viaggio a londra

Welcome to England

Eccoci qua. Non vi preoccupate, non vi ammorbo con post lunghissimi, tanto più che quello che ho fatto in Inghilterra negli scorsi giorni è stato vedere concerti (e ne ho parlato sul sito di Maps). Quindi, di seguito, piccolissime note prese al volo, con tanto di fotografie altrettanto estemporanee scattate col cellulare (cliccateci su se le volete vedere grandi), tra Londra e Bristol.
Venerdì 4 dicembre. Vengo accolto da Valido (grazie, grazie, grazie) e andiamo subito in un bel pub a magnare purè e salsiccia. Ci raggiungono anche l’amica C. con fidanzato. Si chiacchiera, ed è strano trovarsi a Shoreditch, perché il tavolo su cui stiamo è davvero familiare, per le cose che diciamo, la voce, la lingua. Vado in bagno e vedo una scritta sulla porta: “You’re smiling, but are you happy though?”. “Yeah”, dico, prima di accorgermi che per terra c’è del liquame. “Fuck yeah”, aggiungo, scrollando la scarpa.
Sabato 5 dicembre. Torno alla National Portrait Gallery dopo secoli, per vedere la mostra “From Beatles to Bowie”, che, peraltro, è bellissima. Ogni stanza dedicata a un anno, dal 1960 al 1969. Beatles, ma non solo. Valido, giustamente, mi fa notare che, mano a mano che gli anni passano, i soggetti ritratti hanno i capelli sempre più lunghi. È davvero tenero vagare con lo sguardo tra fotografie giganti, pubblicità di dischi, copertine. Tutto richiama la mia attenzione. Quindi dopo, molto godardianamente, decidiamo di passeggiare (letteralmente) tra le sale della National Gallery, buttando l’occhio qua e là tra capolavori del passato più o meno noti. Leggerezza.
Domenica 6 dicembre. Arrivo a Bristol, dove vengo accolto da P. Rapido giro della città, e la sensazione che ho, venendo da Londra, è la stessa che, ormai tre anni fa, mi accolse a Boston, giunto da NYC. Un rallentamento del ritmo, una calma e una pace quasi fastidiosa. A Bristol fa più freddo che a Londra, ma c’è un clima umano più tiepido. Sfortunatamente, ma ce lo potevamo aspettare, gli studi della Aardman sono chiusi: anche da fuori, però, sembrano dei semplici uffici. Guardo un po’ le mura dell’edificio che li ospita, pensando a Wallace&Gromit e a tutta la plastilina che quelle stanze contengono.

Lunedì 7 dicembre. Appena tornato da Bristol, via al concerto degli Alice In Chains. A parte il concerto vero e proprio, la sorpresa sarà vedere la bellezza del posto che lo ospita, la Brixton Academy. Ma anche il suo esterno non è male. Vedere la scritta ALICE IN CHAINS su sfondo neon ti fa pensare subito di essere in un periodo tra il 1950 e il 1995 (ma non oltre). Sono emozionato ben prima che Jerry Cantrell e soci colleghino i loro strumenti. Ancora non so quanto sarò emozionato durante e dopo. Wow.
Martedì 8 dicembre. Passeggio mollemente per le vie del centro di Londra e capito al British Museum. Anche quello non mi vede da anni e anni, quindi varco l’imponente soglia dicendo “Ma sì, dai”. Mi perdo, ovviamente, tra le sale, e vengo rapito da mummie, statue, gioielli, armi, pannelli esplicativi, bassorilievi, steledirosetta, eccetera. Giungo casualmente ad una sala dedicata alla storia delle monete e delle banconote. Vago tra le bacheche quando, d’un tratto, qualcosa di familiare richiama la mia attenzione. “Quella faccia la conosco”, penso. È quella di Bossi, stampata sulle 500000 lire del “conio padano”. La banconota è ben esposta in una teca che raccoglie monete politiche o commemorative. Due righe sotto Bossi, una moneta di Harry Potter. E tutto, quindi, ha un senso.

