I’m Happy Just To Dance With You

The Policy

Cari Sting, Andy e Stewart,

vi scrivo per comunicarvi la mia felicità per la vostra reunion. Nel mio programmino voi eravate i protagonisti di una delle mie prime monografie, e ho capito che la vostra musica è ancora amata da tanti. Cinque dischi belli e poi, basta. No, giustamente, dico, che non vi venga in mente di incidere un altro album, va bene così. Anzi: vi riunite proprio per il puro gusto di suonare, di stare su un palco a divertirvi. E così, ne sono sicuro, divertirete anche il vostro pubblico. Sì, è vero, voi guadagnate un botto di soldi, e noi ne pagheremo altrettanti, ma mica lo fate per quello, no? Se no ve ne uscivate anche con un bel dischetto… Ma, ripeto, va bene così, non fatelo, va bene così.

Mi piacerebbe essere uno del vostro pubblico, e vedere un vostro concerto, insomma, i Police dal vivo! Ehm, solo una cosa, per sicurezza. Niente strumenti barocchi a comporre nuovi arrangiamenti, eh. O cori a fare il controcanto. No, dico a Sting. Niente disco nuovo, soprattutto. L’ho già detto? Bene. Dicevo, mi piacerebbe essere uno di voi, anzi, lo sarò, però, ecco, volevo chiedervi un piccolo favore. So di parlare non solo a nome mio, ma sono io a chiedervi in prima persona di inserire gentilmente di inserire una data del tour in Italia, che poi, insomma, è anche un po’ il vostro paese, no? Sì, dico a Sting. Che ne so, tra il 19 settembre e il 10 ottobre non siete pienissimi di concerti, magari, una tappa… Ah, che non vi salti in testa di chiamare uno qualunque dei vostri amici musicisti qui in Italia, nessuno. Sul palco, intendo. Sul palco a suonare. Con voi. Solo voi tre, belli, così, uno davanti, non troppo, non troppo, due dietro, ecco.
No, vi chiedo questa cosa della data per un motivo personale. Non vorrei trovarmi un giorno, anziano, a raccontare ad un mio nipote (?), le mie gesta di giovine. E a dire con voce tremante: “Sai, ho preso addirittura la Ryan Air e, zac, come un lampo sono andato a vedere i Police a Birmingham, e poi sono tornato…” Già vedo il mio scarso uditorio scomparire davanti a me, grazie al teletrasporto, lasciando come unica traccia nell’aria una frase: “Che palle, nonno, tu, la reunion dei Police e questa storia dei voli low-cost.”

Fate il possibile, quindi. A presto,

Francesco

P.S. Se fate “Mother” dal vivo potete chiamare Rob Zombie, a cantarla, o Trent Reznor. Ma, mi raccomando, niente disco.

Roma paranoica

Il primo rap italiano, per me, era quello di Napoli, dei Bisca e dei 99 Posse. Ma il primo vero grande disco di rap italiano che ho comprato è stato sicuramente Conflitto degli Assalti Frontali, più di dieci anni fa.
Quello, molto più della produzione dei 99 Posse, è un disco che dura nel tempo, e credo che questo sia in buona parte dovuto alla produzione di Don Zientara (Fugazi), senza nulla togliere ai beat e alle rime degli Assalti.
Quello era un disco fortemente metropolitano, che vedeva le zone grigie di una città che si attraversava come un oceano, una città che ha un’immagine talmente diffusa di luce e sole (anche fra gli insospettabili), da rendere impossibile il trovarci ombre quotidiane, ben diverse dalle lunghe ombre del Potere che da sempre turbano e formano Roma.
Era un disco maturo e di passaggio allo stesso tempo: e in fondo era quella l’età che attraversavano gli Assalti Frontali e anche io. Identificazione: et voilà, la magia è fatta.

Ho temuto sia quando ho sentito il disco successivo degli Assalti (HSL – Hic Sunt Leones), sia quando è uscito quello dopo ancora, Mi sa che stanotte. Ma ho visto che, sebbene con incertezze, qualche pensiero politicamente non così vicino ai miei, gli altri testi – sempre più personali e meno direttamente politici – mi ritrovavano appieno.

