I’m Happy Just To Dance With You

Give Me Peace, Love and a Hard Kiss

Ieri notte sono andato a letto con il pensiero di scrivere qualcosa sul nuovo DVD di Tori Amos, Welcome to Sunny Florida. Ma non l’avevo ancora visto. Mi devo essere addormentato con quest’idea, perché ho fatto un sogno bizzarro, per certi versi simile a questo. C’eravamo io, Tori e Björk. Quest’ultima mi stava evidentemente intortando, ma io volevo parlare con Tori, che guardava triste l’islandese. Perché ovviamente anche lei voleva parlare con me. Ad un certo punto mi sono girato verso Tori Amos e le ho detto: “Mi piaci, sai, ma in realtà ho una cassetta di Bjork nel 1992, mentre il tuo primo cd l’ho comprato nel 1996”. Tori a momenti si mette a piangere. A quel punto Björk mi dice: “Dai, dalle un bacio”, con fare provocatorio. Io le dico “Ma che dici, voglio solo parlare con lei, mi è passata la passione erotica nei suoi confronti. Quasi”. Mi avvicino a Tori Amos, con fare indifferente, e la bacio. Lei mi squadra e dice: “Ma tu non volevi solo parlare con me?” A quel punto mi sono svegliato, preso dai sensi di colpa.
Sto vedendo il DVD in questo momento, e devo dire che non è affatto male, certe versioni delle canzoni sono bellissime (su tutte “Crucify” e “Leather”, più un medley incredibile tra “Take to the Sky” e “Mohammed My Friend”). So già che “Professional Widow” è stata censurata, non so se con del silenzio o con un “bip”. Che tristezza.
Praticamente sono in partenza, per Messina. Si sposa un mio cugino. Perché si sposa? Perché in Chiesa? Voglio dire, mio cugino si fa le canne e bestemmia, potrebbe sembrare un comune cattolico. Ma non crede in Dio. E la sua ragazza anche. Sì, anche nel senso di spinelli, imprecazioni e ateismo. Comunque di certo non mi alzerò in piedi in chiesa quando il prete dirà “Se c’è qualcuno contrario a questo matrimonio, parli ora o taccia per sempre”. Anche perché credo che sia una formula che non si usi più nel rito cattolico. Magari potrei alzare la mano, ad un certo punto. “Scusi, ma lei non doveva dire…”
Tornerò ingrassato come un porco, già lo sento. E Tori non mi vorrà più, e mi toccherà sposare Björk. Non in chiesa, no.

Aggiungo delle domande a cui non so darmi risposta, da molto tempo.
1. Perché le ragazze vanno in bagno insieme? Quando iniziano a farlo e quando smettono?
2. Che senso ha la scritta “Non iniziare a fumare” sui pacchetti di sigarette? Che uno lo compra, poi legge, dice “no, scusi, troppo tardi, mi dà quello con il cancro?”
3. A quando le scritte “se proprio devi, ma è meglio che proprio tu nisba” sui pacchetti di preservativi?
4. Possiamo considerarci una civiltà tecnologicamente avanzata, anche se ancora non esistono le cinture con i razzi e io prendo l’autobus per muovermi?
5. Perché gli italiani applaudono sempre, in ogni occasione, dai funerali al riuscito atterraggio dell’aereo in cui viaggiano?
Magari le sapete voi, le risposte. A tra qualche giorno. A meno che non trovi un Internet point in chiesa. In tal caso, aprirò un forum chiamato “Parlate ora”, sulle cose da dire a mio cugino (che, una volta, gli si è rotto il casco e gli si è aperta la testa).

Nine Inch News

22 maggio. Lo spostamento è completo. Il lavoro è incominciato. Trent ha una lavagna a secco, sul muro della stanza dove lavora. In alto c’è scritto a grandi lettere: avidità, diritto acquisito, delusione. Poi ci sono scritte un po’ di altre cose.

