the beatles

Ladies and gentlemen… The Menlove!

Sono passati quarant’anni, ma sembra ieri: migliaia e migliaia di giovani uomini e donne (e non solo), nel maggio del 1970, ancora non ci credevano. “Ma come, si sono sciolti davvero i Beatles?”.
Per ricordare tutto questo, domani per tutta la durata di Pigiama Party, dalle 1035 circa, avrò in studio The Menlove, ottima tribute band beatlesiana felsinea che allieterà la trasmissione con cover in acustico. E poi altre mille cose beatlesiane. Per ascoltare in streaming, andate sul sito della radio.
A splendid time is guaranteed for all!

You only give me your money – 2

[youtube=http://youtu.be/4Ph4rZU0Ns4]
Ora, di sfruttamento delle canzoni dei Beatles, già ne avevo parlato qui, un paio di anni fa. Ed è già successo recentemente che John sia stato “resuscitato”, ma se non altro la causa era “nobile”. Ma l’altro giorno, all’ora di cena, mi è capitato di vedere lo spot che riporto quassù.
Stavolta, cari Sean e Yoko, è troppo. E poi, la scusa che il figlio di Lennon ha usato, l’avete letta?
Se qualcuno oserà mettere “Woman” come sottofondo di una pubblicità di intimo femminile, chiamo tutti alla rivolta.

Welcome to England

Eccoci qua. Non vi preoccupate, non vi ammorbo con post lunghissimi, tanto più che quello che ho fatto in Inghilterra negli scorsi giorni è stato vedere concerti (e ne ho parlato sul sito di Maps). Quindi, di seguito, piccolissime note prese al volo, con tanto di fotografie altrettanto estemporanee scattate col cellulare (cliccateci su se le volete vedere grandi), tra Londra e Bristol.
Venerdì 4 dicembre. Vengo accolto da Valido (grazie, grazie, grazie) e andiamo subito in un bel pub a magnare purè e salsiccia. Ci raggiungono anche l’amica C. con fidanzato. Si chiacchiera, ed è strano trovarsi a Shoreditch, perché il tavolo su cui stiamo è davvero familiare, per le cose che diciamo, la voce, la lingua. Vado in bagno e vedo una scritta sulla porta: “You’re smiling, but are you happy though?”. “Yeah”, dico, prima di accorgermi che per terra c’è del liquame. “Fuck yeah”, aggiungo, scrollando la scarpa.
Sabato 5 dicembre. Torno alla National Portrait Gallery dopo secoli, per vedere la mostra “From Beatles to Bowie”, che, peraltro, è bellissima. Ogni stanza dedicata a un anno, dal 1960 al 1969. Beatles, ma non solo. Valido, giustamente, mi fa notare che, mano a mano che gli anni passano, i soggetti ritratti hanno i capelli sempre più lunghi. È davvero tenero vagare con lo sguardo tra fotografie giganti, pubblicità di dischi, copertine. Tutto richiama la mia attenzione. Quindi dopo, molto godardianamente, decidiamo di passeggiare (letteralmente) tra le sale della National Gallery, buttando l’occhio qua e là tra capolavori del passato più o meno noti. Leggerezza.
Domenica 6 dicembre. Arrivo a Bristol, dove vengo accolto da P. Rapido giro della città, e la sensazione che ho, venendo da Londra, è la stessa che, ormai tre anni fa, mi accolse a Boston, giunto da NYC. Un rallentamento del ritmo, una calma e una pace quasi fastidiosa. A Bristol fa più freddo che a Londra, ma c’è un clima umano più tiepido. Sfortunatamente, ma ce lo potevamo aspettare, gli studi della Aardman sono chiusi: anche da fuori, però, sembrano dei semplici uffici. Guardo un po’ le mura dell’edificio che li ospita, pensando a Wallace&Gromit e a tutta la plastilina che quelle stanze contengono.