Ho conosciuto, invece, la musica del Colle der Fomento molto meno di dieci anni fa: ma in Odio Pieno e soprattutto in Scienza Doppia H ho trovato di nuovo uno sguardo diverso sulla città. Sono passati otto anni dall’ultimo disco, ed ecco che esce Anima e Ghiaccio. Lo sento con attenzione, ma il primo ascolto di un disco rap è sempre complesso. Verso la fine, però, vengo colpito da un verso, neanche il più bello del pezzo, nel ritornello.

RM Confidential, dove se becco qualche amico in giro ormai è solo coincidenza
Roma paranoica, dove la gente vive e si trascina solo per sopravvivenza
RM Confidential, dove se becco qualche svolta in giro ormai è solo confidenza
Roma paranoica, dove conta solo la facciata, conta solo l’apparenza

Ecco, “RM Confidential” è il negativo de “Il cielo su Roma”, è la sua versione con la leggera disillusione dei trent’anni. Basta questo per dirvi che Anima e Ghiaccio è un disco tanto grande quanto scuro. E vicino a molti, a me di sicuro.

Colle der Fomento – Myspace
Colle der Fomento – Wikipedia
“Il cielo su Roma” – testo
Un’intervista a Militant A su Mi sa che stanotte

From the morning, till the day is done

Ho passato due interi giorni con Nick Drake, senza neanche uscire di casa. Sono stato a Rangoon, in Birmania, dove è nato, sono andato e tornato più volte con lui nella tenuta di Far Lays, a Tanworth-in-Arden. Ho viaggiato con lui in Francia, Spagna e Marocco. Mi sono innamorato anche io di Françoise Hardy. Sono stato in giro, mentre lo seguivo nei suoi pochissimi concerti dal vivo in piccoli pub e in posti troppo grandi per lui. Ho conosciuto i Fairport Convention, il tecnico del suono John Wood, Paul Boyd, e anche John Cale e John Martyn. Con loro, a Londra, ho assistito alle registrazioni di Five Leaves Left e Bryter Layter. Ho tentato di parlare con lui dopo gli insuccessi di vendite dei primi due dischi, ma non ce l’ho fatta. Nick Drake mi ha sorpreso per l’ennesima volta col suo ultimo album, Pink Moon, registrato in poche ore e consegnato in una semplice busta ai dirigenti della sua etichetta, la Island. Ho visto la boccetta semivuota di Tryptizol, l’antidepressivo che l’ha accompagnato verso la fine.

Ho ascoltato i suoi dischi, ma anche gli “inediti”, contenuti in Time of No Reply e in Made to Love Magic. Ho letto il libro di Stefano Pistolini Le provenienze dell’amore, tutto d’un fiato. E, lo ammetto senza pudori, mi sono commosso più e più volte vedendo il documentario A Skin Too Few e sentendo lo speciale della BBC2 Lost Boy – In search of Nick Drake. Hanno risuonato in me per lungo tempo le parole della madre Molly e del padre Rodney, e la commozione della sorella Gabrielle.

Una canzone di Molly Drake

Ho capito ancora una volta quanto grande e fragile fosse Nick Drake e quanto lieve e possente allo stesso tempo fosse la sua musica.

Cercherò di parlare di tutto questo e di farvi ascoltare il più possibile nella prossima monografia di Sparring Partner, dedicata a Nick Drake, da lunedì. E se non vi piace Nick Drake (possibile?), venerdì c’è Luttazzi.
E se non vi piacciono né Drake, né Luttazzi, che accidenti ci state a fare qua?

Mai avrei creduto di…

Stilare una lista dei migliori dischi dell’anno. Un po’ perché non credo di avere la competenza necessaria per farlo: non sono sempre così attento alle ultime uscite. Un po’ perché mi stanno sulle palle le liste. Comunque, stavolta l’ho fatto, per questioni di partecipazione. Mi sono messo e ho visto che, nel 2006, mi sono passati per le mani e per le orecchie poco più di una quarantina di dischi. Sulle prime ho pensato “Sono veramente pochissimi: sicuramente molti molti di meno di quelli che hanno ascoltato colleghi radiofonici e blogganti vari”. Ma poi ho fatto un calcolo: quaranta dischi in dodici mesi fanno un disco ogni nove giorni. Poco meno di un disco nuovo, inedito, mai sentito prima alla settimana. E come si fa?  L’ho sempre pensato: la bulimia musicale è tremenda, il rincorrere sempre e comunque il nuovo, abbindolati da varie copertine e home page che parlano ad ogni uscita di capolavori e di gruppi stratosferici, il consumare nella maniera più tremenda la musica è male. Si rischiano di prendere fischi per fiaschi, e arrivare a pensare che, facendo un parallelo letterario, l’Iliade l’abbia scritta Baricco. Signori: gli anni che vanno dai ’50 ai ’70 sono la nostra antica Grecia. I classici vanno studiati. (Bum. Ah, per inciso, se volete vedere la lista, è sul forum di Città del Capo – Radio Metropolitana, più precisamente qua.)