In questo periodo di ondivaga malinconia, sapere che l’adorato Trent Reznor è tornato al lavoro mi dà una gioia infinita. Era tantissimo tempo che il sito dei Nine Inch Nails era inerte, immobile. Una pagina nera, o sfumata. E io che perdevo le ore, passandola in maniera certosina con il mouse per cercare link nascosti. E poi le voci, da quelle più inutili a quelle più serie: il progetto Tapeworm che svanisce nel nulla, gli scazzi con Brian Warner (a.k.a. Marilyn Manson), le crisi depressive di Trent, eccetera. Insomma, iniziavo a temere il peggio. Poi, qualche giorno fa, ho digitato l’indirizzo. Incredibile. Tutto si muove, e molto meglio di prima.
Un layout bianco, font (fatto a mano) tipo macchina da scrivere scassata. Parole, immagini. Il tutto, come sempre, di una raffinatezza sublime.
Ma non è solo questo. Andate a vedere qua cosa succede. I fan dei NIN pongono a Trent delle domande assolutamente non banali e non solo sul nuovo disco, ma su questioni complesse e originali. Qualcuno addirittura gli dice (a modo suo) di prendersela con calma, che non c’è fretta per fare uscire questo nuovo Bleedthrough (con o senza la lineetta), consiglio che pare sia stato preso alla lettera, visto che l’ultimo disco in studio risale al 1999. Trent parla a ruota libera della sua musica, degli strumenti che usa, risolve problemi matematici, e scherza pure con un finto Billy Bob Thornton. E non manca una lettera della “mamma”.
La sezione dei link è curatissima. Oltre ai classici rimandi a siti musicali, di “vintage synth”, e a webzine varie, c’è una parte molto più politica. Anche i fan si sono chiesti come mai questa presa di posizione esplicita. Trent risponde, dicendo che in questo momento l’apatia politica è un lusso che non ci si può permettere.
Sento qualcosa di nuovo nell’aria, oltre ad avere la conferma che Trent Reznor rimane una delle menti più fini nel panorama musicale contemporaneo.

Concerto oltranzista

Il concerto dei Fantômas è finito da qualche ora. Eppure ancora mi risuona tutto nelle orecchie. No, non soltanto perché ero vicino alle casse, ma perché, l’ho capito dopo li primi trenta minuti, è stato uno dei concerti che mi porterò dentro per un bel pezzo.
Ma di chi stiamo parlando? Di Mike Patton, che per comodità ricordiamo solo come cantante dei Faith No More, Dave Lombardo, batterista degli Slayer (anzi, batterista, punto, nel senso che riesce a percuotere velocissimamente e a tempo qualsiasi cosa – “gli mancava solo una pecora appesa vicino al gong”, mi ha detto Manu), più King Buzzo, chitarrista dei Melvins e Trevor Dunn, bassista dei Mr Bungle, uno dei tanti progetti di Patton. Sono quattro folli, geniali, come nei più beceri ed abusati accostamenti.
Non ha molto senso che vi parli seriamente della loro musica, visto che io non sono di certo un critico musicale. Si chiacchiera sempre molto di postmoderno, di post-e-basta, di disintegrazione della forma nell’arte (di qualsiasi tipo). Ma qui io mi sono sentito come dentro ad un frullatore in cui erano stati messi pezzi di colone sonore, canzoni italiane, heavy metal, rock alternativo. Ovviamente il tasto on-off veniva azionato a discrezione del signor Patton. Sono rimasto a bocca aperta. I quattro sono stati una macchina perfetta, soprattutto Lombardo (ah, gli Slayer!) e Patton, che ormai usa la sua voce come accidenti gli pare e piace. Semplicemente mostruosi.

Una nota di costume, per fare capire che sono sempre io che scrivo, e che non siete capitati per sbaglio su un serio(so) blog musicale. Patton è stato fidanzato con una ragazza bolognese. Una sua fan, che l’ha conosciuto ad un concerto. Anche Selen è fidanzata con un suo fan, adesso che ci penso. Ma insomma. Fino a qualche anno fa , sul campanello di una casa del centro storico di Bologna a duecento metri da dove vivo io, c’era il doppio cognome: quello della ragazza e Patton. Fantastico. Poi, si sa, anche le storie belle e fiabesche come questa finiscono, ognuno per la sua strada. Anche quando finirà tra Selen e il suo ganzo, ognuno per la sua strada. Tanto più che pare che il tipo faccia il meccanico (sì, aveva in officina i suoi calendari: io quindi al massimo posso fidanzarmi con Snoopy).
Fatto sta che Mike Patton sa l’italiano abbastanza bene. Ad un certo punto del concerto ordina al malefico camion accanto al palco, che vende piadine allo stufato di topo e birre, tutto a prezzi esorbitanti, “una piada con salsiccia”. Nessuna risposta. “Una normale, allora”. Niente. Qualcuno del pubblico gli passa una piada. Lui la addenta, la mastica un po’, poi ne sputa un pezzetto. Sul pubblico. Molto punk, come cosa. Ma la triade Italia-cibo-Patton, si sa, ha precedenti illustri. Quindi il cantante inizia a sproloquiare sulla piadina romagnola, dicendo che è piena di merda. Dopo un po’ compare sul palco un uomo di una certa età, vestito di bianco, con berretto e grembiule . Sì, è proprio lui, il topopiadinaro che, colpito nell’orgoglio romagnolo, decide di offrire una bella piada a Mike, che la addenta nel mezzo di una canzone, facendosela tenere dall’uomo. Il piadinaro, colpito dal segno di pace di Patton, balla impazzito sul palco, i Fantômas stravolgono con genio, estro e maestria la musica degli ultimi cinquant’anni, l’odore di piadina si spande nell’aria, il pubblico gioisce.