Lunedì 7 dicembre. Appena tornato da Bristol, via al concerto degli Alice In Chains. A parte il concerto vero e proprio, la sorpresa sarà vedere la bellezza del posto che lo ospita, la Brixton Academy. Ma anche il suo esterno non è male. Vedere la scritta ALICE IN CHAINS su sfondo neon ti fa pensare subito di essere in un periodo tra il 1950 e il 1995 (ma non oltre). Sono emozionato ben prima che Jerry Cantrell e soci colleghino i loro strumenti. Ancora non so quanto sarò emozionato durante e dopo. Wow.
Martedì 8 dicembre. Passeggio mollemente per le vie del centro di Londra e capito al British Museum. Anche quello non mi vede da anni e anni, quindi varco l’imponente soglia dicendo “Ma sì, dai”. Mi perdo, ovviamente, tra le sale, e vengo rapito da mummie, statue, gioielli, armi, pannelli esplicativi, bassorilievi, steledirosetta, eccetera. Giungo casualmente ad una sala dedicata alla storia delle monete e delle banconote. Vago tra le bacheche quando, d’un tratto, qualcosa di familiare richiama la mia attenzione. “Quella faccia la conosco”, penso. È quella di Bossi, stampata sulle 500000 lire del “conio padano”. La banconota è ben esposta in una teca che raccoglie monete politiche o commemorative. Due righe sotto Bossi, una moneta di Harry Potter. E tutto, quindi, ha un senso.

My London from A to Z – 1

London Eye with airplaneAeroporto. L’ultima volta che sono stato a Londra stavo per perdere l’aereo, grazie a quel casino a forma di aeroporto che è Stansted. Per questo viaggio sono atterrato e ripartito da Gatwick, ma anche in questo caso sono stato sorteggiato per il controllo delle scarpe. Non solo: una solerte impiegata britannica mi ha svuotato la borsa che avevo con me, non guardando, peraltro, in una tasca interna. La prossima volta so dove nascondere… scherzo, eh.
Beatles. Prima o poi dovrò andare a Liverpool, ma nel frattempo mi sono accontentato di essere ad Abbey Road esattamente quarant’anni dopo lo scatto della famosa foto finita sulla copertina del disco omonimo. Anzi, quarant’anni e un po’ dopo, visto che mi sono perso l’arrivo dei sosia dei Beatles: li ho visti poi su diversi siti internet. Somiglio di più io ai Beatles: saranno dei raccomandati. Poi però sono finito al Beatles Store, eh sì. E lì ho comprato un po’ di cosine, con le mie due amiche che aspettavano fuori negando di conoscermi.
Cibo. Quando andavo in vacanza studio in Inghilterra non ho mai sofferto, a differenza di miei coetanei, del cibo inglese. Il punto è che a Londra si può mangiare davvero di tutto: il problema sono i soldi. E quindi ecco che nei quartieri più poveri ci sono un sacco di ciccioni che si nutrono di schifezze e nelle zone più ricche tutti sono magri e belli, pur facendo la tara con le possibilità offerte dalla chirurgia estetica. Ma comunque ho mangiato bene, in posti hongkonghesi, brasiliani, italiani, francesi e, soprattutto, da Moro: un mix eccellente di cucina portoghese, spagnola e nordafricana. Peccato per i vini: lì non ci siamo proprio.
Piccadilly (line)Distanze. Non so perché, a differenza di altre metropoli che ho visitato, le distanze a Londra mi sono sembrate maggiori. Il record, comunque, è stato fatto sabato notte, quando abbiamo deciso di prendere un autobus per tornare a casa. Da Piccadilly Circus a Oxford Circus, una distanza che a piedi si fa in dieci minuti, abbiamo impiegato 35 minuti abbondanti. Ancora adesso ho in mente la disposizione degli articoli nelle vetrine di Regent Street. Un incubo.
Elephant&Castle. L’amica S. che ci ospitava ha trovato casa in un quartiere a sud del Tamigi, chiamato Elephant&Castle. La zona dov’è nato Chaplin, per dire. Fama non buona, ma tutto sommato molto vivibile. E, a proposito di Chaplin, è curioso passeggiare e perdersi per le vie del quartiere e riconoscere, sotto gli strati di gentrification, conversioni e interventi del council, proprio le casette piccole e povere che fanno da sfondo a Il monello, che Chaplin ricostruì in studio negli Stati Uniti. Un’emozione non da poco.
Fragole. Uno dei tormentoni della vacanza è stato quello delle fragole del Somerset. Un pomeriggio io e l’amica V., aspettando S., abbiamo guardato un po’ di televisione, incappando in un documentario lunghissimo sulla produzione di frutta del Somerset, sulla BBC2. Non finiva mai, incredibile. Ma ancora una volta mi sono reso conto che nel Regno Unito, seppur sempre di meno, la programmazione televisiva non segue solo criteri di audience. Ehm, certo, magari uno straniero, facendo zapping tra i nostri canali, capita su “Linea Verde”…
Gusto. Fu un pensiero che formulai la prima volta che misi piede in Inghilterra, ormai più di 15 anni fa: il popolo britannico non ha gusto. Nel vestire e nel mangiare soprattutto, ma il discorso può essere esteso all’arredamento e a certi modi di parlare, per esempio. Pare che gli inglesi abbiano riversato tutto il gusto nel giardinaggio. Alcuni pub sembrano negozi di fiori, certi modesti giardini hanno una bellezza incantevole, per non parlare dei parchi. Perché?
Harrods. Una tappa obbligata per turisti, la visita a questi grandi magazzini: ma non ci avevo mai messo piede, fino a ieri. Sono rimasto stupefatto, non tanto dalla grandezza del posto, quanto da alcune cose, come l’orrenda statua di Diana e Dodi con gabbiano posta all’ingresso. Ma tutto è molto alla luce del giorno, in realtà: la sezione cibi è fenomenale: in un tripudio di colori e odori potete spendere 925£ per 125 grammi di Beluga, oppure comprare delle ciliegie americane a 50£ al chilo. Passando ai piani superiori, nella sezione musica, ci sono pianoforti da 100.000£ e impianti stereo da 150.000£ (ma con parti in oro a 24 carati). Ma la cosa più sorprendente è stato un biliardo, tutto intarsiato, creato apposta – immagino – per il giubileo della regina. Prezzo? Un milione di sterline. Scritto così, proprio: 1.000.000£, sul cartellino. E pensare che avrei sempre voluto avere un biliardo. Non ho avuto il coraggio di chiedere uno sconto.