Andare a vedere un concerto dei Living Colour nel 2006, anzi, quasi 2007 – sempre a proposito di musica vecchia. E quindi domani li vedrò con la formazione originale. Che vi devo dire? Secondo me sono molto sottovalutati, sono stati un’ottima band a cavallo degli anni ’80 e ’90. Un periodo tremendo, stretti tra il metal e il grunge. Però Stain, nonostante non sia il loro lavoro migliore, non mi stanca mai (e se domani dovessero fare “Nothingness” in versione acustica, i miei singhiozzi copriranno la loro musica).

Suonare questo pomeriggio con Jon Spencer e gli Heavy Trash. Sì, ho un po’ barato, “suonare” non è la parola esatta. Ma insomma, quando qualcuno nei dischi batte le mani è accreditato, sotto la voce “handclapping”, no?

La pazzia di Sir George

Sgombriamo subito il campo da equivoci: per me Love è uno dei dischi dell’anno. Non vi sareste mai aspettati un’affermazione così da uno che ha un blog con quel titolo e quel sottotitolo, da uno che ha iniziato ogni singola puntata di una sua trasmissione con una canzone diversa dei Beatles, eh? Ma ho i miei motivi. Oltre al fatto che i Beatles sono la più grande band mai apparsa sulla faccia della Terra. Ovvio.

Prima di tutto: Love è la definitiva consacrazione del genio di George Martin, prima che dei Beatles stessi. Sir George, il quinto Beatle, chiamatelo come volete: c’è lui dietro al risultato del disco. Insieme al figlio Gilles ha avuto in mano tutti (e dico tutti) i pezzetti di nastro che i Beatles abbiano mai registrato. Stiamo parlando di chiacchiericcio, cazzeggio, le linee vocali di un pezzo, una parte di chitarra di un altro, effetti sonori, fruscii, assoli di batteria, tutto. Considerate anche che i quattro, notoriamente prolifici, sono rimasti in studio per anni, da quando hanno smesso di fare concerti. Bene. Martin conosce perfettamente ogni pezzo di nastro: e grazie, li ha prodotti lui, ma non solo. Non era solo il produttore dei Beatles. Insieme a loro li sentiva crescere, comporre, provare e scartare soluzioni, modificarne altre. Dio solo sa l’emozione che lui stesso ha dovuto provare quando si è ritrovato davanti a quelle migliaia di ore di registrato. Però Martin è inglese, quindi avrà nascosto l’emozione e si sarà messo al lavoro. E già questo riprendere dei brani che sono scolpiti nella memoria di tutti e “sconvolgerli”, in qualche modo, non è qualcosa che ti aspetti da uno che ha ottant’anni suonati e che potrebbe tranquillamente starsene in poltrona a sentire la discografia dei Beatles urlando: “L’ho fatta io, ‘sta roba”. E invece no: si ricomincia. Risultato?
Quello che fa Martin con questo disco è dire a tutte le band del pianeta: toh. Un “toh” lungo ottanta minuti e passa. E’ banale, lo so, ma sentite dei passaggi di “Tomorrow Never Knows” e ci ritroverete tutto il neofolk, sentite la chitarra di “I Want You” che spazza via lo stoner, e certi ritmi che anticipano punk, punkfunk, funkpunk, *unk, e altro. Toh. Per non parlare di quello che Martin ha detto con Love ai “mashuppers” del globo (non riferisco, perché sarebbe volgare e quel gentiluomo di Sir George non apprezzerebbe): mischiare la linea di basso di un pezzo con la batteria di un altro, rallentando o velocizzando le tracce, in maniera perfetta e naturale, creando qualcosa di nuovo e riproponendo qualcosa di ben conosciuto, in un rimando continuo e fluido tra le due (o più) parti.

