live

Letture d'attesa

Ok, ora sono in onda, ma tra qualche ora sarò a Ferrara per il concerto dei Pixies. In occasione della prima data all’aperto di Ferrara sotto le stelle 2010, quei mattacchioni di Ciccsoft distribuiranno un foglio sulla band americana a metà tra il buffo e il nostalgico che si avvale di firme prestigiose, e della mia, anche.
Vasco Brondi, Enzo, Accento Svedese e Simone sono stati chiamati a raccontare chi sono i Pixies per loro. Io ho usato la parola “sbilenco”, più di una volta. Se non siete in piazza Castello stasera, potete scaricare il tutto qua.
Grazie a voi che leggete e ai Ciccsoft boys per la preferenza.

The Residents, The Texas Chainsaw Massacre e l'inossidabile Sigmund

Non sapevo davvero cosa aspettarmi dal concerto dei The Residents di venerdì scorso all’Estragon. La band, in attività da una quarantina scarsa d’anni, è davvero uno dei casi più strani della storia della musica del secolo scorso. Non si sa chi siano, non rilasciano interviste, non appaiono mai senza maschere e, soprattutto, da decine di anni fanno esattamente la musica che vogliono, senza alcun tipo di compromesso, perseguendo la loro visione artistica (e quanto è bello usare questo termine quando ha senso).
Il locale alla periferia nord di Bologna, l’altra sera, si presentava già in maniera diversa dal solito: tutti seduti, un palco che ricordava una sorta di salotto, con tanto di abat-jour, televisione e poltrona. Tutti si chiedevano come sarebbero apparsi sul palco Randy e soci (i nomi li sappiamo, ma vuol dire ovviamente poco). Vestiti da conigli? Nel classico costume a forma di globo oculare?

Poco dopo le 22, i tre Residents rimasti hanno fatto la loro comparsa: Randy con una calotta di gomma che gli copriva metà faccia e gli dava le sembianze di un vecchio dai capelli lunghi e l’aria spettrale, gli altri due con delle maschere nere e parrucche. Ed è iniziato lo spettacolo. Già, perché dire che quello della band californiana (si sa anche questo) sia un concerto è scorretto, non solo riduttivo. La musica e le “canzoni”, si alternano a video e lunghe narrazioni di Randy: tutto è esplicito. “Benvenuti nel nostro salotto, oggi vi racconterò delle storie. Alcune di esse sono spettrali.”
E via con gente sepolta, il “popolo dello specchio”, apparizioni e fantasmi, tutte storie narrate come si farebbe intorno a un camino, ma con un livello di inquietudine, trasmesso dall’impatto visivo dei tre, decisamente maggiore.

Durante lo spettacolo ho riflettuto su quello che stavo vedendo, a partire da un dato curioso: il primo disco dei The Residents è uscito nello stesso anno di Non aprite quella porta. Un caso? Forse, ma le assonanze tra i due eventi (e lo spettacolo di venerdì) sono tantissime.
Il film di Tobe Hooper, lo sapete, è agghiacciante: trenta e passa anni dopo la storia di alcuni ragazzi “normali” che vengono massacrati da una famiglia non tanto normale, che abita in una casa ordinaria, in una città come ce ne sono migliaia negli USA, è uno stereotipo. Ma all’epoca il film scioccò non tanto per la violenza del film (che pure è pesantissima), quanto proprio per l’idea che l’orrore fosse dietro l’angolo, a portata di mano, nella pulita e linda (per modo di dire) America. In realtà già da qualche anno il cinema americano indipendente sfogava i mostri dell’inconscio collettivo attraverso un nuovo modo di fare horror: ma i morti viventi di Romero (1968) erano altro. Erano zombie, non (più) umani, uscivano dalle tombe: un’ottima metafora psicanalitica, ma anche una presa di distanza, qualcosa che poneva un’area di sicurezza, per quanto labile, tra la quotidianità e l’orrore. Non aprite quella porta, invece, inizia con un cartello che dice, in sostanza, che la storia è vera. Anche qua, un elemento scontato nel 2010, ma mica tanto nei primi anni ’70 del secolo scorso, sebbene si trattasse di una trovata pubblicitaria.
Insomma, era la distorsione del normale che operava negli spettatori del film di Hooper: la famiglia degli sterminatori era, in fondo, una famiglia, con le sue regole e le sue posizioni. E la famiglia, si sa, sta alla base di quasi tutte le forme sociali, è il primo legame e legante. Da notare, inoltre, che il salotto ha una sua importanza, nell’economia del film.
Cosa c’entra tutto questo con The Residents?

