I’m Happy Just To Dance With You

Step by step: "In Rainbows" dei Radiohead

Eccoci qua, quindi. Dopo avere speculato su geroglifici, messaggi sul sito ufficiale, date di uscita dell’album. Dopo avere congetturato sulla presunta fine delle etichette discografiche e su download più o meno legali. Dopo tutto, quello che ci rimane è la musica. Lo ascolto da stamattina, quindi queste non sono impressioni proprio a caldo. Certo, non credo di avere mai scritto così velocemente di un disco. Oh, ne avevo voglia.

15 Step. In Rainbows si apre con ritmi elettronici, sui quali si innestano la voce di Thom Yorke prima e delle tessiture di chitarra poi. Basta il primo minuto di questa canzone per capire che siamo dalle parti dei Radiohead e basta. Se Hail to the Thief poteva essere considerato un tentativo di tornare a “quelli che erano i Radiohead” (ma quali, dico io, visto che i tre album precedenti erano diversi l’uno dall’altro?), ecco che il sincretismo si compie in maniera più definita già nella prima traccia del nuovo disco. Chi suona è un gruppo che ha alle spalle e allo stesso tempo ben presente tutto quello che è stato.

Bodysnatchers. Vigorosa intro di chitarra, batteria, basso pulsante. E ditemi che non sono rock, dai. Il pezzo cresce di intensità ad ogni battuta, gli strati si sovrappongono fino ad una cesura improvvisa, e i suoni tornano chiari e la voce di Yorke sale, e tutto ricomincia, per poi scomparire piano e ricominciare di nuovo. La traccia rimanda direttamente all’album precedente.

Nude. Archi campionati e incisioni al contrario, acuti, un basso nitido suonato su tonalità alte. Forse questo brano è come avrei che avesse suonato The Eraser. Ma basso e chitarre sono discreti nel tenere su il pezzo, seppur presenti, e il cantato indugia in glissandi e lievi vibrato. E il finale è lasciato a voce e archi. Sarà il momento accendini accesi ai concerti, occhi lucidi. E baci con la lingua.

Weird Fishes/Arpeggi. In parte il titolo spiega da solo il brano. Anche qui chitarra, basso e voce, e una batteria sincopata. Il crescendo è molto lento, poi si spegne e Yorke dice di essere stato mangiato da questi pesci bizzarri, e l’atmosfera si fa subacquea e ovattata prima e minacciosa poi, fino al finale.

All I Need. Un basso quasi fuzz, senso di solitudine e nudità. Insomma, una splendida canzone d’amore alla Radiohead. In sottofondo, ogni tanto, fanno capolino archi impazziti alla Hermann, per un secondo, e un vibrafono riprende la linea del basso. In mezzo, la voce inconfondibile che ben conosciamo. E il pianoforte. Uno dei pezzi migliori del disco. Niente di nuovo, ma rapisce.

Faust Arp. “One-Two-Three-Four”. Inizia così questo gioiellino di due minuti. L’inizio mi ricorda moltissimo un pezzo degli Zero 7, ma non ricordo quale. Gli archi sono molto presenti, e i loro arrangiamenti mi fanno tornare in mente alcune armonie che usava molto Nick Drake, così come sono intersecati con gli arpeggi di chitarra acustica. Forse il pezzo a cui mi sto affezionando di più.

Reckoner. La batteria dell’intro è registrata lontano, e definisce uno spazio ampio che verrà riempito nel corso del brano. Yorke viaggia su tonalità molto alte, ma il falsetto è pulito e preciso come al solito, raddoppiato. Lo spazio centrale della canzone è affidato ancora una volta ad una magnifica apertura d’archi e alla voce, anzi, alle voci che armonizzano l’una sull’altra. E’ un esempio di come i Radiohead in questo disco riescano ad essere lievi e pieni allo stesso tempo.

House of Cards. Un ritmo quasi sambeggiante, con vocalizzi lontani. Inizio quanto meno spiazzante. “I don’t wanna be your friend / I just wanna be your lover”. Ah, ecco, siamo meno spiazzati, adesso. La canzone sembra dovere esplodere da un momento all’altro, ma il castello di carte rimane in meraviglioso e prodigioso equilibrio.