Mancava solo Raul Casadei.

[http://youtu.be/t4Dwm0EzgSQ]

Un panino con la mortadella, grazie – Riflessioni e resoconti inutili su un fine settimana come-si-deve

Sabato. Ebbene sì, c’ero anche io a vedere i Franz Ferdinand. Un concerto pieno di VIP, tra l’altro: tra il pubblico abbiamo riconosciuto un redivivo Brian Jones, con i capelli tinti di nero per non farsi riconoscere. In più uno dei roadie dei FF era niente poco di meno che James Hetfield dei Metallica. Avremmo tanto voluti sentirli suonare insieme “I Can’t Get No Sanitarium”. Sarà per la prossima volta. Tra il pubblico anche i Micecars, con i quali ho parlato di chirurgia plastica e nuove correnti negli studi comparati sul wrestling.
Ma insomma, ‘sti FF come sono come non sono. Una sottile (o spessa, o a cubetti, a seconda dei gusti) metafora.
Uno ha fame, voglia di una cosa sfiziosa. Entra da un salumiere che fa panini e gli chiede un panino con la mortadella. Eccolo. Cosa si spera da un panino alla mortadella? Che sia gustoso, che la mortadella sia tagliata bene, che il pane sia fragrante. Punto.
Avevo voglia di ballare come un cretino e cantare le loro canzoni. I FF mi hanno dato esattamente quello che volevo, e forse anche di più. Perché dal vivo suonano forti e potenti, sono coinvolgenti e il loro atteggiarsi non è assolutamente credibile. Il cantante per certe mossette ricorda uno dei Pulp. O anche qualsiasi altro cantante inglese non depressissimo (niente a che fare, quindi, con Ian Curtis e Nick Drake). Ma, finite le mossette, si mette a ridere con gli altri e con il pubblico. Come per dire: “Allora, sono stato bravo stavolta o no?”. Pare, insomma, che ‘sti FF si divertano a suonare (cosa fondamentale), lo facciano bene e siano loro i primi ad essersi meravigliati del loro successo. Tanto per cambiare, lasciatemi divagare.

Flashback. Casa di Franz. Arriva Ferdinand.
Ferdinand: Franz, non puoi capire.
Franz: Cosa?
Ferdinand: Ce l’abbiamo, sfondiamo di brutto. Senti qua (fa un riff di chitarra).
Franz: Cos’è, i Duran Duran?
Ferdinand: No, senti bene (lo ripete).
Franz: Ah, no, sono gli Interpol.
Ferdinand: Ma no, cioè, non hai capito: l’ho scritto io, ‘sto riff.
Franz: Sì, come no. Senti questo (attacca i primi accordi di “Love Will Tear Us Apart”). Che ne dici, eh? Roba mia. Ma va’.
Suonano alla porta.
Franz: Chi è?
Voce: Sono il capo della Domino Records. Passavo di qua per caso e vi ho sentiti. Vi faccio incidere un disco.
Ferdinand: Vedi? Te l’avevo detto, io.

Che poi, diciamolo, le cose in realtà non sono andate molto diversamente. I FF mi inizieranno a stare sulle scatole nel momento in cui rilasceranno dichiarazioni spocchiose e non rideranno più dopo le loro mossettine.
Dopo il concerto dancefloor scatenata. Per quanto ci si possa scatenare ballando in dodici in mezzo metro quadro. Mi sono divertito tantissimo, anche se la legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi non mi ha permesso di esibirmi al meglio durante “Surfin’ Safari”. Poco dopo il sapiente dj ha messo di seguito una canzone delle Hole e “Anarchy in the UK” dei Sex Pistols. Un segnale inequivocabile per andarsene.
P.S. Considerando il numero dipersonechehannounblog che ho visto (senza contare le altre qua sotto), comincio una petizione per eliminare la parola blog-meeting (e affini e derivati): che senso ha?