Pensiamo sempre al 1974: il loro primo disco si chiama Meet the Residents, e l’assonanza con l’edizione americana del quasi omonimo disco dei Beatles ha come correlativo la copertina, che vedete qua a fianco. Una distorsione, corrosione, stravolgimento della comunque riconoscibilissima immagine del disco degli inglesi, che comunque, quattro anni dopo lo scioglimento, erano una certezza, qualcosa di condiviso. Ma andiamo alle canzoni: la prima è uno stravolgimento totale della hit portata al successo da Nancy Sinatra “These Boots are Made for Walking”. E si continua con urla, melodie popolari passate al tritacarne, schizzi di acido su strutture ben note (familiari!) della tradizione americana, o anglosassone. Tutto è riconoscibile, eppure diverso. Esattamente come il salotto sul palco dell’Estragon.
Ma non mi sto inventando niente: il buon Freud aveva capito (e spiegato) tutto nello stracitato saggio sul perturbante che, come sapete, in tedesco si dice Unheimlich: una parola che include ed esclude allo stesso tempo la vicinanza, la familiarità, il riconoscibile.
The Residents hanno messo in scena la stanza della condivisione familiare, il salotto, e hanno raccontato da là delle storie, un altro elemento di coesione sociale e culturale. Ma le storie erano distorte, bizzarre, inquietanti. Il continuo passaggio da riconoscibile/riconosciuto, familiare/vicino, noto/esperito, a sconosciuto, lontano, ignoto è quello che ha fatto sì che fossi affascinato, spaesato e turbato allo stesso tempo.
E, quando sono usciti di scena sulla melodia poi presa dalla Coca-Cola per un famoso spot, ho capito che, ancora una volta, il lato oscuro degli USA, e non solo, è appena più in là del celebrato “American way of life”. Probabilmente, dietro quella porta chiusa che dà sul salotto.

L'importanza di sorridere mentre si suona

Il concerto degli Efterklang al Covo di mercoledì scorso, diciamolo subito, è stato eccezionale: la band, dal vivo, dà molto di più che su disco, sebbene la qualità, l’inventiva e le capacità musicali dei danesi siano evidenti anche ascoltando i loro brani registrati in studio.
Sette musicisti sul palco, ognuno dei quali con in mano almeno due strumenti, oltre alla voce: raramente il leader, Casper, era da solo a cantare. I brani, per lo più estratti da Parades e dall’ultimo Magic Chairs, sono stati resi in maniera perfetta, superando anche i ben noti problemi di acustica del club bolognese (tanto di cappello a chi si è occupato dal gravoso compito di curare i suoni).

Ma questo è stato solo uno dei motivi che mi ha fatto rendere conto della bellezza del concerto al quale stavo assistendo. Ne ho visti di concerti perfetti, ma raramente ho visto l’emozione nei musicisti. Purtroppo sempre più spesso ti capita di guardare ventenni con un disco all’attivo che sono freddi come il ghiaccio: ogni loro mossa, ogni accordo, mostra consapevolezza e un distacco che io mi posso aspettare da gente che calca le scene da decine di anni, non da ragazzini che, per quanto bravi, chissà se dureranno fino al terzo album. Gli Efterklang, invece, mostravano riconoscenza. Erano meravigliati del calore e dell’affetto del pubblico del Covo. Ringraziavano, ma sinceramente, tutti quanti, guardandoci in faccia, viste le dimensioni del palco e del locale. E, soprattutto, erano felici e visibilmente emozionati, senza che questo intaccasse minimamente la perfezione dell’esecuzione dei brani. Sorridevano, perché si rendevano conto di essere fortunati a fare quello che stavano facendo, davanti ad un pubblico di una città poco conosciuta nell’Italia centrale che dimostrava di amarli. Nel giro di qualche canzone, si è innestato una specie di circolo virtuoso, che ha esaltato tutti, anche dopo la fine del concerto. Sull’autobus del ritorno, un ragazzo ci ha visti e ha solo detto, con un sorriso smagliante: “C’eravate anche voi due, eh?”. E non ha aggiunto altro, perché bastava quello.