Già, mettendo mano ai pezzettini di nastro: ma in fondo queste erano cose che lui e la band, in studio, facevano sempre, di continuo. La ricerca sulla produzione, oltre che sui timbri e sulla forma canzone, ha sempre fatto parte dei Beatles: in Love è portata ai massimi livelli, viste anche le possibilità che la tecnologia offre oggi. Comprate la versione cd+dvd: sentire questo disco in surround è un’esperienza, davvero, anche senza drogarsi prima. Credo.
Non voglio arrivare a dire che “se i Beatles fossero tornati in studio” eccetera eccetera, no. Ma questo disco è corretto da un punto di vista filologico e, permettetemelo, “spirituale”: non è “muzak”, non ci sono pacchianate: Love è più divertente di un film, coinvolge e appassiona. E, in fondo, è “solo” musica dei Beatles.
No, non tutta, a dire il vero. C’è una singola cosa che non proviene dai nastri di Abbey Road, una sola. Un nuovo arrangiamento per archi per “While My Guitar Gently Weeps”. L’ha scritto George Martin ex novo. Ma del resto aveva scritto anche la partitura per il quartetto di “Yesterday” e il sestetto di “Eleanor Rigby”. Gli sono riusciti abbastanza bene. E sono sicuro che da qualche parte King George approva, ancora una volta.

Un semplice divenire

Non ho mai parlato su queste pagine della mia passione per Ludovico Einaudi: sinceramente credo di averlo scoperto grazie al film Fuori dal mondo, in cui c’erano alcuni suoi pezzi. Mi aveva conquistato la semplicità con la quale riusciva ad affascinare l’ascoltatore, e ho iniziato a procurarmi i suoi dischi e i suoi spartiti. Una melodia reiterata con la mano destra, mentre la mano sinistra andava e tornava sulle note fondamentali dell’accordo. Einaudi non è facile da suonare bene davvero, ma dà soddisfazioni enormi anche ad un principiante come me.
In tutta questa ammirazione ho sempre messo da parte qualcosa che, invece, salta agli occhi di chiunque si avvicini (giustamente) alla sua musica in maniera “laica”. E’ difficile contrastare qualcuno quando dice che, in fondo, quello che scrive Einaudi è un po’ tutto uguale. Ho avuto quest’impressione anche io sentendo uno dei suoi ultimi dischi, Una mattina, uscito nel 2004.

L’ultimo disco di Ludovico Einaudi, ha un titolo azzeccatissimo: Divenire. Non c’è più solo lui col piano. In numerosi brani è coinvolta la Royal Liverpool Philarmonic Orchestra e c’è un uso per una volta funzionale dell’elettronica. Questo fa sì che il piano lasci spazi ad altri timbri, ad altri strumenti: sono le sezioni di archi o i loop a gestire alcuni tratti caratteristici delle composizioni, come il divenire (appunto) di terzine in quintine e poi settimine. Scusate, mi sono lasciato trasportare. Non c’è forse bisogno di appellarsi a nozioni teorico-armoniche per sentire davvero un disco del genere: ancora una volta la semplice musica di Einaudi arriva dentro, da qualche parte, e stringe, o abbraccia, a seconda dei casi.
Un altro punto essenziale sono le influenze: se qualcuno vi dicesse che è uscito nel 2006 un disco di musica “classica” che però ha richiami precisi (tanto per dirne due) a Radiohead da un lato e a Vivaldi dall’altro, che ne direste? Vi verrebbe subito in mente qualche orrendo pasticcio di un cinquantenne che vuole rifarsi una verginità musicale senza scontentare i maestri del conservatorio. Niente di tutto questo: il disco è perfettamente in equilibrio: i richiami sono richiami, non scimmiottamenti. Sono suggestioni che Einaudi controlla benissimo, e, soprattutto, inserisce nella sua musica, rendendola davvero nuova, in mutazione verso qualcos’altro, ma senza intellettualismi o facili concessioni. Appunto, in divenire.

Ludovico Einaudi – Divenire – La primavera da confrontare con
Antonio Vivaldi – Le quattro stagioni – L’estate, terzo movimento: presto

Ludovico Einaudi – Divenire – Uno da confrontare con i suoni di Kid A e Amnesiac

Potrete sentire un’intervista a Ludovico Einaudi nella puntata di giovedì 7 dicembre di Sparring Partner: lo stesso giorno il pianista si esibirà con un sestetto d’archi e con strumenti elettronici all’Arena del Sole, nella data bolognese del “Divenire tour”.

Ecco l’intervista!