Domenica. Il ritrovo dei blogger (e vivaddio non blogger) presentialconcertodelgiorno prima (enonsolo) è fissato all’una davanti ad un ristorante del centro. Riprendendo la metafora della mortadella, cosa ti aspetti da un ritrovo di persone di cui leggi spesso con piacere e sghignazzamenti vari le parole? Che si stia bene insieme e si chiacchieri amabilmente. Se l’incontro avviene in un ristorante, poi, ci si aspetta che si mangi bene. Secondo la signora del ristorante “tutto era una meraviglia”. Ah, cosa non fanno i tortellini al Prozac mangiati tutti i giorni. Il pranzo non ha suscitato clamori, ma la compagnia è stata bella, sì. Poi ci siamo speziati l’anima e abbiamo mostrato ai non-bolognesi le solite cose. No, non la triade tette-torri-tortellini. Le tette no, per motivi di pudore (io, al massimo, avevo una serie di foto di tette che porto sempre con me, a volte servono). Non le torri, tanto quelle le hanno viste tutti. Non i tortellini, perché quelli se li è mangiati, ridendo come una pazza, la signora tossicomane del ristorante. Al massimo, sfruttando la sua euforia, avremmo potuto convincerla a mostrare le sue tette. Meglio di no. Abbiamo mostrato loro altre cose, insomma. Poi li abbiamo portati a mangiare il gelato in un posto buono. E poi li abbiamo portati in piazza Santo Stefano. Tutto qua? Tutto qua. Niente di speciale, infatti. Ma volete mettere il godimento massimo che dà un panino alla mortadella quando è fatto bene?

(grazie a tutti, di cuore!)

Du' amici, una loopstation e 'na chitara

Sono tornato dal concerto di Damien Rice e, sinceramente, vorrei andarmene a letto. Solo che non posso, per colpa sua. Erano sette anni che non andavo in un fast food a mangiare, perché mi sono fatto convincere da F.? E non ho neanche l’Alka Seltzer a casa. Potrei farmi uno shottino di Mister Muscolo Idraulico Gel, ma credo che potrebbe forarmi l’intestino. Quindi farò finta di parlarvi del concerto, fino a che il rutto finale non mi dirà che il lungo processo di digestione è completato. Considerando che l’ultima esperienza con fast food e affini ha fatto sì che riuscissi a digerire questo in sole sette ore, il post sarà chilometrico.
Quando arriviamo io, F. e Whopper, il locale è già pienissimo. Facciamo in tempo a sentire Josh Ritter, musicista di supporto, che suona la sua ultima canzone senza microfono e con una chitarra acustica non amplificata. Ovviamente non si sente una mazza. “Forse l’ha fatto per avere intimità col pubblico”, dico io. “Forse è imbecille”, dice Whopper, che non accenna a muoversi dal mio stomaco.
Intanto ne approfitto per dare un’occhiata al pubblico. Si piazzano davanti a me un ragazzo e una ragazza. Altissimi, come è di rigore. Lei scrive messaggini come “anke tu 6 qui?” e li manda ai vari Klaudi, Katerine, Kiare, Karle della sua rubrica (sì, ho fatto il guardone). Il ragazzo alto le offre una canna, ma lei rifiuta. “Non mi faccio le kanne”, dice. “Peggio x te, kazzi tuoi”, pensa lui. “Kuesta me la fumo da solo. 6 proprio una stronza”.

Dopo avere sentito un disco intero di Nick Drake, entra finalmente Damien Rice, che attacca con una canzoncina in francese, che include parecchie volte la parola “chanson” (metatestualità, presumo). Ogni volta io e F. ci guardiamo e pensiamo “voilà, le garçon ancien c’est moi”. La canzone, peraltro, finisce con il verso “french wine and cheese”. E vabbè. Come se ogni canzone in italiano, o che parla di Italia, finisse con pizza e mandolini.
Va bene, esempio sbagliato.
Poi Mr Rice ci delizia con varie chicche dal suo album, una bellissima versione di “Volcano”, per esempio, alla fine della quale uno del pubblico gli urla (testuale): “You break!”, cioè “Spacchi”. Se non ci fossero i corsi della De Agostini, where we would go to end (dove andremmo a finire). Si palesa anche un altro esemplare del pubblico. Alto pure lui, e ti pareva, con maglietta bianca a maniche lunghe attillata, si muove e si muoverà per tutto il concerto come se sentisse musica-da-ballare, dalla disco al liscio. Insopportabile, ma apprezzabile per il suo rigore, la sua coerenza e il suo eclettismo. “Sei un fesso!”, gli urla ad un certo punto Whopper dalle mie viscere, con una certa arroganza. Io penso di sfruttare questo dono per dare una svolta alla mia vita e diventare ventriloquo professionista.
Ad un certo punto, però, Rice si ricorda di avere con sé una loop station…