Abbiamo fatto il trenino – Express Festival 2010

A differenza dell’anno scorso, dove ho fatto l’en plein o quasi, quest’anno ho partecipato a tre concerti su cinque dell’Express Festival, anticipato di un mese e tenuto per lo più dentro al Locomotiv. Se cliccate sulle foto andate al set, per i primi due concerti. Ieri avevo la macchina fotografica ma senza pile. Genio. Ah, nei prossimi giorni sul sito di Maps trovate le interviste ai protagonisti del Festival.

Efrim MenuckSpirito Collettivo – Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra (8 aprile). Sono stato sempre un grandissimo fan dei Godspeed You! Black Emperor, e ho ascoltato ogni volta con attenzione i lavori della band capitanata da Efrim Menuck. Non sempre mi hanno convinto, ma l’ultimo Kollaps Tradixionales è davvero un ottimo disco. Sentendo Menuck in radio nel pomeriggio prima del concerto, mi ha stupito la sua loquacia e quello che ha raccontato del modo che ha la band di prendere i live: il dialogo col pubblico, la “deromanticizzazione” dello status di band, mi ha detto, sono importanti quanto la musica. E così è stato. Un set lungo e impegnativo, di quasi due ore, per brani che principalmente sono stati presi dall’ultimo disco, cinque persone sul palco (voce e chitarra, batteria e tastiere, due violini e contrabbasso) per un concerto davvero meraviglioso, che ha sfruttato tutta la lineup, coinvolgendo i cinque, ad un certo punto, in un canone da brividi. E l’alternanza tra i maestosi crescendo della band su Constellation e le chiacchierate col pubblico (Menuck ha ironizzato su tutto: dalla non esistenza del Canada, al presentare il suo gruppo prima come Foo Fighters e poi come Death Cab for Cutie) sono state spiazzanti e stimolanti al tempo stesso. Uno dei concerti della stagione.

Hayden Thorpe

Buoni e cattivi – Wild Beasts + These New Puritans (9 aprile). Sono andato al Locomotiv venerdì per i TNPS: il loro ultimo Hidden è bellissimo, e segna davvero un passo avanti rispetto alle spigolosità, talvolta pretenziose, di Beat Pyramid. Avevo ascoltato distrattamente, invece, il pur bello Two Dancers dei Wild Beasts, ma la sensazione che ho avuto dalle due band della Domino Records si è rivelata all’opposto delle aspettative. I Wild Beasts sono stati carichi e eccellenti. Le canzoni, non tutte indimenticabili, sono state suonate con passione e precisione, dando spazio alla musica, e costringendo i due vocalist della band a scambiarsi basso e chitarra con una rapidità fin troppo esagerata. Ma si percepiva che le luci, i cambi di strumento, l’annunciare le canzoni, erano elementi secondari: la band britannica ama la musica che fa, e ama il pubblico. Risultato? Una bellissima sorpresa.
I These New Puritans si sono fatti attendere: dopo il primo set, il Locomotiv ha visto il sipario chiudersi, per chissà quale allestimento di palco, pensavamo noi là sotto. E invece, davvero poca roba: set preso quasi tutto da Hidden, con uno scialbo (e unico) bis con “Elvis” hit del primo disco suonata con una poca voglia e un’energia scarsa da mettere in imbarazzo. Ma l’approccio dei TNP è stato questo anche al Covo due anni fa: non confondiamo, però, l’afflato “punk” con la mancanza di voce o lo scazzo sul palco, per favore. Dimenticabilissimi.