Jigsaw Falling Into Place. Un titolo meraviglioso, che rimanda all’immaginario visivo dei Radiohead. Cantato basso, che segue un ritmo sincopato come prima, e poi esplode, insieme alla progressione armonica della canzone. Niente di nuovo, intendiamoci. Ma, oh, le canzoni belle i Radiohead le fanno anche perché sono loro a farle. Ehm, un po’ involuto come concetto, mi rendo conto…

Videotape. Pianoforte e Thom Yorke. No, dico. E, sentendola, mi si è stretto il cuore, perché il concetto stesso di videotape è qualcosa che ormai va oltre il contenuto, ciò che vi è registrato sopra. Si carica di un senso antico: lui la molla e le lascia il messaggio inciso su nastro. Uno splendido paradosso per chiudere un disco che è associato tantissimo a tutto quello che è digitale. Una splendida canzone per chiudere un ottimo album. Se vi aspettavate un capolavoro rimarrete delusi. Nonostante questo, ci scommetto, lo ascolterete compulsivamente.

E fou amor a primo ascolto

Quando arriva un disco in radio è spesso accompagnato da un comunicato stampa abbastanza inutile. Ma quello con il primo disco degli Amor Fou, La stagione del cannibale, mi ha colpito da subito.

(…) Durante una festa i quattro [componenti del gruppo] conoscono Adele H. e Paolo M. Lei romana, figlia di una freak e di un pariolino, lui fuoriuscito dalla Milano bene degli anni sessanta. Un tempo innamorati come pazzi, si lasciarono senza motivo, giovanissimi, il giorno della bomba di piazza Fontana per poi ritrovarsi negli anni novanta, ma questa volta senza amore e senza odio. (…)

Da questa storia, o meglio, dai racconti che i due hanno fatto ai componenti della band, nasce questo disco meraviglioso. Un disco pop(ular), come dicevano gli Area, un disco necessariamente cantato (narrato) in italiano, perché parla della nostra nazione, della nostra storia, senza nominare alcun evento storico, a parte gli ultimi due brani, “L’anno luce” e “La strage”, in cui comunque la storia è filtrata attraverso il personale (il privato, si diceva un tempo, contrapponendolo a pubblico, e contaminando entrambi con il politico). E una strage di Stato è avvenuta lo stesso giorno in cui finisce l’amore, il primo, quello più grande. Quello matto (fou) e passato, che fu. E che non può tornare. Non è un caso che siano gli anni ’90 quelli in cui i due protagonisti si ritrovano. E non è un caso che non ci sia amore né odio, allora, tra i due. Nei primi anni ’90 ci sono stati gli ultimi veri tentativi di aggregazione sociale e di protesta politica compatta. Gli anni della Pantera, dei primi (nuovi) centri sociali. Gli ultimi anni in cui aveva un senso concreto raggrupparsi in un posto fisicamente. Per inciso, gli anni della mia adolescenza.

La stagione del cannibale è direttamente riferito ai momenti più alti che la nostra canzone ha avuto negli anni ’60, anni di amori e speranze per tutti, scoppiate proprio alla fine di quel decennio, il 12 dicembre del 1969, una data che si è portata via molte più cose di quanto non si pensi. E un cantante di allora che gli Amor Fou tengono ben presente, Luigi Tenco, si tolse di mezzo prima ancora di quel momento. Ma Cesare Malfatti, Leziero Rescigno, Alessandro Raina e Luca Saporiti conoscono bene i suoni di adesso, e sanno scremare tra ciò che effettivamente rimarrà e le chilate di fuffa che la cosiddetta “scena indipendente” riversa sul mercato. E appoggiano melodie e cantato su richiami evidenti alle migliori sonorità elettroniche di oggi, Notwist, Lali Puna e Tarwater su tutti.

Sento da settimane questo disco e non mi annoia. E mi sorprendo a cantare i testi a memoria, cosa che non mi succedeva da molto tempo.
Questo rende ancora più bello il fatto che La stagione del cannibale sia il disco della prossima settimana a Maps e che domani, lunedì 8 ottobre, dalle 16 gli Amor Fou saranno negli studi di Città del Capo – Radio Metropolitana per parlare del disco in trasmissione. E per suonarne qualche brano.

Per sentire e vedere: Amor Fou – MySpace

Hitting Everybody The Police Live, Torino 02.10.07

Uno si rende conto di come passi veloce il tempo quando nota che ha parlato di questa data dei Police sette mesi fa. Alla fine, possiamo dirlo, i tre hanno mantenuto la parola chiesta. Nessun disco nuovo, almeno finora. Ma anche niente “Mother” in scaletta. Comunque.