P.I. (Pupazzi Investigator)

Durante il mio viaggio a Londra ho avuto modo di indagare sulla scomparsa di alcuni pupazzi molto popolari, con delle scoperte sconcertanti.Iniziamo dagli innocenti e lisergici Teletubbies. Che fine hanno fatto Tinky Winky, Dipsy, Nu-Nu, Po e La-La? E i loro creatori sono ancora a piede libero? Domande che chiunque abbia visto la popolare serie della BBC si è posto. I Teletubbies nascono nel 1997 e sono protagonisti di 365 episodi che sono andati in onda sulla rete nazionale inglese e in molti altri Paesi, Italia compresa. Un giro d’affari enorme, con pupazzi, dischi, dvd, tutto a base di pupazzi colorati che non parlano o quasi, non fanno niente a parte cantare musichette idiote, si limitano ad essere. e a fare versi Insomma, una boy band per un pubblico in età prescolare. Avete mai provato a vedere una puntata dei Teletubbies? L’effetto è quello di una canna pesantissima quando si è stanchi e fa caldo: annichilimento totale delle capacità cerebrali, azzeramento del senso critico e della percezione dello spazio e del tempo. E il tutto è assolutamente legale. Beh, erano anni che non si avevano notizie dei Teletubbies, ma proprio quando io ero in terra d’Albione, la bomba: i Teletubbies si riformano (il che rafforza il parallelo con una boy band) per un tour che parte questo giovedì e che toccherà diversi centri commerciali (sic) del Regno Unito (non cinema o teatri, centri commerciali, santiddio). Chissà che non arrivino anche da noi: in tal caso si potrebbe fare questo giochino dal vivo.
L’altra notizia riguarda, invece, un pupazzo nostrano, che ha occupato moltissimi dei nostri pomeriggi televisivi, rubando la scena (sembra incredibile dirlo oggi) a Paolo Bonolis e a Licia Colò. Vabbè, quest’ultima considerazione è piuttosto plausibile. Stiamo parlando, l’avrete capito, miei piccoli lettori, di Uan, vero protagonista di Bim Bum Bam, trasmissione iniziata proprio in questo periodo nel 1983. La domanda “che fine ha fatto Uan?” rimbalza da anni da una pagina web all’altra, dopo la fine del programma nel 2000. L’hanno intervistato le Iene, è stato avvistato qua e là, è stato rapito, ma un tratto è stato (finora) comune a tutte queste notizie vere o presunte: il fatto, cioè, che Uan si fosse ritirato dalle scene. Bene, io ho la prova che Uan non è scomparso, anzi. Nella metropolitana londinese, infatti, ho fotografato la locandina che pubblico qui accanto (per vedere la foto ingrandita, cliccateci sopra, ma a vostro rischio e pericolo). Uan, per quanto porti addosso i segni evidenti di un periodo difficile, è vivo e canta insieme a voi, se andrete a vedere la versione italiana di Avenue Q, il cui tour parte tra un mese circa. Nel caso ci andaste, fatemi sapere com’è.