Quadri e quadretti: Pearl Jam – Palamalaguti, Bologna, 14 settembre 2006

La cassetta su cui avevo registrato Ten, il primo disco dei Pearl Jam, è una Sony HF 60, infilata in una custodia di un’altra cassetta: quelle della Sony sono trasparenti, mentre quella è nera, di plastica. I titoli delle canzoni sono scritti con un pennarello nero su un foglio tratto da un quaderno a quadretti. Credo di avere quella cassetta dal 1992, più o meno l’anno in cui comprai la mia prima camicia a quadri, di flanella, di quelle che si vedevano addosso ai vari gruppi grunge dell’epoca. L’anno dopo, credo, iniziai a lasciarmi crescere i capelli (“capelli lunghi non porto più, ma suono la chitarra”: scusate, è che quell’altro concerto…), che all’inizio avevano più o meno la lunghezza di quelli di Eddie Vedder all’epoca.
Lo dicevo sempre: se potessi scegliere che voce avere, vorrei poter cantare come il cantante dei Pearl Jam. Chiamatemi scemo.
Ma intanto, i Pearl Jam, non li avevo ancora visti dal vivo. Continuavo a registrare cassettine con live, e poi a comprare o masterizzare dei bootleg ufficiali, e a cantare guardando lo stereo. Non come Eddie Vedder.

Sono passati quattordici anni, e finalmente ce l’ho fatta a vedere i Pearl Jam in concerto, nonostante un’attesa sfiancante (per molti versi) sotto la pioggia, che ho preso tutta addosso: vi pare che un quindicenne ad un concerto si porti l’ombrello? Il quindicenne, completamente bagnato, nonostante quella cassetta e quella camicia siano nella casa natale, ormai, a scambiarsi quadri e quadretti, ha potuto cantare a squarciagola le canzoni di quella cassetta. “Even Flow”. “Porch”. “Why Go”.
“Black” (e i suoi cieli di altri, che all’epoca erano così platonici, adesso, invece, sono così concreti, reali e distanti in maniera quasi rassicurante, anche se la tinta rimane presente. Un pezzo che è la parte disperata e riflessiva della mia adolescenza*, e non solo. E anche di molti altri, mi sa, a sentire come la cantava il pubblico di ieri).

“Alive”.

Nonostante tutto.

La scaletta di ieri, tratta da www.pearl-jam.it: Elderly Woman Behind a Counter in a Small Town, Do The Evolution, Animal, Severed Hand, Given To Fly, World Wide Suicide, Save You, Even Flow, I Am Mine, Marker In The Sand, Green Disease, Daughter / (It’s OK), Alone, Whipping, Present Tense, Comatose, Porch
bis 1: Black, Better Man, Life Wasted, Alive
bis 2: Bu$hleaguer, Why Go, Baba O’Riley, Indifference

No, per dire. Che concerto meraviglioso.

* “Smells Like Teen Spirit”, invece, è la parte disperata e violenta della mia adolescenza. Oh, mi verrete mica a dire che avete avuto un’adolescenza felice? Per contratto la felicità innocente e pura finisce con la prima presa per il culo in prima media.