È stato un bel concerto, c’è poco da dire. Che però è iniziato alle 9 e 40. Niente di male, se non fosse che le danze sono state aperte da “La notte della Taranta”.
Primo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Copeland, che ha lavorato con i “tarantolati”, li ha chiamati sul palco. E quindi alle sette di sera, eccoli là: seimila musicisti sul palco e duemila tamburelli, a suonare una taranta inutilmente contaminata con altro. Già a me la taranta sta sulle palle, quando poi per ringiovanirla, riadattarla, rifarla la mischiano con blues, rock ed elettronica… Ah, tra i musicisti c’era anche Raiss degli Almamegretta. Ma non è finita qua.
Secondo problema del fatto che due membri su tre dei Police abbiano rapporti con l’Italia: Sting ha fatto aprire il concerto di Torino, come gli altri del tour, dalla band di suo figlio, tali Fiction Plane. Io non lo sapevo e quindi il mio ragionamento, quando è iniziato il loro set, è stato: “Toh, una band con basso/cantante, chitarra e batteria. Come i Police. Toh, il loro suono ricorda i Police. Ehi, ma il cantante assomiglia a Sting.” L’italico nepotismo è stato però incrinato da una dichiarazione che il giovine leader della band ha rilasciato a Repubblica il giorno dopo. Ha detto qualcosa come: “Siamo meglio dei Police, perché mio padre è un precisino.” Mah.

Insomma, alla fine i Police sono saliti sul palco allestito al “Delle Alpi” davanti a 65000 persone. Solo il pubblico, visto dall’alto delle tribune, era uno spettacolo. Scaletta ben congegnata, con pezzi più soft per prendere fiato alternati ad altri brani suonati veramente con indole rock: e le età dei tre, sommate, arrivano quasi a 180 anni. Molti brani sono stati riarrangiati, con un picco in una meravigliosa versione di “Wrapped Around Your Finger”, veramente emozionante. Schermi giganti e giochi di luce hanno esaltato una scenografia comunque sobria. E poi, che dire della scaletta? Un successo dopo l’altro, dai cinque dischi usciti in poco più di cinque anni. “Roxanne” ci ha invaso di luci rosse, Sting non si è risparmiato, Stewart Copeland ha percosso ogni cosa, Andy Summers ha fatto il suo (e si anche messo una giacchetta, ad un certo punto: si sa, a volte basta un colpo di freddo…). E’ stato un concerto divertente, ben suonato, che ha coinvolto il pubblico più enorme che mi sia capitato di vedere finora. E alla fine, dopo una versione davvero tirata del primo pezzo di Outlandos d’amour, “Next to You”, tutti a casa sorridenti, dai quindicenni che hanno spulciato nei dischi di papà, ai papà, appunto. E la sensazione di avere visto un mito, sì, venticinque anni dopo, ma pur sempre mito.

Setlist: Message in a Bottle – Synchronicity II – Walking On The Moon – Voices Inside My Head/When The World Is Running Down – Don’t Stand So Close To Me – Driven To Tears – Truth Hits Everybody – Hole In My Life – Every Little Thing She Does Is Magic – Wrapped Around Your Finger – De Do Do Do De Da Da Da- Invisible Sun – Walking In Your Footsteps – Can’t Stand Losing You – Roxanne – King Of Pain – So Lonely – Every Breath You Take – Next To You

Video
Foto

Elio e le storie nuove

Andando all’Arena Parco Nord, mercoledì, mi dicevo: “Pubblicherò sul blog qualcosa a proposito del concerto, ma sarà la terza volta che parlo di Elio e le storie tese. Mi limiterò a delle foto.”
Quando “John Holmes” ha aperto l’ennesimo concerto che vedo del simpatico complessino, ho avuto per un attimo il sentore della noia, e mi è balenato per la testa il pentimento per avere prenotato (come ogni volta) il cd brulè.
Eppure mi hanno sorpreso, anche questa volta.
Intanto perché hanno sopperito all’assenza di Rocco Tanica (in studio a Milano a lavorare al nuovo disco della band, che pare esca a gennaio) con un tastierista misterioso (Jantoman? Claudio Simonetti? Johann Sebastian Bach?) e con Vittorio Cosma, che si è presentato con il nome di Clayderman Viganò. Il tutto ha funzionato egregiamente sin dall’inizio, con i brani ormai rodati. Ma poi, stupore, gli Elii hanno eseguito “Oratorium”, una canzone uscita solo su singolo e hanno continuato con “Christmas with the yours” con Graziano Romani sul palco a cantarla come nella versione originale. Ci è stato dato un assaggio del nuovo disco con “Parco Sempione”, che spero diventerà l’inno nazionale di chi si oppone ai bonghisti della domenica (e so che siamo in tanti a desiderare di forare pelli di tamburo).
E ancora, un medley che è stata l’ennesima prova del fatto che la band è veramente padrona di una tecnica superlativa: sono state messe insieme “Pipppero”, “La chanson”, “Discomusic” e “Born to be Abramo”.
A quel punto lo scontato finale con “Tapparella” è stato comunque salutato da un coro di “Forza panino”.

