novembre che il solito diabolico figuro prepara la controffensiva (qui un articolo del Corriere della Sera), con la solita campagna mediatica che ha agevolato la sua posizione e il mantenimento della stessa da 15 anni e passa a questa parte.
Ora, dicevamo, Ciancimino parla. E Berlusconi gioca d’anticipo. Consiglio dei Ministri a Reggio Calabria, dopo il provvidenziale ordigno (come siamo puntuali in Italia con le bombette, ragazzi…), con tanto di ostensione di un nuovo opuscolo, non dissimile dall’arcinoto Una storia italiana. Titolo: “Lotta alla mafia”. Diretto ed efficace come la pubblicità di uno shampoo antiforfora. E la strategia è solo all’inizio: Berlusconi non ha intenzione di combattere solo politicamente i suoi guai giudiziari (vedi leggi e leggine appena sfornate). Una sua sponda è sempre stato “il popolo”, raggiunto ovviamente con mezzi semplici e grezzi. Populisti, appunto.
Immaginamoci, quindi, che questi processi inizino, o siano sul punto di essere riaperti: Berlusconi potrà ripetere le cose dette negli ultimi mesi e avere, inoltre, la prova provata sotto forma di depliant colorato che lui lotta contro la mafia. Signora mia, c’è scritto qua, eh: le pare che io, se fossi un mafioso, lotterei contro me stesso? Voi direte: e vabbè, ma che c’entra. Che c’entra? La comunicazione politica di Berlusconi è sempre stata così: colorata, manichea, semplice, riassumibile in poche frasi, basata su sillogismi da barzelletta. Perfetta per chi lo ascolta. Quello che Berlusconi vuole, da sempre, è una delegittimazione popolare della magistratura. Una cosa vista alla fine de Il Caimano, insomma (il video è qua sotto). Quindi: ammettiamo che non venga fatta qualche nuova legge ad hoc per salvare il premier dai processi, che l’opinione pubblica si renda conto di quello che succede davvero, che ci sia un minimo di credibilità per i collaboratori di giustizia (per i quali sta arrivando un’ennesima legge prêt-àporter), che i magistrati siano davvero onesti, che gli opuscoli non servano… dobbiamo solo sperare che, almeno, Berlusconi si presenti in aula.
[youtube=http://youtu.be/AXMezbDSSrM]

Agenda della settimana

In un post solo, serate risolte da oggi a sabato. Ehm, per me sicuro, per voi… pensateci.
Questa sera ricomincia Seconda Visione, il settimanale di cinema di Città del Capo – Radio metropolitana giunto alla nona stagione. Alle 2230 sui 96.250 e 94.7 MHz di Bologna e provincia o in streaming qua. Parleremo di Bastardi senza gloria, Ricky e Basta che funzioni.
Domani sera ho la riunione di condominio. Siete tutti invitati. Un punto all’ordine del giorno mi preoccupa: “digitale terrestre”. Mi alzerò in piedi e dirò “No!” come Marcel Marceau ne La pazza storia del mondo.
Giovedì esce Up, l’ultimo film della Pixar. Perderlo è punibile per legge. Anche se c’è un “Lodo Topo Gigio” che pende sulla questione.
Venerdì è una giornata tale per cui conviene suddividere le cose:
– a Maps ho ospiti dal vivo Amor Fou e Dente, che ci suoneranno qualcosa di edito e di inedito. E forse ci sarà una bella sorpresa. Dalle 1530 su Città del Capo… beh, vedete sopra, le modalità sono le stesse.
– alle 18 presso la Libreria Trame, in via Goito 3/c a Bologna, presenterò La guerra in cucina (Eumeswil), insieme al nuovo romanzo di Paolo Alberti Sei caffè. Con noi ci sarà Gianluca Morozzi, il curatore della collana per cui io e Paolo usciamo. Per saperne di più andate qua. Ah, se volete qui trovate un altro racconto da leggere a sbafo.
– alle 21 sarò ospite della radio cugina sempre per presentare il libro. In più pare che farò il tiramisù in diretta webcam. Il tutto a Get Black.
– e poi me ne vado al Covo a vedere gli Amor Fou e a svenire sul dancefloor, presumo.
Sabato c’è la festa di compleanno di Città del Capo – Radio… Quella là. Metterò i dischi e… Copio e incollo.

22 anni di libera informazione: ancora per quanto?
Città del Capo festeggia il suo compleanno al Locomotiv Club.
Prima di dare il via alle danze un incontro con Luca Bottura, Angela Baraldi, Emilio Marrese, Antonella Mascali. E con un video inedito di Alessandro Bergonzoni, una vignetta di Elle Kappa e tanti altri ospiti a sopresa. Alle 23 brindisi con le voci di Città del Capo e poi si balla con i suoi dj (MorraMc, Francesco Locane e Enzo Polaroid). Alle ore 21,00 al Locomotiv Club, Via Serlio 25/2 Bologna. Ingresso 5 euro.