Flashback. Casa Rice, Natale di molti anni fa.
“Damien, bello di mamma e papà, che cosa vuoi che ti porti Babbo Natale quest’anno?”
“La pista Polistil”
“E invece no, ti ha portato un sequencer”
“Cazz’è?”
“Un apparecchio che tu ci registri una sequenza e lui la ripete”
“Se lo vendo e mi compro la Polistil?”
“Vedrai che se un giorno farai il musicista ti servirà”
“Ma io voglio fare il parrucchiere”

Emblematica e lapidaria la frase che mi ha rivolto G. dopo sei minuti di loop: “Ha un po’ stracciato la minchia”. Io, F. e Whopper annuiamo.
Poco dopo, ecco arrivare la cover di “Hallelujah”, già di Leonard Cohen, rifatta a sua volta da Jeff Buckley. Una cover al quadrato, insomma. Il pubblico reagisce cantandola in maniera sommessa e composta. Io mi sento a disagio come se fossi alla messa di Natale, anche perché Whopper la canta stonato, apposta.
Il concerto continua, alternando momenti intimi altissimi e schitarrate un po’ fuori luogo, in cui però pare che Damien si diverta tantissimo.

Flashback. Casa Rice, un pomeriggio di inverno. Frastuono proveniente dal piano di sopra. Mamma Rice sale le scale inviperita e scopre il giovane Damien con una chitarra a tracolla, distortissima. Prende il distorsore e glielo rompe sotto il pesante zoccolo di legno irlandese.
“Quante volte ti ho detto che devi fare piano? Puoi suonare la chitarra, ma solo canzoni tristi e intime, arpeggiando con grazia”
“Ma io voglio fare il rocker, mamma”
“Un tempo volevi fare il parrucchiere. Io e papà ti abbiamo anche comprato la loop station apposta. Ingrato”

Prima dei bis la bella violoncellista (le violoncelliste sono tutte belle) Vyvienne fa una cover di “Seven Nation Army”. Mentre io mi chiedo il perché di questa idiozia, il pubblico è esaltatissimo e si agita a ritmo. Il danzatore di cui sopra, non ne parliamo: sembra Tony Manero. Whopper anche. Lo convinco a stare fermo promettendogli che, quando sarei arrivato a casa, mi sarei fatto una padellata di alici e burro fuso. Per nutrirlo.
Rientra Damien Rice, che, dopo un po’ di schitarrate e giochini con i loop, chiude con una bellissima versione di “The Blower’s Daughter”.

Il concerto, alla fine, mi è piaciuto, ma preferirei avere Damien Rice nell’armadio, in modo tale da poterlo tirare fuori quando sono triste, e farlo suonare per me nella mia stanzetta, così come lui suonava nella sua, dimenticandosi delle gioie del suono distorto e dell’abuso di loop.
Vado a prepararmi le alici. Le promesse sono promesse.

A perfect trip

Ho trovato finalmente il tempo di esaudire un mio piccolo desiderio. Sentire l’ultimo disco di Lou Reed, The Raven. E che ci vorrà mai, direte voi?

Dunque: questo disco è ispirato a Poe, Lou Reed ha riscritto e/o messo in musica poesie e racconti di Poe. Poco dopo l’uscita del disco ho saputo che Riccardo Duranti, il bravo traduttore di Carver per minimum fax, stava traducendo per la stessa casa editrice i testi di The Raven. Quindi: disco e libro. Io adoro Poe. Perfetto. Quello che mi era sempre mancato, finora, era il tempo.

Ho ascoltato The Raven in treno. Il primo disco – primo atto – durante la tratta Bologna-Mestre. La seconda parte tra Mestre e Gorizia. Senza mai fermarmi, né di sentire, né di leggere. Vivendo le storie raccontate e musicate con un rapimento tale che mi ha riportato a quando, da bambino, sentivo le fiabe in cassetta. Raccontare e sentire raccontare storie è una delle cose più belle del mondo, secondo me. Mi emoziona, mi fa stare bene, è come un abbraccio.

Il disco, peraltro, non è perfetto. Però è mastodontico, splendidamente suonato (tra gli altri suonano e recitano: David Bowie, Ornette Coleman, Steve Buscemi, Willem Defoe e Amanda Plummer), torrenziale, vivo. Si seguono le storie, le vicende, si rabbrividisce e ci si emoziona. Quando è comparsa la voce di Bowie in “Hop Frog” mi è venuto un sorriso largo così.