E voi direte: sì, vabbè, ma ci fai sentire qualcosa? E come no: a voi foto e video, proprio di “Parco Sempione” (trovate altri video del concerto qua).

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=EYeMw1tiQEk]

E chi l'avrebbe mai detto…

…di vedere Tool e Nine Inch Nails sullo stesso palco? E di vederli per la seconda volta nel giro di una manciata di mesi? Eppure.

L’Independent Days Festival di quest’anno si è ridotto, per me, ai concerti degli headliner di cui sopra. Delle altre band, lo confesso, non me ne poteva fregare di meno. Sono arrivato all’Arena Parco Nord alle sette e mezzo, ho visto i Maximo Park salutare il pubblico, pubblico che indossava solo magliette dei Tool e dei NIN, peraltro, e mi sono sistemato sulla collinetta davanti al palco. Una posizione da anziani, lo ammetto, ma il mio corpo aveva dato abbastanza a stare nelle prime file qualche mese fa.

Il set dei Tool è stato meraviglioso. La band di Maynard Keenan, si sa, è una macchina perfetta e si è presentata a Bologna in forma smagliante. Addirittura Maynard ha detto una decina di parole, introducendo i Nine Inch Nails e prendendo in giro il cappello nuovo di Jeordie White, che il bassista dei NIN ha avuto la decenza di non mostrare, però. Il concerto è stato potente, compatto, senza mezza sbavatura, decorato da scenografie stupende e da giochi di luce meravigliosi, con tanto di laser verdi sul pubblico. E su “Lateralus” un jam stupenda che valeva da sola tutto il concerto.

I NIN hanno seguito più o meno le scalette dei concerti del tour di Year Zero. La scaletta di Milano è stata più ricca di classici (ricordo ancora, allora, una “Reptile” da brividi), ma si sono superati in quanto ad allestimento del palco. Il vero motivo, a parte l’età che avanza, per cui mi sono messo a una certa distanza dal palco è stato proprio quello di vedere le luci e gli effetti sul palco dei Nine Inch Nails. Nel loro ultimo dvd, Beside You In Time, è possibile rendersi conto dell’apparato scenico che accompagna alcuni pezzi: è sbalorditivo il lavoro che viene fatto e la precisione con cui lo staff di Reznor e soci agisce sul palco, in perfetta coordinazione con dei musicisti pazzeschi. Ho letto di sospetti di playback, ma sinceramente non credo siano fondati. Reznor è un perfezionista e difficilmente si accontenta di performance mediocri da parte di musicisti e tecnici. Ecco spiegata l’enorme livello della performance dei NIN. E poi hanno fatto “Dead Souls”!
Unica nota negativa, il pistolotto pro-file sharing, diligentemente tradotto per il gentile pubblico dall’italico tastierista Alessandro Cortini: citando Valido, allora regalaceli in allegato con un giornale, i dischi.

Ah, no, c’è un’altra nota negativa, ma riguarda l’organizzazione del festival in sè: una volta entrati nell’arena non si poteva uscire. Avete letto bene. Una specie di reclusione forzata, con le migliaia di persone presenti obbligate a fare la fila per un (1) bagno e due (2) punti ristorazione. Il tutto nel mezzo della Festa Nazionale dell’Unità, ricolma di cessi e crescentine. Mah.

Tool setlist: Jambi – Stinkfist* – Forty six and 2 – Schism – Rosetta stoned – FLOOD – Lateralus – Vicarious
NIN setlist: Hyperpower!* – The Beginning of the End* – Heresy* – Terrible Lie – March of the Pigs – Closer – Survivalism – Burn – Gave Up* – Me I’m Not – The Great Destroyer (Slave Screams interlude) – Eraser – Only – Wish – The Good Soldier – No You Don’t – Dead Souls* – The Hand That Feeds – Head like a Hole –
Hurt

Dei pezzi con l’asterisco trovate i video sulla mia pagina di YouTube, e qui ci sono diverse foto.
La posizione centrale-su-collinetta ha diversi vantaggi, oh yeah.