Gianni e le storie tese

Ieri c’è stata la mezza maratona di Bologna. Incredibile, sportivo come sono, che me la sia persa, ma ormai è inutile piangere sull’acido lattico (versato). Piuttosto, il giorno prima si è svolta una grande kermesse (non vedevo l’ora di scrivere questa parola sul blog) in attesa della competizione. Su un palco in piazza Maggiore si sono esibiti vari artisti, e anche gli Zero Assoluto.
Ma il clou della serata, presentata da un Linus che secondo me non vedeva l’ora di andarsene a correre il giorno dopo, è stata la presenza di Gianni Morandi, che tornava a suonare davanti a San Petronio dopo anni, insieme ad altri, tra cui la nostra blogger, nonché cantante, Syria. Ma soprattutto insieme agli Elio e le storie tese.
Me ne vado quindi in piazza pensando tra me e me che, da anni, vedo il simpatico complessino almeno una volta l’anno, e che avrò la fortuna di sentire “Fossi figo” cantata dal buon Gianni insieme agli Elii.
E invece la sorpresa non sono stati questi, ma proprio Gianni. Mai stato un fan di Morandi: va bene, da piccolo ho cantato anche io “Sei forte papà”, e forse anche “Fatti mandare dalla mamma”, ma insomma, non ho un suo disco uno.
Quando ho visto, quindi, che il concerto stava diventando – appunto – Gianni e le storie tese, con una serie di pezzi a me sconosciuti dell’artista bolognese, omonimo di quello delle nature morte, arrangiati con la band, mi sono detto “e vabbè”. Solo che Morandi ci crede davvero. Lui, in fondo, è quello su mille che ce l’ha fatta, ma è come se fosse ancora in salita. Salta, fa le faccette, gode, strilla, cioè, gli piace proprio cantare, e vuole davvero dare di più. Una rivelazione.
Ma il meglio è successo quando Morandi è letteralmente impazzito. Ha preso la chitarra e ha iniziato la serie dei suoi grandi successi: due parole alla band, tipo: “È in do maggiore”, o “Qui fammi un assolo”, e via: “In ginocchio da te”, “Non son degno di te”, “Se puoi uscire una domenica sola con me”, eccetera. Delle storie tese, ovviamente, il più in palla è stato Rocco Tanica, che credo sia veramente un mostro assoluto, in grado di suonare tutto e subito. Faso e Cesareo un po’ in difficoltà, ma quello veramente in palla – si fa per dire – era Christian Meyer, il batterista. Essendo egli svizzero, “fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” era al massimo la frase per fare sì che lui e la sua fidanzatina si imboscassero tra le Alpi e i verdi pascoli, tra i monti che sorridono e le caprette che fanno ciao.
Come fare, quindi? Semplice: appena iniziava un pezzo, Elio, vicino al batterista, gli mimava il ritmo. Tempo due battute e lo svizzero andava. Uno spettacolo.
Lo so, lo so. Che razza di giovane sono, che vi parlo del concerto di Morandi e non di quello dei TV on the Radio di ieri? Ma di quello hanno già parlato in tanti, e benissimo. Io, invece, mi sono sorpreso ad emozionarmi mentre le migliaia di persone in piazza Maggiore cantavano all’unisono “C’era un ragazzo”.
Ma “Sei forte papà” non l’han fatta, per la cronaca.

I padri del rock

Aspettavo la serata di ieri da un paio di settimane. Dopo la passeggiata, infatti, mi ero dato appuntamento con E. per andare insieme al Boca Barranca di Marina Romea dove ci sarebbe stato il concerto di John Parish. Ma, oltre al concerto, E. mi diceva da mesi che voleva assolutamente farmi conoscere anche “Marta, Jean-Marc e Giorgia”, di cui mi parlava come fossero amici suoi. Io non sapevo chi fossero, e di Parish conoscevo solo il lavoro come produttore, toh, avevo sentito molto Dance Hall at Louse Point, quando era uscito, ma poi basta. Degli altri, sapevo solo che suonavano con lui. Mi immaginavo, quindi, una cena di pesce con E. e poi, al massimo, una birretta “con” gli altri, della serie io guardo e ascolto e sorseggio una media e basta.

Parish, appena ha visto E., l’ha abbracciata, poi si è presentato a me, e, così, abbiamo iniziato a parlare. Immediatamente siamo stati invitati a cena con loro, e quindi io mi sono trovato a cena di fianco a John Parish, a parlare di lavoro, del tempo, di musica, mentre le sue splendide bambine (una, in particolare, è davvero la bambina più bella che abbia mai visto, un incrocio perfetto di Tori Amos e Bryce Dallas Howard) mangiavano fritto misto e facevano disegni.
Durante la cena ho conosciuto gli altri membri del gruppo, il fonico, il chitarrista dei MiceVice. E. continuava a presentarmi a tutti, fino a che io, in preda alla frenesia, mi sono presentato allo scampo che troneggiava sulla mia pasta allo scoglio, e poi l’ho mangiato.
Tutti erano un po’ preoccupati di dover suonare (visto il tempo pessimo) all’interno del locale: insomma, suonare in una pizzeria mentre la gente mangia mi faceva venire in mente la scena de “I Blues Brothers”, quando si trovano ad esibirsi nel locale western al posto dei Good Ole Boys. Mi immaginavo lanci di rucola e olive. Oltre che di birra. E senza rete di protezione.