My London from A to Z – 3

Rough Trade. Sono andato anche in uno dei mitici negozi dell’etichetta inglese. Non ho comprato alcun disco. Indecisione? Segno dei tempi? Non so. Ho scartabellato tra gli scaffali, ma prezzi e/o titoli non mi hanno convinto. Risultato dello shopping? Il nuovo numero di Mojo, due spillette e una borsa di tela. Mmm.
St. Bartholomew the GreatSt. Bartholomew the Great. Ecco, questa è stata la vera scoperta del viaggio londinese. Una chiesa vicino all’ospedale di St. Bartholomew, ovviamente, più o meno nella City, non distante dalla più famosa Temple Church, chiesa dei Templari. Solo che quella è stata abbastanza distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, mentre St. Bartholomew è rimasta più o meno com’era quando è stata costruita, alla fine del 1100. Intendiamoci, sono ateo e materialista, ma entrare in questa chiesa mi ha davvero emozionato, e non succedeva da tanto. A trovarla suggestiva non sono solo io: qui sono state girate scene di Elizabeth: the Golden Age, Shakespeare in Love e Quattro matrimoni e un funerale. E c’è anche qualche simpatico burlone che l’ha definita “la chiesa più infestata (di spiriti) del mondo”. Cliccate sul link, vedete le altre foto che ho pubblicato, ma, soprattutto, se andate a Londra non mancate di visitarla. Davvero spettacolare.
Tamigi. Sembrerà un’osservazione banale, ma questa è stata la visita londinese in cui ho sentito di più il fiume che attraversa la città. Ho passeggiato lungo il South Bank, ho percorso più ponti avanti e indietro, e il marrone, zozzo, affascinante fiume mi è parso fondamentale più che mai, nel panorama di Londra. Ehi, mica uno deve sempre scrivere di folgorazioni o di scoperte. Comunque, non fateci il bagno. Sai mai.
Underground. Sebbene abbia girato molto in autobus, in questo viaggio, non riesco a non amare le metropolitane. Mi piace guardare le stazioni, le mappe colorate, essere portato da una parte all’altra della città in qualche decina di minuti, ma soprattutto amo guardare la gente in metropolitana. Sì, perché, soprattutto i nativi, in metropolitana pensano. E ti sembra, talvolta, di poter indovinare su cosa stiano meditando, dietro gli occhi socchiusi dalla stanchezza della prima mattina o della sera, mentre vanno a lavoro o tornano a casa. E, come al solito, mi incanto davanti alle facce.
Vegetariani. Londra è una città cosmopolita, no? Anche nel cibo, voglio dire. Questo assunto di base ha permesso all’amica V., vegetariana e amica degli animali, di trovare più o meno sempre del cibo per lei. Tranne che nel ristorante brasiliano, la cui poitica era: prezzo fisso e carnazza servita direttamente dallo spiedo alla tavola, di varia provenienza, dall’agnello al maiale, dal vitello al prosciutto. “Avete un menù vegetariano?”, abbiamo chiesto. “No”, ci è stato risposto. “Perché?” E quando abbiamo rivelato l'”handicap” di V., ecco che una bella V verde è stata posta di fronte al suo posto. Vagamente inquietante.
Westminster Abbey. Avrei voluto visitarla, ma… 15 sterline d’ingresso? Per fortuna a Londra, come a New York, i maggiori musei sono a entrata libera. Ho rinunciato alla Chiesa, insomma, ancora una volta.
X. Come è proverbialmente noto, l’incognita in Inghilterra è il tempo atmosferico, che può cambiare anche tre o quattro volte al giorno. La soluzione è il vestiario “a cipolla”, si sa. Comunque ci ha detto bene: pioggia solo un paio di volte, di cui una nel pub di cui ho parlato ieri: l’acquazzone + stata ovviamente l’occasione per intavolare una bella discussione del tempo, argomento di cui i britannici vanno ghiotti. Proverbiale anche questa osservazione, ma talvolta gli stereotipi sono più veri della realtà.
Polka DotsYayoi Kusama. “La mia arte è un’espressione della mia vita, in particolare della malattia mentale.” Così si descrive l’ottantenne artista giapponese, uno dei nomi della mostra che ho visto, “Walking in my mind”. La malattia mentale di Yayoi Kusama si è manifestata molto presto, quando lei aveva dieci anni: a quell’età ha iniziato a vedere dei pois, dappertutto, e lei si è iniziata a sentire un puntino in mezzo a milioni di altri. La sua installazione alla Hayward Gallery (con estensione sugli alberi del lungofiume) è particolarmente emozionante: una stanza di specchi dentro alla quale sono sistemate delle sculture gonfiabili tondeggianti, rosse a pois bianchi. Da rimanerci secchi.
Zzz. Avrei avuto bisogno di vacanze riposanti, ma so che quando vado in una grande città mi prende la frenesia da metropoli. E quindi ho dormito poco. Recupero adesso, con la consapevolezza che dormire poco, macinare chilometri e riempirsi occhi, orecchie e bocca è stata l’unica cosa da fare in una delle città che più amo al mondo.

fine

P.S. Oggi il blogghetto compie sei anni. Lo mandiamo a scuola.