Daydreaming

I concerti dei Sonic Youth sono una delle poche certezze della mia vita: come i film di Woody Allen, i Peanuts, il rapporto qualità prezzo della birra Moretti. Tanto per mischiare cose diverse.
Li ho visti per la prima volta nel 1998, e poi in tante altre occasioni, e sono sempre stati grandiosi. La data di ieri a Ferrara è stata qualcosa in più, però. Sentire Daydream Nation suonato tutto insieme, dall’inizio alla fine, è stato entusiasmante. E ancora mi meraviglia il fatto che le canzoni dei Sonic Youth, ruvide, difficili e respingenti all’apparenza siano stampate nella mia testa. Si agganciano ai neuroni perché sono, alla base, pop (rock), base su cui poi ci stanno tutte le influenze no-wave, jazz e sperimentali che la band ha costruito in venticinque anni e passa di carriera.
E tutto questo si nota ancora di più in un disco fondamentale come Daydream Nation, in cui la tempesta elettrica di “Eric’s Trip” si mischia con il refrain pop di “Silver Rocket”, e viene da canticchiare ogni pezzo, e si smette di battere il tempo col piede solo nelle code di feedback di ogni pezzo, per poi riprendere a tempo con Steve Shelley.
Ma dicevo, la serata di ieri: tutto Daydream Nation, e poi dei bis, in cui Kim Gordon ha lasciato il basso a… Mark Ibold, il bassista dei Pavement. E Kim Gordon ha ballato, roteato su se stessa e percorso il palco in lungo e in largo come non l’avevo mai vista fare. E ho capito, ancora una volta, il segreto di questi 50enni e passa: amano davvero la musica e si divertono a farla, prima di ogni altra cosa.

Insomma, Sonic Youth: di nome e di fatto, ancora una volta. Che meraviglia.

Sonic Youth performing Daydream Nation – Piazza Castello, Ferrara, 06.07.07. Setlist:
Daydream Nation – Reena – Incinerate – Jams Run Free – Or – What a Waste

Note psichiatriche

L’industria musicale e i suoi esponenti maggiori stanno agonizzando, andando verso la pazzia più completa. Due esempi per dimostrarlo.

Antonello Venditti: basta rubare i titoli delle mie canzoni. Il popolare cantore romano si è lamentato, qualche giorno fa, che alcuni suoi titoli erano sfruttati senza che lui ricevesse i diritti per “Buona domenica”, “Notte prima degli esami”, “Ricordati di me”. (ANSA, che scrive nell’agenzia “Ricordati di te“)
Si apriranno presto i processi che vedono coinvolto Paolo Conte contro il cielo (“Azzurro”), l’Unione Dolciaria Italiana (“Gelato al limon”) e la FIAT (“La topolino amaranto”), l’atteso match di Pieroa Pelùa contro Capitan Uncino (“Pirata”) contro Edoardo Bennato contro Collodi contro Walt Disney contro le rappresentanze sindacali dei sorci.

OLGA costretto a chiudere. L’Online Guitar Archive, un enorme sito in cui sono archiviati testi e accordi di milioni di canzoni, ha chiuso per la pressione delle case discografiche, che accusano i webmaster di violazione di diritto d’autore.
Nello stesso giorno Alberto Scafagna, un pensionato di Velletri, è stato arrestato per avere fischiettato una canzone di Mina senza avere pagato la SIAE. A nulla è valsa la difesa dello Scafagna, che, sotto suggerimento del suo avvocato, si è dichiarato stonato pur di sfuggire alla morsa della giustizia.

E vaffanculo: ecco una serie di siti interessanti, se non li conoscete:
Mp3Maniaco
Regnyouth Archives
Mp33pm
Tanto, in questo mondo di ladri… Ops. Vado a dare qualche centesimo ad Antonello.

We do need (a classic) education

Arrivo dopo la puzza, come si usa dire, ma penso che molti dei lettori di questo blog non siano così attenti (giustamente) a tutti gruppi che si presentano ogni giorno sulla strabiliante scena dell’indie italiano e non solo, e che vengono continuamente accolti come the next big thing, definiti “miglior gruppo di sempre”, per essere (giustamente) dimenticati una manciata di mesi dopo. Quindi rilancio parole che già in molti hanno speso, immaginando che trovare qua un post su un gruppo che non ha ancora fatto uscire un proprio disco possa avere un “valore aggiunto”, vista il mio noto scetticismo sulla cosiddetta “scena indie”. Ovviamente, se mi considerate un idiota (giustamente), il disco avrà un “valore sottratto”. Rischio.