E invece il concerto è stato magnifico, la gente ha smesso di mangiare e ha seguito tutta l’esibizione, lottando (come il gruppo e noi altri) contro il caldo e il forte odore di grigliata di pesce, cose che, capirete, un po’ distraggono. Nessuna scena da “Taverna di Boe”, insomma, a parte una. Avete presente quando nel film, dopo l’inizio difficile, i Blues Brothers intonano “Stand by your man” e tutti si commuovono? Beh, ad un certo punto la piccola bimba Parish è salita sul palco: immaginatevi un esserino con i capelli rossi alto meno di un metro, con il pollice di ordinanza in bocca, la maglietta con la copertina di “Led Zeppelin II”, che ondeggia, un po’ stanca, al ritmo delle canzoni del padre, accanto a lui. Beh, si sono commosse anche le orate nei vassoi.

Poi è arrivato anche Howe Gelb e famiglia e i Giant Sand. Forse l’immagine più bella della serata che mi è rimasta impressa è quella di John e Howe, con le loro ultimogenite sulle spalle, che vanno verso il mare, sulla spiaggia buia.

Epilogo 1. E. ed io ci avviciniamo a Marta, per salutarla, e vediamo che parla con una bionda e un altro uomo. Quando se ne vanno, dice a me ed E. “Ma sapete chi è quella? Isobel Campbell”. Dopo un attimo di silenzio, in cui abbiamo pensato “Quella cicciona?!”, abbiamo solo detto “Ma va’?”
Epilogo 2. In macchina, al ritorno, parlando di quello che fanno Giorgia, Marta e Jean-Marc, E. mi dice con nonchalance che Jean-Marc (con cui ho chiacchierato per un po’) è il batterista dei Venus, un gruppo belga pressochè sconosciuto, ma che ha fatto un disco bellissimo 
Welcome to the dance floor. Io ci rimango di sasso, un po’ la insulto perché non me l’ha detto prima, ma lei, sorridendo, mi ha rassicurato che lo rivedrò presto, lui e tutti gli altri. Perché non crederle?

Square Love Parade

Quando i miei amici erano tornati dal concerto dei Flaming Lips al Velvet di Rimini, qualche anno fa, ero convinto che fossero stati vittime di un’allucinazione collettiva. Con occhi spiritati mi avevano raccontato di palloncini colorati, coriandoli, stelle filanti, pupazzi enormi, Teletubbies e tanto, tanto amore. ” E vabbè, avevano l’erba buona”, avevo pensato io, scettico.

Sono andato ieri a Ferrara con più o meno gli stessi amici che erano stati a Rimini, pensando: “Vabbè, l’erba buona ce l’avranno anche stavolta.” Del resto il pomeriggio prometteva bene, in quanto a stranezze.
Prima dei Flaming Lips ci sono stati gli Ok Go, una di quelle band sulle quali ti sforzi di dire due parole in più di “Ma sì, dai”, ma non ce la fai. Tant’è che la parte migliore del loro set è stato un balletto finale che – mi dicono – era quello di un video che ha fatto avere loro i quindici minuti di celebrità.

Poi è stata la volta dei Flaming Lips. Wayne Coyne, il cantante, è comparso dal cielo in una bolla enorme di plastica morbida, e si è rotolato sul pubblico, che lo reggeva con le mani. Poi degli invasori spaziali l’hanno aiutato ad uscire, mentre dieci Babbo Natale lo illuminavano con dei fasci di luce, la platea è stata invasa da enormi palloncini bianchi, coriandoli e stelle filanti, ed è iniziato il concerto con “Race for the prize”. I palloni bianchi sono stati sostituiti da Capitan America, Thor, Batman e Superman con palloni ancora più grandi blu e gialli. Abbiamo urlato “Fanatical – Fuck!” decine e decine di volte. Abbiamo detto “yeah-yeah-yeah-yeah” all’amore e “no-no-no-no” all’odio. Abbiamo cantato la reprise di “Yoshimi” con una suora. E infine abbiamo inneggiato all’amore eterno insieme ai Teletubbies. Ma c’è stata la sorpresa finale: una cover di “War Pigs” dei Black Sabbath, con la quale i Flaming Lips hanno chiuso il loro concerto, uno dei più belli che abbia mai visto nella mia vita. E ce ne siamo tornati a Bologna in Vespa, come da tradizione, pieni di sorrisi e amore.

Ho letto un post sul concerto dei Flaming Lips a Ferrara. Mah, non ci credo molto a quello che il tipo ha raccontato. Secondo me si è strafatto, e ha immaginato tutto, altro che. Però, per sicurezza, la prossima volta ci vado anche io.

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