Avanguardie – Stefano Pilia + Massimo Volume che sonorizzano La caduta della casa Usher (11 aprile).  Ultima giornata del Festival con l’appuntamento più colto della cinque giorni. Stefano Pilia propone da solo sul palco la sua visione di musica, che sta diventando sempre più definita e personale. L’uso dell’arco sulla chitarra (una cosa che fanno decisamente in troppi, ormai) è giunto a raffinatezze tecniche e armoniche eccellenti. La seconda parte del breve set, invece, è più rumorista, e fa uso massiccio di feedback, registrazioni, masse sonore sovrapposte. Interessante, sebbene non facile.
I Massimo Volume, poi, hanno riproposto la “cosa” che li ha fatti tornare insieme, due anni fa. Il Museo del Cinema di Torino ha innanzitutto fatto un regalo alla band bolognese, assegnandole la sonorizzazione di uno dei film più belli della storia del cinema: sono passati più di ottant’anni dalla realizzazione di questo capolavoro, che, pur prendendo spunto principalmente dal racconto omonimo di Poe è, in realtà, una summa dell’opera dello scrittore di Baltimora, eppure La caduta della casa Usher riesce a sbalordire per l’ardire della messa in scena e per la freschezza del racconto. I Massimo Volume hanno creato intorno all’opera una musica che sfrutta benissimo il ritmo della narrazione, alternando momenti più rumorosi a (vivaddio) silenzi, ma non si sono limitati a un tappeto: le melodie, le strutture tematiche, le soluzioni talvolta quasi pop che la band ha scelto sono uno dei migliori esempi di sonorizzazione intelligente che si siano visti di recente. Eccezionale.

Cose per cui vale la pena di vivere

Sono passati quasi sei giorni e ancora non ci credo: Woody Allen a una manciata di metri da me, che suona. L’avevo mancato a New York, qualche anno fa, e (grazie ad un regalo, anzi, ad un Regalo) sono riuscito a vederlo a Roma, mercoledì scorso, nell’ultima data italiana della tournèe europea della sua New Orleans Jazz Band. Che dire?
Innanzitutto che è molto difficile rendersi conto che tra me, seduto in terza fila all’Auditorium della Musica, e lui, non c’è uno schermo, televisivo e cinematografico. Lui, uno dei miti della mia vita, è là, con i suoi pantaloni di velluto a coste che suona.
Poi, che è vero quello che si dice: è molto meglio come regista, scrittore, attore, che come musicista, ma chi se ne importa. Le uniche cose che ha detto sono state di mettersi seduti comodi e rilassarsi ascoltando dei vecchi brani che andavano per la maggiore nella New Orleans di quasi un secolo fa.
E l’impressione è quella di vedere un gruppo di vecchi amici che, invece che giocare a poker, a scacchi o a Monopoli, stanno lì e suonano: principalmente per loro e poi per chi vuole stare a sentirli. Il fatto che fossimo in tantissimi (tra noti e meno noti) il 31 marzo a Roma, be’, sono cose che capitano, quando in mezzo alla tua band c’è quello là che suona il clarinetto.
Per concludere, il finale (e come vogliamo concludere, se no?). Quel “Bella Ciao” riarrangiato in versione dixieland, suonato nella città simbolo dell’ennesima sconfitta elettorale della non destra, anche se me lo aspettavo, avendo letto le cronache dei concerti di Montecatini e Venezia, mi ha fatto venire la pelle d’oca. Per questo vi dono un video fatto malissimo, a causa dell’emozione e dei severi inservienti dell’Auditorium. È qua sotto.
[youtube=http://youtu.be/ohch-y7qqbI]