A classic education, rispetto alla stragrande maggioranza dei nuovi gruppi italiani “indipendenti”, è altra cosa. Come era capitato per gli altri beniamini Settlefish, ho avuto la fortuna di avere i pezzi di questo gruppo direttamente dalle mani di uno dei componenti della band (anni fa, quando sentii il demo del primo disco dei Settlefish si trattava di un cd masterizzato, qualche mese fa, quando ho sentito i pezzi di A classic education, era una cartella con degli mp3: segno dei tempi). E sono rimasto sbalordito dalla bellezza dei pezzi, degli arrangiamenti, dell’uso di tastiere e archi (per cui ho sempre avuto un debole), per l’approccio pop e colto al tempo stesso, per il godimento che i singoli membri hanno nel suonare, godimento che traspariva in maniera evidente dall’ascolto delle tracce.
A classic education, prima di tutto, ascolta musica, ama la musica senza pregiudizi, e ama suonarla. In questo periodo di superficialità e ignoranza musicale non è poco, anzi, è una delle cose che fa la differenza.
E tutto questo l’ho ritrovato live, quando A classic education ha aperto per i Modest Mouse, all’Estragon, lunedì scorso. (Saranno stati i suoni, confusi e impastati per metà concerto, ma non mi sono goduto tantissimo la band di Isaac Brock, non quanto il breve set che li ha anticipati, comunque: per il concerto dei Modest Mouse sono perfettamente d’accordo con quello che dice Enzo: sono rimasto affascinato da Johnny Marr, dalla sua scioltezza sul palco. Chi suona da trent’anni si vede, e per fortuna).

Insomma, A classic education ha tutte le carte per fare il botto, come tante altre band. Ma, a differenza di altre, ha ottime possibilità di rimanere in alto. E il fatto che, al terzo concerto si siano esibiti a Londra e che presto divideranno il palco con i Wilco è solo una prova che deriva dalla forza della loro musica. Il che, per una band è importante, smettiamola di dimenticarcelo.

A classic education: sito
A classic education: MySpace
(ascoltate i pezzi!)

Intervista agli A classic education: intervista su Polaroid Blog

P.S. Se proprio domani non avete niente da fare, venite al Toga Party del Biografilm Festival. Io e FedeMC vi faremo ballare il rocchenrol come se foste ad una festa dei Delta. Insomma, come compiere 29 anni e non sentirli.

Year Zero Posse

Li ho attesi tanto entrambi, sono il prodotto di artisti più o meno coetanei, che hanno iniziato la loro carriera più o meno nello stesso periodo, e che hanno anche collaborato, e, infine, li ho anche sentiti per bene nello stesso momento. Per cui ecco cosa penso di American Doll Posse e di Year Zero, gli ultimi dischi, rispettivamente, di Tori Amos e dei Nine Inch Nails, anche se, una volta di più, sarebbe il caso di dire Trent Reznor.

Nelle rispettive discografie, arrivano dopo una delusione, quasi completa, per quanto riguarda il lavoro precedente di Tori Amos, The Beekeeper, e parziale, a proposito di With Teeth, dei Nine Inch Nails. E la prima bella notizia è che sono entrambi album migliori dei loro predecessori.
Musicalmente parlando, innanzitutto, sono una sorpresa: Trent Reznor riprende in mano completamente un disco, suonandolo e producendolo, come non faceva dai tempi dell’esordio, Pretty Hate Machine, ma in maniera meno controllata e dando sfogo a se stesso, alle sue fantasie, pur mantenendo una produzione ineccepibile (non è una novità, ma anche questo disco dei NIN ha dei suoni, una produzione e un missaggio pressoché perfetti). Tori Amos, invece, si butta decisamente sul rock, con una presenza delle chitarre che non si era mai sentita prima, suonate da un certo Mac Aladdin (secondo qualcuno si tratta di Mark Hawley, sound engineer e marito della cantante).
Curioso il fatto che in entrambi ci sia un richiamo agli anni ’80: alcuni inizi delle tracce di American Doll Posse sembrano provenire dall’AOR dell’epoca, e anche alcuni suoni, soluzioni ed arrangiamenti di Year Zero sono riferiti direttamente a quel periodo. Ma Reznor fa un passo in più: dopo essere stato in tour, negli ultimi due anni, con TV on the Radio, Saul Williams, Peach e Ladytron a fare da supporto, è evidente, ascoltando l’ultimo disco dei NIN come questi suoni siano stati assorbiti e riproposti (senza scimmiottature) in Year Zero. Il che, personalmente, mi rende felice: da un lato perché vuol dire che Trent Reznor è ancora capace di guardarsi intorno (un atteggiamento che da sempre ha fatto la fortuna di Bowie) e dall’altro perché Return to Cookie Mountain, l’ultimo disco dei TV on the Radio, è secondo me il disco più bello del 2006.