My London from A to Z – 2

Influenza suina. Sono passati due giorni dal mio ritorno e ancora non ho alcun sintomo, ma aspettiamo ancora un po’, non si sa mai. Comunque, la metropolitana di Londra è piena di cartelli che raffigurano bambini, donne e uomini che starnutiscono spruzzando nuvole di bacilli, creati spero con Photoshop. Il motto è “Catch it, bin it, kill it”: insomma, ti dicono di spruzzare muco e saliva in un fazzoletto, poi di buttarlo e di lavarti le mani appena puoi. Ironia della sorte: qualche giorno dopo il mio arrivo a Londra, ho letto su un free press che uno dei testimonial della campagna (l’uomo) si è preso l’influenza suina. Sfortuna maiala.
Jacko. Londra è ancora sotto shock per la morte di Michael Jackson: la cittadinanza lo dimostra comprando tutto quello che lo riguarda, i commercianti espongono in bella vista t shirt, dischi e dvd del cantante, gli impresari si fregano le mani perché Thriller – The Musical era in produzione prima della scomparsa di Jackson e la O2 Arena, dopo l’ovvio annullamento dei concerti, sta rimpolpando il programma. Insomma, chi ci ha rimesso è il morto, guarda un po’.
Kew GardensKew Gardens. Prima di partire V. mi ha detto: “Facciamo quello che vuoi, ma andiamo a vedere almeno un giardino botanico”. E io l’ho portata ai Kew Gardens, che si vantano di essere i giardini botanici più grandi del mondo. Una meraviglia: serre enormi, piante mai viste o solo sentite nominare, spazi vastissimi. In quasi una giornata abbiamo girato metà dei giardini. C’è la palma più alta del mondo, che detta così fa ridere, ma è davvero impressionante. E poi una passeggiata a venti metri d’altezza, tra le chiome degli alberi, piante che vengono da tutto il mondo, fiori meravigliosi. Uno spettacolo, andateci.
London EyeLondon Eye. È stata una delle nuove costruzioni più criticata di Londra, ma l’immensa ruota panoramica appoggiata alla riva sud del Tamigi è meravigliosa. Dal primo giorno a Londra avrei voluto metterci piede, ma le file, il costo e il fatto che il fattore pacco è alto in caso di tempo non eccellente (e siamo a Londra, quindi non è così improbabile che una giornata di sole si trasformi repentinamente in una fiera dell’uggiosità) hanno fatto sì che potessi vederla solo da sotto. La prossima volta ci vado. Forse.
Monty Python. Sarà che mi sono portato dietro un libro su di loro, ma insomma, insieme ai Beatles, il fenomeno pop che ho avuto in testa durante tutto il viaggio sono stati loro, i Monty Python. Sarà che sono la quintessenza (rovesciata, sbeffeggiata, spernacchiata) del British Way of Life, sarà che girando per Londra ti vengono in mente le location dei loro sketch, sarà anche che sono capitato, grazie all’aiuto inestimabile di Valido, in Neal’s Yard, dove c’è una targa che ricorda che lì i Monty Python hanno creato e lavorato… Beh, insomma, ho detto abbastanza. E ora, qualcosa di completamente diverso.
Workers in LondonNotting Hill. Passeggiando per l’esclusivissimo quartiere, pieno di belle case, begli esseri umani, bei giardini, ho pensato che lì la spazzatura non la riciclano: ci fanno i ripieni per i panini di McDonald’s. A Notting Hill si respira ricchezza, le case sono immacolate, le strade pulite, c’è un buon profumo nell’aria. Sicuramente si annoiano tantissimo, però.
Operai. Ogni tanto, quando vado in giro per il mondo, mi prendono delle fisse fotografiche. Quella del viaggio di Londra è stata immortalare operai. Ce ne sono un sacco, per le strade (in cantiere permanente) della città. Il bello è che, magari per una questione di orari, ho visto sempre gruppi di operai in pausa. Fumavano, mangiavano o non facevano niente. Ma non lavoravano. Avrei voluto fotografarne molti di più, ma, sapete, è gente grossa e incazzata, a vedersi, e io ero in vacanza.
Pub. Cosa c’è di più londinese del pub? Vero, ma quanto è difficile vederne uno vero, di pub. Per nostra fortuna, quando io e V. siamo arrivati in città, l’amica S. che ci ha ospitato era ancora al lavoro. E quindi siamo entrati in un pub vicino casa sua, un pub di quartiere, il Crown&Rose. Beh, immaginatevi la scena: le cinque passate, gli avventori abituali staccano dal lavoro e vanno a farsi una pinta: sono operai, gente normale, ben lontana dai clienti dei pub della City, per dire. Entriamo noi, chiaramente non inglesi, con degli zaini enormi. Inquadrati in un istante. Mentre aspettiamo S., V. e io ci inventiamo storie sull’uomo che è entrato con una spatola, su chi è il padre del bambino pericolosamente attratto dal videopoker, e, sebbene non a disagio, ci sembra di stare in casa d’altri. Ogni tanto qualcuno ci rivolge la parola e parla, ovviamente, del tempo. Mi sembra di essere per la prima volta in Inghilterra.
Q. Nei negozi di dvd, ormai, buona parte della scaffalatura è occupata da cofanetti di serie televisive, inglesi e americane. Incuriosito, allora, chiedo in più posti se hanno Q, una serie di Spike Milligan, riconosciuta come precursore del più famoso Monty Python’s Flying Circus (che ovviamente già possiedo). Non ne sa niente nessuno. Allora concludo questa seconda parte con un video proprio di Q.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=KVVcSpYtieI]