Welcome to England

Eccoci qua. Non vi preoccupate, non vi ammorbo con post lunghissimi, tanto più che quello che ho fatto in Inghilterra negli scorsi giorni è stato vedere concerti (e ne ho parlato sul sito di Maps). Quindi, di seguito, piccolissime note prese al volo, con tanto di fotografie altrettanto estemporanee scattate col cellulare (cliccateci su se le volete vedere grandi), tra Londra e Bristol.
Venerdì 4 dicembre. Vengo accolto da Valido (grazie, grazie, grazie) e andiamo subito in un bel pub a magnare purè e salsiccia. Ci raggiungono anche l’amica C. con fidanzato. Si chiacchiera, ed è strano trovarsi a Shoreditch, perché il tavolo su cui stiamo è davvero familiare, per le cose che diciamo, la voce, la lingua. Vado in bagno e vedo una scritta sulla porta: “You’re smiling, but are you happy though?”. “Yeah”, dico, prima di accorgermi che per terra c’è del liquame. “Fuck yeah”, aggiungo, scrollando la scarpa.
Sabato 5 dicembre. Torno alla National Portrait Gallery dopo secoli, per vedere la mostra “From Beatles to Bowie”, che, peraltro, è bellissima. Ogni stanza dedicata a un anno, dal 1960 al 1969. Beatles, ma non solo. Valido, giustamente, mi fa notare che, mano a mano che gli anni passano, i soggetti ritratti hanno i capelli sempre più lunghi. È davvero tenero vagare con lo sguardo tra fotografie giganti, pubblicità di dischi, copertine. Tutto richiama la mia attenzione. Quindi dopo, molto godardianamente, decidiamo di passeggiare (letteralmente) tra le sale della National Gallery, buttando l’occhio qua e là tra capolavori del passato più o meno noti. Leggerezza.
Domenica 6 dicembre. Arrivo a Bristol, dove vengo accolto da P. Rapido giro della città, e la sensazione che ho, venendo da Londra, è la stessa che, ormai tre anni fa, mi accolse a Boston, giunto da NYC. Un rallentamento del ritmo, una calma e una pace quasi fastidiosa. A Bristol fa più freddo che a Londra, ma c’è un clima umano più tiepido. Sfortunatamente, ma ce lo potevamo aspettare, gli studi della Aardman sono chiusi: anche da fuori, però, sembrano dei semplici uffici. Guardo un po’ le mura dell’edificio che li ospita, pensando a Wallace&Gromit e a tutta la plastilina che quelle stanze contengono.

Lunedì 7 dicembre. Appena tornato da Bristol, via al concerto degli Alice In Chains. A parte il concerto vero e proprio, la sorpresa sarà vedere la bellezza del posto che lo ospita, la Brixton Academy. Ma anche il suo esterno non è male. Vedere la scritta ALICE IN CHAINS su sfondo neon ti fa pensare subito di essere in un periodo tra il 1950 e il 1995 (ma non oltre). Sono emozionato ben prima che Jerry Cantrell e soci colleghino i loro strumenti. Ancora non so quanto sarò emozionato durante e dopo. Wow.
Martedì 8 dicembre. Passeggio mollemente per le vie del centro di Londra e capito al British Museum. Anche quello non mi vede da anni e anni, quindi varco l’imponente soglia dicendo “Ma sì, dai”. Mi perdo, ovviamente, tra le sale, e vengo rapito da mummie, statue, gioielli, armi, pannelli esplicativi, bassorilievi, steledirosetta, eccetera. Giungo casualmente ad una sala dedicata alla storia delle monete e delle banconote. Vago tra le bacheche quando, d’un tratto, qualcosa di familiare richiama la mia attenzione. “Quella faccia la conosco”, penso. È quella di Bossi, stampata sulle 500000 lire del “conio padano”. La banconota è ben esposta in una teca che raccoglie monete politiche o commemorative. Due righe sotto Bossi, una moneta di Harry Potter. E tutto, quindi, ha un senso.

Dalla prima all'ultima carrozza – Express Festival 2009

Sette concerti in dodici giorni, band diverse tra loro, due location e infiniti cambi di temperatura. Ehm, cercherò di essere breve. Se cliccate sulle fotine, ne potete vedere delle altre. Pensate un po’.

Lydia LunchDal 1977 con amore – Lydia Lunch (20 maggio)