Dal punto di vista dei testi, altra comunanza: si tratta, in entrambi i casi, di concept album. Il che, ancora una volta, non è una novità per questi artisti. Ma soprattutto Year Zero è programmaticamente un concept album a differenza di altri dischi, quali The Downward Spiral, che potevano essere letti come tali, anche se non era esplicita la cosa.
E da questa prospettiva, ancora comunanze: in entrambi i casi (e di nuovo la vera novità è data dal disco dei NIN) questa struttura è stata esplicitata in rete prima dell’uscita del disco, con l’incredibile campagna di marketing virale che ha accompagnato Year Zero e con il solito corredo web che ha lanciato il disco di Tori Amos: in quest’ultimo caso, addirittura, sono stati creati appositamente (con risultati non eccellenti, a dire il vero) dei MySpace “tenuti” dai personaggi in cui la Amos si sdoppia per dare vita alla sua posse.
Ovviamente in entrambi i dischi la politica ha un peso maggiore: i vaghi accenni di With Teeth diventano qua una vera e propria distopia su un mondo destinato all’autodistruzione: una sorta di collettivizzazione di “Mr Self Destruct”, che, proprio per questo, assume caratteri politici, sebbene in forma piuttosto semplificata.
Per quanto riguarda American Doll Posse, questo intento è chiaro fin dal primissimo pezzo, meno di due minuti voce-e-piano, intitolato “Yo George”. Poi Tori Amos ci infila sempre gli stessi temi: la condizione femminile, la violenza (“Fat Slut” è un pezzo veramente sorprendente, con una chitarra distortissima che fa da base alla traccia vocale: ma, anche qua, siamo sotto i due minuti), la sessualità.

E anche il packaging non è da meno: Tori Amos non rinuncia alla versione deluxe con dvd, su cui, a dire il vero, c’è poco (ma io l’ho comprato lo stesso), mentre Reznor fa uscire Year Zero su un normale supporto audio, ma sensibile al calore, cioè fatto dello stesso materiale del cofanetto dei singoli dei Massive Attack, per chi se lo ricorda: dopo averlo suonato, compaiono le informazioni su copyright e altro. Quando il dischetto ritorna freddo, rimane solo la scritta Year Zero.

Ma i due dischi hanno in comune un problema: la durata. Se si sente troppo la lunghezza dei singoli pezzi di Year Zero, in cui ogni traccia ha una coda rumoristica che in sè sarebbe anche positiva, se questa caratteristica non fosse ripetuta per tutti i brani del disco, il minutaggio di American Doll Posse sfiora l’ora e venti. Troppo, decisamente troppo.
Ma pare che la questione durata sia una caratteristica comune dei prodotti dello show business oggi: ormai i film non durano praticamente mai meno di due ore, e moltissimi dischi, appunto, hanno minuti e minuti che potrebbero essere eliminati, o, perché no, messi in un altro disco (in là nel tempo, furbetti, se no siamo punto e a capo).

Comunque, tutto sommato, sono contento: i due più che quarantenni ancora se la cavano, e non solo su disco. Dopo avere visto il concerto dei NIN, e avendo visto Tori Amos più volte (e aspettando la data del 30 maggio a Firenze), posso tranquillamente dire che offrono degli ottimi concerti. Adesso mi prendo una giornata di ferie e ascolto American Doll Posse e Year Zero un’altra volta.