continua, ahivoi

My London from A to Z – 1

London Eye with airplaneAeroporto. L’ultima volta che sono stato a Londra stavo per perdere l’aereo, grazie a quel casino a forma di aeroporto che è Stansted. Per questo viaggio sono atterrato e ripartito da Gatwick, ma anche in questo caso sono stato sorteggiato per il controllo delle scarpe. Non solo: una solerte impiegata britannica mi ha svuotato la borsa che avevo con me, non guardando, peraltro, in una tasca interna. La prossima volta so dove nascondere… scherzo, eh.
Beatles. Prima o poi dovrò andare a Liverpool, ma nel frattempo mi sono accontentato di essere ad Abbey Road esattamente quarant’anni dopo lo scatto della famosa foto finita sulla copertina del disco omonimo. Anzi, quarant’anni e un po’ dopo, visto che mi sono perso l’arrivo dei sosia dei Beatles: li ho visti poi su diversi siti internet. Somiglio di più io ai Beatles: saranno dei raccomandati. Poi però sono finito al Beatles Store, eh sì. E lì ho comprato un po’ di cosine, con le mie due amiche che aspettavano fuori negando di conoscermi.
Cibo. Quando andavo in vacanza studio in Inghilterra non ho mai sofferto, a differenza di miei coetanei, del cibo inglese. Il punto è che a Londra si può mangiare davvero di tutto: il problema sono i soldi. E quindi ecco che nei quartieri più poveri ci sono un sacco di ciccioni che si nutrono di schifezze e nelle zone più ricche tutti sono magri e belli, pur facendo la tara con le possibilità offerte dalla chirurgia estetica. Ma comunque ho mangiato bene, in posti hongkonghesi, brasiliani, italiani, francesi e, soprattutto, da Moro: un mix eccellente di cucina portoghese, spagnola e nordafricana. Peccato per i vini: lì non ci siamo proprio.
Piccadilly (line)Distanze. Non so perché, a differenza di altre metropoli che ho visitato, le distanze a Londra mi sono sembrate maggiori. Il record, comunque, è stato fatto sabato notte, quando abbiamo deciso di prendere un autobus per tornare a casa. Da Piccadilly Circus a Oxford Circus, una distanza che a piedi si fa in dieci minuti, abbiamo impiegato 35 minuti abbondanti. Ancora adesso ho in mente la disposizione degli articoli nelle vetrine di Regent Street. Un incubo.
Elephant&Castle. L’amica S. che ci ospitava ha trovato casa in un quartiere a sud del Tamigi, chiamato Elephant&Castle. La zona dov’è nato Chaplin, per dire. Fama non buona, ma tutto sommato molto vivibile. E, a proposito di Chaplin, è curioso passeggiare e perdersi per le vie del quartiere e riconoscere, sotto gli strati di gentrification, conversioni e interventi del council, proprio le casette piccole e povere che fanno da sfondo a Il monello, che Chaplin ricostruì in studio negli Stati Uniti. Un’emozione non da poco.
Fragole. Uno dei tormentoni della vacanza è stato quello delle fragole del Somerset. Un pomeriggio io e l’amica V., aspettando S., abbiamo guardato un po’ di televisione, incappando in un documentario lunghissimo sulla produzione di frutta del Somerset, sulla BBC2. Non finiva mai, incredibile. Ma ancora una volta mi sono reso conto che nel Regno Unito, seppur sempre di meno, la programmazione televisiva non segue solo criteri di audience. Ehm, certo, magari uno straniero, facendo zapping tra i nostri canali, capita su “Linea Verde”…
Gusto. Fu un pensiero che formulai la prima volta che misi piede in Inghilterra, ormai più di 15 anni fa: il popolo britannico non ha gusto. Nel vestire e nel mangiare soprattutto, ma il discorso può essere esteso all’arredamento e a certi modi di parlare, per esempio. Pare che gli inglesi abbiano riversato tutto il gusto nel giardinaggio. Alcuni pub sembrano negozi di fiori, certi modesti giardini hanno una bellezza incantevole, per non parlare dei parchi. Perché?
Harrods. Una tappa obbligata per turisti, la visita a questi grandi magazzini: ma non ci avevo mai messo piede, fino a ieri. Sono rimasto stupefatto, non tanto dalla grandezza del posto, quanto da alcune cose, come l’orrenda statua di Diana e Dodi con gabbiano posta all’ingresso. Ma tutto è molto alla luce del giorno, in realtà: la sezione cibi è fenomenale: in un tripudio di colori e odori potete spendere 925£ per 125 grammi di Beluga, oppure comprare delle ciliegie americane a 50£ al chilo. Passando ai piani superiori, nella sezione musica, ci sono pianoforti da 100.000£ e impianti stereo da 150.000£ (ma con parti in oro a 24 carati). Ma la cosa più sorprendente è stato un biliardo, tutto intarsiato, creato apposta – immagino – per il giubileo della regina. Prezzo? Un milione di sterline. Scritto così, proprio: 1.000.000£, sul cartellino. E pensare che avrei sempre voluto avere un biliardo. Non ho avuto il coraggio di chiedere uno sconto.