Poi dite che non c’è niente da fare. Fatevi riconoscere. A parte alla riunione di condominio: vi sgamo io, non potete votare.

L'irrappresentabile

Sono andato a vedere un film tedesco, Settimo cielo, per parlarne stasera a Seconda Visione. La storia è quella di una donna che ha passato la sessantina e che sta da trent’anni con un uomo più grande di lei. Poi, il colpo di fulmine: lei si innamora perdutamente di un sessantaseienne, con conseguenze drammatiche. Ho visto questo film a uno spettacolo pomeridiano, in una sala gremita (come spesso accade a quegli orari) da persone che avevano le età dei tre protagonisti.
Il regista, Andreas Dresen, non ha pudori, come è giusto che sia. Dovendo rappresentare la passione, sceglie di mostrarla, e punteggia il film di scene di sesso. I commenti del pubblico in sala mi hanno fatto rabbrividire: “Guarda che cadavere” è stato il climax, raggiunto da una coppia di settantenni seduti dietro di me (che hanno commentato per tutto il film: ma di tipologie umane da sala ho già parlato qua e qua), lanciato nell’aere quando è comparso il corpo – naturalmente raggrinzito e molle – di uno degli attori.
Piccoli lettori, avrei capito la risatina imbarazzata, al limite anche la battuta, ma quel “cadavere” non era un vecchio putrefatto: era un corpo non credo così distante da quelli che riempivano la sala in cui ero. E allora ho capito. Ho capito che se delle persone si insultano pubblicamente, dandosi del cadavere, siamo davvero a un punto di non ritorno.
L’erotismo tra anziani è irrappresentabile, il corpo (nudo, ma non solo) dell’anziano è irrappresentabile, poiché distante dai canoni vigenti che vogliono il corpo solo ed esclusivamente come oggetto sessuale. Persino i bambini si avvicinano (orrendamente) a questi canoni, più degli anziani. E questa forma ha coinvolto tutti, compresi i bambini (pericolosamente) e gli anziani, che si odiano, vedendosi su uno schermo. Sarebbe dovuta nascere una qualche forma di empatia, quanto meno.
E invece no. “Guarda che cadavere.” Badate bene: non è moralismo, è istinto di conservazione, amor proprio, accettazione di sè. E la mancanza di queste cose porta a overdosi di cibo, diete e botulino, a età diverse. Parliamone, dopo avere visto Il corpo delle donne.

Note a margine

“Mangino cavallette”. Concordo con il senso di disagio provato da Emmebi: che uno dei punti salienti del vertice FAO sulla fame nel mondo sia un cenone, fa un po’ specie. Ma non è tutto: quando si è aperto il summit, Repubblica.it ha pubblica un articolo in cui la FAO dice che è questione di tempo, ma che alla fine mangeremo insetti. “Buoni e saporiti, forniscono un elevato apporto nutriente”. Il problema rimane la mancanza di contorno.

Todt Cab for Cutie. Il nuovo disco dei Death Cab for Cutie si intitola Narrow Stairs, ed è uscito ufficialmente qualche settimana fa. Come accade da un bel po’ di tempo, il disco è finito nelle reti peer-to-peer alla fine di aprile. Stesso titolo, stesse canzoni, tag a posto. Solo che era il disco dei tedeschi Velveteen, molto simile come suoni e arrangiamenti, in realtà, a quello della band americana. Il punto è che una giornalista di “Rumore” ha fatto del disco dei Death Cab for Cutie il disco del mese… recensendo quello finto. Con un certo entusiasmo, anche. Apriti cielo: il dibattito si sviluppa sul blog di Inkiostro e ne parleremo domani a Maps. My two cents? Questo evento è sintomatico, terribilmente sintomatico del mondo musicale di oggi e della critica (spesso improvvisata) che gli ruota attorno. Trovare colpevoli e metterli alla gogna, però, è inutile e banale.

Volevo chiedere… Petunio ha incontrato lo Sbagliatore Professionale di Domande, cioè quella persona che interviene in un dibattito pubblico, spesso culturale come una presentazione di libro o di film, e fa delle domande inappropriate. Quando va bene. Infatti, alla fine dello scorso mese ho presentato un libro. Al momento delle domande una signora bizzarra ma intelligente (o viceversa) ha preso la parola, iniziato un preambolo lunghissimo, risposto al telefono che le suonava nella borsetta da qualche minuto, parlato un po’ alla cornetta, chiuso la chiamata e… “Ripreso la domanda”, direte voi, miei piccoli lettori. No. Ha ripreso il preambolo.

“Ho forgiato un amuleto che ti renderà invincibile…” A Seconda Visione era venuto ospite uno dei suoi attori, e conosco il blog di uno dei suoi autori. La curiosità per The Iron Pagoda, il primo film wuxiapian italiano, o foss’anche bolonnaise, è cresciuta a dismisura. Un film da non perdere, fidatevi: qua tutte le notizie e i modi per scaricarlo o vederlo direttamente.

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