Ripeto: il disco non è perfetto. Ma vi assicuro che sentire The Raven guardando fuori dal finestrino la pianura padana con la nebbia al crepuscolo è una delle cose che mi porterò dentro per un bel pezzo.

Cosa c'entra Elisa con le Harley Davidson?

Sento una strana vicinanza con Elisa. Il sentimento, ovviamente, parte da basi generazionali e geografiche: siamo coetanei e nati ad una manciata di chilometri di distanza l’uno dall’altra. Ha una bella voce. Le canzoni non sono sempre valide, o quanto meno mi stufano spesso, ma non credo che nel panorama desolato e desolante della canzone italica, sia da buttare via. Ma non basta.
Il chitarrista di Elisa è il cugino di un mio (ormai ex) compagno di classe: quando uscì Pipes and Flowers il suddetto compagno di classe tirò fuori, con abile mossa da prestigiatore, il cugino dal cilindro e si legò, in qualche modo, al successo della giovine.

Questo mi ricorda un buffo aneddoto che credo mi abbia raccontato un caro amico. L’amico dell’amico (che volete, capita sempre così) aveva passato le vacanze con Sergio del Grande Fratello, proprio lui, l’Ottusangolo. L’amico dell’amico, non appena era iniziato lo spettacolo e registrava successo, andava in giro vantandosi di conoscere Sergio e di avere passato ore indimenticabili e divertentissime con lui. Fino a che venne fuori che proprio questa gran cima Sergio non era, e l’amico dell’amico si adeguò all’andazzo mediatico, eleggendosi come primo denigratore. “Lo prendevo in giro io già allora”.

Ma torniamo ad Elisa. La fanciulla, nonostante canti prevalentemente in inglese, pare legata alle sue terre d’origine. L’avete mai sentita in un’intervista? Quello strano accento da patata-in-bocca, tutto vocali aperte e leggermente strascicato, beh, quello è l’accento goriziano, o, per essere precisi, “bisiacco”, cioè della zona di Monfalcone. L’avere questo accento marcato la rende ai miei occhi più umana, modesta e, quindi, simpatica. Poi gira i suoi video in posti che conosco bene e che raramente sono mostrati in televisione. Insomma, il tutto ha un’aria familiare.
Ho visto Elisa dal vivo una volta solamente, in un’occasione molto particolare. Mi sono trovato, non ricordo neanche io come, ad un raduno di biker, vicino Gorizia. Non so se avete mai avuto l’occasione di assistere ad un raduno di biker. Sono omoni (e donnoni) prevalentemente vestiti di cuoio, con moto enormi, nerissime e spesso iperaccessoriate, che bevono birra, scherzano e ridono. E giocano con i motori. Ma non nel senso che li montano e li smontano, con sana e ludica passione. No. Giocano con i motori in due modi.
Il primo è quello di accendere la loro moto, dalla marmitta enorme alla quale è stato tolto ogni tipo di silenziatore, e di accelerare mandando il motore su di giri e producendo un rumore assordante. La performance si può concludere così, semplicemente raggiungendo il picco dei decibel, oppure come ho visto io (fortunello): il biker spegne il motore, tira fuori una sigaretta e se l’accende sulla marmitta incandescente, tra le ovazioni della folla.
Il secondo è quello di prendere un motore di una macchina di bassa cilindrata, tipo quello di una Cinquecento Fiat, e di mandarlo su di giri fino a spaccarlo. Dico sul serio. Visto con i miei occhi.

Insomma, mi godevo lo spettacolo. Ero venuto a sapere che, però, quel raduno aveva qualcosa di particolare. Infatti era la festa di compleanno di uno del club di biker, un ragazzo che era appena uscito dall’ospedale per un bruttissimo incidente in moto. Aveva perso entrambe le gambe, però, a quel che si diceva, gli era andata bene.
Sale un gruppo sul palco (ovviamente un gruppo metal). Quando finisce il loro concerto, sorpresa, salgono sul palco altri musicisti e il ragazzo festeggiato, che ringrazia tutti. Ad un certo punto sale sul palco una ragazza piccina, con un berretto calato sugli occhi. È Elisa. Pubblico in delirio, anche senza bisogno di marmitte. Inizia a cantare “Knockin’ on Heaven’s Door” con il festeggiato, che è felicissimo, ride contento e canta.
Mi sono guardato intorno. Lo so che vi sembrerà stereotipato, ma fa veramente impressione vedere omoni enormi, di cui hai avuto un sano terrore istintivo fino a pochi secondi prima, piangere. Non “occhi lucidi”, dico proprio piangere. Beh, un po’ mi sono commosso anche io.
Elisa ha continuato con un altro paio di canzoni, poi è arrivato il regalo per il festeggiato. Una moto a tre ruote, che si può guidare anche senza gambe.
Ancora mi viene il groppo in gola a pensarci.