continua, ahivoi

Sono stanco

Sono stanco, sì. Sono stanco fisicamente, ma non solo. Sono stanco del mio Paese, o meglio, sono stanco di come ormai veniamo visti all’estero: pigri, puttanieri, inconcludenti. Per questo, domani io vado a Londra a prendere l’influenza suina, senza aspettare italianamente che sia lei a raggiungermi qua.
Penso però di portare con me una escort, tanto per non disorientare troppo i britannici. Se mi va, aggiorno il blog anche da là, se no ne riparliamo quando torno.
Oink.

Di |2009-08-05T20:36:00+02:005 Agosto 2009|Categorie: I Me Mine|Tag: , |2 Commenti

Fourty-eight hours – Loos, planes and queues

Questo il tempo effettivo in cui sono stato a Londra, alla fine. Anzi, quarantacinque, visto che tre le ho passate in un non luogo per eccellenza, l’aeroporto di Stansted, dove una massa umana italica enorme ha dovuto fare una fila mostruosa prima per il check-in del volo, e poi per i controlli di sicurezza. Efficientissimi, per carità: ero pronto ad un’ispezione anale, e credo ci sia mancato tanto così. Se non altro ho preso l’aereo al volo, come nei film. “You’re lucky”, mi sono sentito dire dall’assistente di volo. Due minuti di orologio dopo l’aereo iniziava a rullare sulla pista.

Il primo impatto con Londra, dopo dieci anni, è stato traumatico: Italia ovunque. Nei ristoranti in giro, nei panini preconfezionati, nei vari caffè, nelle vetrine dei negozi di moda. Mi guardavo intorno meravigliato, rischiando la vita ad ogni incrocio: la guida è rimasta gloriosamente britannica, a sinistra.

Il secondo impatto con Londra è stata la prima pinta in un pub, verso le cinque di pomeriggio di venerdì (sapete, per me erano le sei, quindi quasi ora dell’aperitivo: meraviglie del jet-lag). Entro nel bagno del locale, genialmente posto dopo due rampe di rapidissime scale: praticamente una selezione naturale. Sul muro del cesso la scritta “Pope rules ok”, che faceva curiosamente il paio con quella vista all’aeroporto, appena atterrato a Stansted: quella diceva “protestants” e, sotto, un classicissimo “fuck the pope”. Prima madeleine: quando andavo in vacanza studio in Inghilterra, a metà degli anni ’90 (fa impressione scritto così, eh?) una delle t-shirt che andava di più raffigurava Giovanni Paolo II con uno spinello in bocca e la scritta “I Like the Pope. The Pope Smokes Dope”. Mai comprata. Peccato.

Il giorno dopo, Tate Modern. Mi sono sentito un po’ come Jonathan Rhys-Meyers in Match Point. Scarlett non si è presentata, peccato. Inutile parlare qua delle bellezze esposte (nel senso di opere d’arte, santiddio). Parlerò invece di nuovo di cessi. Stavolta la scritta, geniale, recitava: “I’ve just made a modern fart“.

L’ultima sera, il Vortex, un jazz club dove ho condiviso il tavolino prenotato a suon di dodicisterline con tale mr Foot, annunciato dal suo cartellino di prenotazione (impagabile: quando è arrivato l’omino al tavolo ho sfoderato il mio miglior accento britannico e ho detto “Mr Foot…?”, e giuro che l'”I suppose” è stato ad un passo dall’essere pronunciato). Diciotto euro per vedere un concerto di una simil Dusty Springfield, con metà della voce, e il doppio della mimica. Mr Foot estasiato, io molto molto meno. No, perché va bene l’interpretazione, ma cantare in una canzone “dolphins” e fare il gesto ad ondina con la mano è davvero troppo.

Bene, vado. Stasera, seconda puntata di Seconda Visione. Domani, per chi fosse interessato, a Sparring Partner c’è Massimo Carlotto in diretta.

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