Down In It: Nine Inch Nails, Live@Alcatraz, Milano, 01.04.07

Esattamente otto anni dopo avere visto uno dei concerti più belli della mia vita, torno nello stesso posto, con lo stesso amico, a rivedere uno dei miei gruppi del cuore.
Quando passano così tanto tempo tra due eventi del genere, è evidente che la lunga attesa prima del concerto potrebbe essere riempita da pensieri come “L’ultima volta che li ho visti qua avevo 21 anni”, ma queste meditazioni sono interrotte dall’incubo che mi perseguita in tutti i concerti a cui tengo di più: come era successo già all’ultimo concerto dei Karate a cui ho assistito, ecco che si presentano puntuali quelli che io chiamo “gli ultras dell’Andria”. In quell’occasione, infatti, un gruppo di veneti ubriachi aveva cantato per tutto il concerto gli inni della loro squadra del cuore sulle melodie dei Karate. Encomiabile, come tentativo, penosa e fastidiosissima la riuscita della cosa.
I Ladytron si sono appena esibiti, la folla aspetta i NIN, ed eccoli, i tifosi: sono in tre, e si devono reggere insieme per non cadere per terra. Ovviamente, spingendo qua e là, si piazzano accanto a me. Dopo qualche sguardo interrogativo, vedo che uno ha un bicchiere di plastica pieno e lo tiene a mezz’aria, dritto davanti a sè. Fa per rovesciarlo per terra (in uno spazio di un metro quadro in cui ci sono almeno dieci persone), ma prima mi guarda. Io gli faccio “no” con la testa, lui mi prende come arbitro morale della situazione e mi dice “No, eh?”. Gli suggerisco di passare il bicchiere ad altri, in modo tale che raggiunga i limiti della sala. Lo fa.
Dopo poco mi pone un altro grande interrogativo etico. Biascica: “Ma se uno dovesse venirgli da pisciare (sic), la farebbe qua, no?” e nel chiedermi questo inizia ad armeggiare coi pantaloni. Sudo freddo. Riesco solo a scuotere la testa, sperando di mantenere il ruolo appena acquisito. Miracolosamente rinuncia. O se la fa addosso, non so e non voglio sapere.
Un altro po’ di tempo e uno dei tre, quello più basculante di tutti, inizia a strusciarsi su una ragazza di fronte a me. Nessuno fa niente e io conquisto la seconda onorificenza sul campo, togliendo la ragazza dal pesante ed etilico abbraccio del barcollante giovane.
Si spengono le luci, inizia “Pinion” e quindi, non appena partono le prime note di “Mr Self Destruct”, non capisco più niente. Una violenza inaudita travolge il pubblico, con un attacco di concerto memorabile. I tifosi dell’Andria, probabilmente, vengono calpestati dalla folla, la temperatura emotiva si innalza a dismisura, ma mai quanto quella fisica: dopo due pezzi siamo tutti sudati e distrutti.

La folla mi spinge da una parte all’altra e godo come un riccio: la scaletta sembra quasi quella di un set di The Downward Spiral, non si fa in tempo ad esultare per un brano che ne parte un altro. Così mi trovo, fortunello, in un’altra zona del locale, dove faccio la conoscenza di uno strano personaggio. Capelli lunghi, barba lunga, occhi spiritati, fa headbanging facendo roteare la chioma e inondando di sudore chiunque si trovi nel raggio di qualche metro dalla sua seminuda persona. E’ coperto da uno strato viscido di sudore, e quando, approfittando del macello incessante, gli do una bella spinta, torna indietro, incrocia le braccia all’altezza dei polsi, sfodera due belle corna metal e rovescia gli occhi mostrandomi la lingua.
All’ennesima ondata di sudore mi allontano.
Lo vedrò, un po’ dopo, mentre, immobile in mezzo alla folla, tiene il cellulare all’orecchio. Ho pensato che, forse, si chiedesse se la voce che risponde facendo il numero 666 (“Il numero che lei ha composto è inesistente”) sia quella del Principe delle Tenebre in falsetto. O forse è la prova che l’Inferno non esiste?

La temperatura aumenta, e Trent Reznor, mosso a pietà, lancia delle bottigliette d’acqua sul pubblico. Il frontman dei NIN è un po’ troppo pompato, ma chi se ne importa: continuano a suonare come una macchina, senza tregua, senza sosta, e soprattutto senza fare brani troppo recenti.
Il ritmo, infatti, cala solo nei due pezzi del prossimo disco, Year Zero, che però il buon Trent ci invita tranquillamente a “rubare”.

E poi arriva il momento che mi aveva fatto levitare, nel novembre 1999, dalla decima alla seconda fila, “con una forza dentro che neanch’io so come”. Ancora una volta, “Hurt” (versione solo voce e piano, fino all’entrata finale delle chitarre) distrugge nel senso migliore del termine tutti i presenti (e forse fa finire in lacrime anche i veneti ubriachi e l’emulo di King Diamond). Ma il finale è per “Head Like a Hole”, durante la quale credo siano stati concepiti diversi pargoli, vista la ressa mostruosa a cui nessuno è riuscito a sfuggire.

Quindi, che dire? Che sono una live band fenomenale, che, rispetto al concerto del ’99 sono mancate le parti combinate strumentali-video, che probabilmente parte della creatività che Reznor aveva raggiunto con The Downward Spiral e The Fragile se n’è andata, che inizio a tifare contro l’Andria Football Club e che, se il Diavolo c’è, ha cambiato numero.

Nine Inch Nails – Alcatraz, Milano, 01.04.07 – Setlist:
Pinion – Mr. Self Destruct -Terrible Lie – Heresy – March of the Pigs – The Frail – The Wretched – Closer -The Becoming -The Beginning of the End – Wish – Gave Up – Help Me I’m in Hell – Eraser – Reptile – No You Don’t – Survivalism – Only – Down in It – Hurt – The Hand that Feeds – Head Like a Hole

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