P.S. Ovviamente stanotte io sono uno dei morti viventi.

Storie raccontate da una donna

Qualche giorno fa è uscito Tales of a Librarian, una raccolta di Tori Amos: venti canzoni per ripercorrere dieci anni di carriera, sempre ad alti livelli. Ci sono due inediti, e molti pezzi sono stati remixati e/o registrati ex-novo. Inoltre il disco esce anche con un bonus DVD in cui ci sono alcuni video di Tori durante dei soundcheck e una galleria fotografica, interessante ed emozionante per vedere come la sua immagine sia cambiata durante il tempo (lo show biz…).
Ci si possono fare infinite domande, più o meno taglienti e graffianti su una raccolta, su un gritistitz, che esce, guarda caso, in un periodo caratterizzato dall’acquisto sfrenato (sì, è già Natale). Eppure io credo sia nei tremendi meccanismi, appunto, dello show biz, sia all’onestà artistica di Tori Amos. Vi rinvio quindi a questa interessante intervista, in cui la splendida quarantenne parla a cuore aperto di temi sulla bocca di tutti, magari sfiorandoli appena, ma riuscendo a colpire, con grazia, classe e intelligenza, come al solito.

Ah, l’intervista è in inglese. Ma, ricordando il nostro leader e la sua geniale trovata delle “tre I”, non ci dovrebbero essere problemi, no? Inglese, e vabbè. Internet, e ci siete. E la terza? Qual era? Informazione? Imparzialità? Inettitudine? Vattelo a ricordare. Che Ignoranza.

P.S. Ultimamente questo blog non parla più dei cavoli suoi. Abbiate pazienza, tornerò a tediarvi presto. Nel frattempo faccio finta di essere un blogger serio.

I Beatles e la teoria dell'attualismo

Come mi ero ripromesso di fare, parlo dei Beatles. Qualcuno ha sollevato il solito interrogativo: ma Yoko Ono? E molti altri dicono: ma Let It Be… Naked? Partendo da un brano di una mail che scrissi mesi fa ad una cara e splendida fanciulla, tento di dare la mia risposta all’annoso problema. (Scusa, R., se stai leggendo, spero che tu non ne abbia a male.)

Charles Lyell

sostengo che yoko ono abbia rotto i coglioni. ora, questo non vuol dire che lei sia la causa dello scioglimento dei beatles. a questo punto, per spiegarmi, apro una lunga parentesi. io credo profondamente nella teoria dell’attualismo, di lyell, credo. lyell diceva e direbbe tuttora, se potesse, che ogni fenomeno del passato va spiegato con i mezzi del presente. lui, se non sbaglio, si riferiva a grossi cambiamenti geologici del passato. insomma, nessun diluvio universale. bastano terremoti forti, inondazioni forti, eccetera. cosa c’entra questo con i beatles? c’entra. perché, immagina la situazione: quattro pischelli amici che si vogliono bene e vivono praticamente insieme 24 ore su 24. arriva una tipa, uno si innamora di lei. e il tipo in questione, che per mantenere l’anonimato, chiameremo mister x lennon, è piuttosto debole, complesso di edipo irrisolto, oltre che complesso ben avviato. la tipa in questione, che chiameremo per motivi noti mrs y ono, inizia a dire: ma molla quei tre sfigati. e fammi cantare pure a me (questo accade in the continuing story of bungalow bill. lei è quella del coro che stona. e si sente di brutto). considera, inoltre, che i quattro sono piuttosto stressati e pressati, da impegni ed altro. che si fanno un po’, e questo aiuta la creatività, ma non l’equilibrio e la calma. e, dulci$ in fundo, hanno appena deciso, o meglio, qualcuno ha deciso per loro, di fondare un’etichetta, la apple. di cui a loro, tranne ad uno, non interessa minimamente la gestione. (piccolo quiz: chi è l’unico a cui interessa, secondo te?).