L’avevo intervistata nel pomeriggio a Maps, e aveva concluso la telefonata dicendo letteralmente “portatevi le palle, perché avrò il pisello di fuori”. Questa è Lydia Lunch. Un personaggio che è entrato a gamba tesa nella no wave newyorchese e che lì è rimasta, ben sapendolo. Una carriera fatta di dischi fondamentali e altri decisamente meno riusciti. Sul palco del Locomotiv dice “siamo nel 1977”: prendere o lasciare. Vestita in maniera improbabile, tortura la sua chitarra, ma tira fuori uno spettacolo divertente e consapevole di essere qualcosa di altro, che viene da un altro tempo. Pubblico variopinto e composito, ma quelli, anzi, quelle più truccate non erano nate quando la giovane Lydia faceva comunella con James Chance. Decisamente un bell’inizio.
Sweat, sex, rock’n’roll – Boss Hog e Micragirls (21 maggio)
Cristina MartinezSeconda giornata del Festival all’insegna del sesso e del sudore. Le Micragirls sono tre finlandesi giovanissime, che fanno un garage rock sghembo e scanzonato, divertente. Poi salgono sul palco i Boss Hog: Cristina Martinez non si risparmia, così come Jon Spencer e gli altri della band. Pantaloni di pelle, repertorio preso dai dischi dei Boss Hog, con canzoni che sembrano non vedano l’ora di uscire da bocche, chitarre e tamburi, dopo otto anni di assenza della band dai palchi. Uno dei migliori concerti dell’anno. Giudizio che, lo ammetto, potrebbe derivare anche dal fatto che l’ho seguito tutto in prima fila, a una spanna di distanza da quella meraviglia che è (ahimè) la moglie di Jon Spencer. Eccezionali.
Genesis P-OrridgeMutations – Psychic TV (28 maggio)
La band di Genesis P-Orridge inaugura la seconda tranche dell’Express, all’Arena Puccini. Come nel caso di Lydia Lunch, siamo trasportati altrove, in una dimensione altra, data prima di tutto dall’ormai avvenuta mutazione di Orridge nella sua scomparsa signora. Caschetto biondo, occhi perennemente sgranati, movenze che tentano di essere sexy e provocanti. Ms Genesis ce la mette tutta, e così la sua band. Quello che tirano fuori è uno spettacolo divertente, ma sfuggente, talvolta poco compatto. Rimane, però, una sensazione di divertissement, di intrattenimento che, alla fine, ripaga. Certo, un po’ più di energia non avrebbe guastato, ma in fondo la signora ormai ha una certa età, sebbene sembri comunque più a suo agio a fare le mossette su un palco che a servire il te delle cinque.
Torsten KinsellaSpace Trip – God Is an Astronaut e Nicker Hill Orchestra (29 maggio)
La Nicker Hill Orchestra suona un post rock diligente e ben fatto, ma forse deve ancora acquisire forza e compattezza per risultare efficace. Dopo di loro, finalmente vedo la band irlandese, al chiuso del Locomotiv Club. Ed è uno dei live che vale la pena di vedere in quanto concerto dal vivo. Mi spiego: i tre tirano fuori sul palco dei suoni infinitamente migliori che su disco, e danno ancora senso all’abusata espressione “post rock”. Non lasciano un attimo di tregua, affascinano e coinvolgono, senza avere paura di cadere, in certi momenti, in squarci di riff e ritmi quasi-metal, per poi risollevarsi eterei su nel cielo, portandoci un po’ dove vogliono loro. Quando, dopo un’ora e passa, il concerto finisce, si è quasi storditi, e si vorrebbe fare un altro giro, subito. Un solo appunto: è lodevole l’idea dei God Is an Astronaut di associare dei visual ad ogni brano, è buona parte dello spettacolo, ma molti dei video sembrano davvero visti e rivisti. Peccato, no?
Matmos liveMinimalia – Matmos e Macchine sonore (30 maggio)
Macchine sonore è un progetto di Dario Neri, che, usando materiali industriali (telai, ruote di acciaio, martelletti) e vari pedali, crea loop ipnotici e affascinanti. Forse la location dell’Arena Puccini, in questo caso, non ha aiutato, ma comunque il progetto è da tenere d’occhio. Dario rimane sul palco anche quando ci salgono i Matmos. Il duo è spiritoso, simpatico e decisamente a suo agio. Il set che propongono, però, si rivela alla fine un po’ noioso. Certo, i Matmos riescono a tirare fuori suoni davvero da tutto: il momento davvero memorabile del concerto è una partita a dadi (con dadi da venti, i nerdacci che sono) che diventa una base per un brano musicale. Ma non mi basta, che vi devo dire?
Akron/Family liveIndiegestione – Akron/Family, Women e His Clancyness (31 maggio)
Penultimo giorno del Festival dedicato più di altri alla musica indie, qualsiasi cosa questo termine ormai voglia dire. A patto che voglia dire qualcosa. Del progetto di Jonathan dico solo bene: ormai ha acquisito una sua forma e dimensione, con brevi brani sognanti e eterei, che si reggono bene sulle trame di chitarra e voce e su loop di batteria. Ma la vera sorpresa sono i Women. La band canadese, lo ammetto, su disco non mi aveva convinto gran che. Brani che sembravano essere complicati ad hoc, con suoni creati apposta per tenere a distanza l’ascoltatore. Dal vivo i Women si riscattano ai miei occhi: la sezione ritmica è semplicemente incredibile, e anche le canzoni sembrano concedersi un po’ di più, senza perdere la loro complessità. Pubblico entusiasta, e credo che questa soddisfazione sia derivata davvero, più che da “ehi, dopo avere ascoltato il loro disco d’esordio mille volte me li vedo finalmente dal vivo”, da un “ma chi accidenti sono questi? Ehi! Vado a scaricarmi il disco (siamo nel 2009, facciamocene una ragione)”. Infine, Akron/Family. Beh, partiamo dal presupposto che non li ho mai amati molto, è la prima volta che li vedo dal vivo e mi fanno una certa impressione. Sono eccezionali a suonare, hanno una coesione invidiabile tra di loro, ma dopo un’ora di concerto sono semplicemente stanco. Stanco, sì, non ho più voglia di seguirli, hanno dato a sufficienza in sessanta minuti. Invece lo show dura per altri venti, almeno. Che i fan della band non me ne vogliano, ma qua bisogna togliere, avere il coraggio (sempre a mio parere) di fare set più corti, e magari più efficaci.
Sunn O))) liveOmbre e nebbia – Sunn O))) (1 giugno)
L’Express Festival si conclude di nuovo dentro il caro, vecchio Locomotiv Club, con uno dei concerti più attesi dell’anno. I Sunn O))), che hanno appena pubblicato Monoliths and Dimensions, per me già uno dei dischi dell’anno, tornano in Italia con un tour che celebra i dieci anni dall’uscita di The Grimmrobe Demos, rifacendo il disco per intero dal vivo. Lo potete vedere dalle foto: il Locomotiv completamente ricolmo di fumo, le figure incappucciate di Stephen O’Malley e Greg Anderson che si intravvedono appena sul palco, l’aria che risuona di accordi bassissimi e potenti per più di un’ora. I Sunn O))) portano all’estremo l’idea di concerto, e forse anche di musica: assistere a un loro concerto, chiamiamolo così, è davvero un’esperienza sensoriale, fisica, che prova e sconquassa. E’ qualcosa di vicino a una performance di arte contemporanea, più che altro. Ma i due sanno decisamente il fatto loro: ascoltare l’ultimo disco per credere (o per ricredersi). Una serata memorabile.
Ecco qua, insomma. Le ultime parole di questo lungo post vanno, però, al Locomotiv, il posto dove ho passato, anche quest’anno, un sacco di tempo, dove ho messo i dischi, visto concerti, bevuto e chiacchierato. Dove mi sono divertito e consolato. E quindi grazie a tutti quelli del Locomotiv, a Gabriele, Michele e i ragazzi del bar, e i fonici, e tutti, davvero: perché ci vuole coraggio, di questi tempi, in credere in quello che fate. Bravi. Non vedo l’ora che sia settembre per ricominciare.