per concludere: se uno ti raccontasse questa storia, senza citare i quattro di liverpool, come se fossero quattro ragazzi di verbania, che so, come penseresti andrebbe a finire?
la teoria di lyell (ripeto, non sicuro che sia lui) mi ha convinto ancora di più quando sono andato per la prima volta al festival di venezia, e ho visto grandi attori sospirare, avere dei problemi di stomaco, inciampare, grattarsi. e ho scoperto che anche a nicole kidman, quando suda nelle scarpe da ginnastica, puzzano i piedi.
Ovviamente l’ultima affermazione è frutto di speculazione. No, metti che non si era capito.
E veniamo, adesso a Let It Be… Naked (se non vi dispiace, d’ora in poi LIBN). Già ne ha parlato il mio fratello di parole, e concordo con quello che ha detto. Ci sono recensioni molto buone in rete. La mia, al solito, è un’accozzaglia di riflessioni assolutamente “amatoriali”.
La domanda che mi faccio da quando l’ho comprato è: “Consiglierei a qualcuno di comprare LIBN?” Non lo so. Il punto è che il disco che ha fatto storia è stato Let It Be. Per un gruppo come i Beatles conta anche l’impronta lasciata nella storia, in tutta la cultura occidentale dal 1962 in poi; spesso si tratta di un’impronta perfetta, splendida, netta. A volte non è così. Insomma, LIBN non è il disco da ricordare dei Beatles. Tra tutti i loro dischi, intendiamoci, neanche Let It Be è un disco da ricordare (sebbene tutta la produzione dei Beatles è grandiosa e decisamente oltre il tempo). Diciamo che è una chicca per filologi e appassionati, che quando lo sentono, di solito, godono. Certo, se avessi tanti soldi e dovessi regalare ad una persona che non ce l’ha Let It Be, regalerei anche la nuova versione. Due dischi, anzi, tre.
Altro punto: il bonus disc di LIBN, che viene chiamato Fly On The Wall Disc. Ecco, secondo me è veramente poco utile. Se ne poteva fare a meno. Pezzi di conversazione e pezzi di canzone, per ricordare il clima in cui venne registrato Let It Be. Come se uno ti desse un barattolo con l’odore di un arrosto e ti dicesse: “Ah, però, com’era buono!”
LIBN come una bieca operazione commerciale? Non saprei. Certo che è emozionante sentire “The Long and Winding Road” in questa versione.
Ho fatto una prova. Ho fatto sentire prima la versione della canzone di Let It Be, poi quella di LIBN. La mia amica ha fatto prima “oooh” e poi “ooooooh”.
Emozioni, dopo trent’anni, fresche e frizzanti. Anche per questo i Beatles sono grandi e li amo.

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Vorrei scrivere un po’ di più su questo blog. Ma mi sto rilassando e sto facendo una solitaria battaglia personale contro la legge Fini sulle droghe. Faccio… una sorta di resistenza passiva continuata, diciamo. O qualcosa del genere. E su, che avete capito.
Quindi, ecco alcuni appuntini, disordinati, sparsi, sconnessi.

  • fra qualche ora si laurea F. e andrò a fargli le feste: ma prima mi comprerò il nuovo disco di Tori Amos. Anche la mia adorata è caduta nella trappola del greatesthits? Basteranno i due inediti e il dvd a giustificare l’uscita di un disco? E basteranno i soldi o quelli della banca verranno a casa mia per spezzarmi i pollici?
  • è uscito Let It Be… naked dei miei amati Beatles: ne ho parlato lunedì in radio, e ho fatto sentire dei pezzi, ma vorrei scriverne qui. Seguendo le orme fraterne… Discorso complesso, quello sul disco dei Beatles, liquidato un po’ troppo in fretta, anche nei blog che leggo;
  • devo assolutamente mettere a posto il template del blog: è una schifezza, me ne rendo conto. Se n’è accorto più di qualcuno, e ringrazio per suggerimenti, testate mandate (non nel senso che hanno mandato quelli della banca a prendermi a testate: poco elegante, non trovate?) e quant’altro. Rimane il fatto che a smanettare col template sono uno schifo;
  • sono riuscito a perdere Raiot, domenica (stanchezza, resistenza passiva di cui sopra), ma grazie a qualcuno sono riuscito a recuperare le puntate in rete, le ho scaricate e me le sono viste. Subito dopo ho mandato a raiot@rai.it una mail, in cui semplicemente esprimevo la mia solidarietà per la prevedibile e avvenuta cancellazione “provvisoria” del programma. Se fossi un buon blogger trovereste qua i link per scaricare anche voi le puntate. Se. Inoltre in molti hanno liquidato un po’ bruscamente la puntata. Dirò la mia. Forse;
  • le avventure di Neighbours vi hanno entusiasmato? Dagli stessi produttori, in associazione con ShinyStat, presto la nuova serie: The Referrers. Gente che cerca altro. Ma non preoccupatevi: se non dovesse piacere potrà essere sospesa “provvisoriamente”.

E così mi sono dato i compiti per casa.

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