Ah, la musica, la musica, la musica, la musica…

La musica (il titolo è preso da qua), si sa, guarisce e consola. Di conseguenza, una bella due giorni di musica è quello che ci voleva.
Ieri, al Bronson, bel concerto dei Giant Sand (e “rivedo” Howe Gelb dopo la cena di due anni fa). Se siete curiosi, ci sono le foto.
Venerdì, festa del Future Film Festival al Locomotiv: grazie, eravate un sacco a ballare la musica che abbiamo messo Jon e io. E ogni volta mi sorprendo della gioia che si diffonde sulle facce in pista quando parte il pezzo di cui prego cadauniamo il video sottostante.[youtube=http://youtu.be/SPlQpGeTbIE]

L'antica arte del fare le liste musicali di fine anno

Visto che tanto tra un po’ comparirà anche sul sito di Maps (in forma più ricca), anticipo qui le due liste musicali del 2008, dischi e concerti. L’anno scorso me l’ero cavata non mettendo dischi e concerti in ordine di importanza, quest’anno non posso usare quell’escamotage, quindi…

I dischi del 2008
Una nota: per lavoro, da gennaio a oggi, ho considerato qualcosa come 200 e rotti dischi. Questo vuol dire, in media, ascoltare un disco per un giorno e mezzo e poi basta. Ovviamente capirete che questo è impossibile. I dischi sono troppi, davvero. Ma ecco la mia decina:

1. Fleet Foxes – ST (SubPop/Bella Union)
2. Portishead – Third (Island)
3. TV on the Radio – Dear Science (4AD)
4. Bon Iver – For Emma, Forever Ago (Jagjaguwar)
5. Nick Cave & the Bad Seeds – Dig! Lazarus! Dig! (Mute)
6. Vampire Weekend – ST (XL)
7. MGMT – Oracular Spectacular (Columbia)
8. Black Mountain – In the Future (Jagjaguwar)
9. Why? – Alopecia (Tomlab)
10. Blake/e/e/e – Border Radio (Unhip)

I concerti del 2008
Altra nota: siccome sono maniacale, so esattamente quanti concerti ho visto in questi dodici mesi. Sono quarantaquattro. Per il sito di Maps ne ho selezionati cinque, qui mi allargo a dieci (ma venti sono davvero da ricordare, il che non è male, no?). Tra parentesi, come da tradizione, link a set fotografici, recensioni, video.

1. Bruce Springsteen & the E-Street Band (Stadio Meazza, Milano, 25.06.08) (foto, video, video, blog)
2. Fleet Foxes (Magazzini Generali, Milano, 15.11.08) (foto, blog)
3. Portishead (Saschall, Firenze, 31.03.08) (foto, video, blog)
4. Battles (Estragon, Bologna, 07.05.08) (foto)
5. Singer (Knitting Factory, New York, 29.04.08) (foto, blog)
6. Einstürzende Neubauten (Estragon, Bologna, 12.04.08)
7. Mondo Cane (Piazza Santo Stefano, Bologna, 18.07.08) (foto)
8. Explosions in the Sky (Estragon, Bologna, 26.05.08) (foto, blog)
9. R.E.M. (Futurshow Station, Bologna, 26.09.08) (foto, video)
10. Massimo Volume e Blake/e/e/e (Estragon, Bologna, 07.11.08) (foto, foto, blog)

Et voilà. Scannatevi nei commenti, dai.

I do know why

Quando li ho sentiti nominare per la prima volta, intorno a marzo di quest’anno, mi chiedevo che razza di nome fosse Fleet Foxes. Appena ho sentito il loro primo ep, Sun Giant, me ne sono sbattuto dell’onomastica e ho iniziato ad ascoltare a ripetizione le loro canzoni (secondo Last.fm sono la band che ho ascoltato di più, dopo Beatles e Nine Inch Nails, il che per me è un po’ come dire che è la cosa che ho fatto più frequentemente nella vita oltre mangiare e dormire). A Maps quell’ep è diventato il disco di una settimana corta: cinque pezzi, ci stava benissimo. Ma ho sempre avuto la sensazione che, forse, avevo in qualche modo sacrificato il loro talento. Sensazione confermata quando, poco dopo, ho avuto modo di ascoltare tutto il disco. Quando è stato eletto disco del mese da Mojo ero contento come se fosse stato il mio lavoro ad essere stato scelto. Insomma, miei piccoli lettori, amore allo stato puro.

RobinPotevo quindi perdermi la data di ieri a Milano? No, non potevo. E sapevo anche che sarebbe stato un concerto eccezionale, che avrei avuto i lucciconi per tutto il tempo, che le loro armonie vocali sarebbero state scintillanti dal vivo come su disco. Quello che non sapevo è che, alla fine del concerto (con un preambolo durante il concerto) avrei scoperto che condivido con un membro della band una passione in comune, quella per Dario Argento, e che questo ci avrebbe fatto chiacchierare fitti fitti (sebbene per una decina di minuti) e scambiarci le mail, per continuare a distanza il discorso.

Insomma, ci sono serate perfette, dal viaggio in macchina con una delle mie band preferite, fino agli ultimi saluti: so il perché.

Fleet Foxes live@Magazzini Generali – Set fotografico

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