continua, ahivoi

Piccoli nessi umani

Uno dei piccoli segnali che dimostrano il fatto che io mi stia poco dedicando a me stesso ultimamente è che sono venuto a sapere della pubblicazione di Principianti di Raymond Carver un paio di mesi fa, a libro uscito. Uno dei grandi segnali di quanto mi stia trascurando a vantaggio del lavoro è che ho finito di leggere il libro soltanto oggi.Innanzitutto: Principianti è la nuova versione di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, raccolta di racconti pubblicata nel 1981 considerata “manifesto del minimalismo letterario”. In realtà si tratta della versione originale del libro: l’editor di Carver, Gordon Lish, aveva pesantemente ripassato le bozze sotto la scure dell’editing, una prima volta in maniera più lieve, una seconda volta arrivando a tagliare il 30, 50, anche 70% di ogni racconto. Einaudi propone quindi la versione del volume “come l’avrebbe voluta Carver” (le virgolette sono d’obbligo), tradotta dal solito bravissimo Riccardo Duranti, con un bel apparato di note e con alcune lettere che Carver mandò in quel periodo al suo editor.
Sapevo da tempo di questa versione, e l’apprendere che esistesse mi ha fatto sorgere alcune riflessioni, diciamo, filologiche. Facciamo un esempio apparentemente distante, ma che riguarda un altro dei miei grandi amori. A settembre usciranno i dischi dei Beatles rimasterizzati: il processo che ha portato a questa riedizione è stato seguito dai membri vivi della band, dalla moglie di Lennon e dal figlio di Harrison. Quindi, diciamo, questo controllo dovrebbe essere garanzia di genuinità, se non altro dal punto di vista della sensibilità filologica (non ho intenzione qui di parlare di sfruttamento intensivo di marchi quale Carver e i Beatles – seppure molto diversamente – sono). Così come questa edizione è tradotta dal migliore conoscitore di Carver in Italia, approvata dalla compagna dello scrittore e dai più importanti studiosi americani della sua opera.
Ma il punto è: il concetto di originalità dell’opera è davvero così slegato dall’hic et nunc in cui l’opera è stata licenziata? O è invece puramente collegato alle questioni della fattibilità tecnica e a quella dell’intentio auctoris?
Una cosa alla volta. Paul McCartney ha detto, in un vecchio numero di “Mojo”, che l’album bianco non ha mai suonato così bene. Ma, d’altro canto, i Beatles, George Martin e i tecnici di Abbey Road non erano proprio gli ultimi in quanto a inventiva e capacità di innovazione. Altro esempio: le riedizioni con aggiunte della prima trilogia di Guerre stellari. Nel presentarle, Lucas ha detto che quei mostri, quella scena, quel fondale erano da sempre nella sua mente, solo che la tecnologia allora disponibile non gli permetteva di ottenerli. D’altro canto, però, i dischi dei Beatles e i film di Lucas sono stati pubblicati (nel senso più ampio del termine) in un certo modo, e proprio in quel modo lì (carente?) sono stati amati, memorizzati, storicizzati.Ovviamente quando si parla di scrittura, la questione tecnologica decade, ma rimane – ed è più pressante – l’intenzione dell’autore. D’altro canto, sempre quando si parla di scrittura, è un nonsense immaginare lo scrittore preso dal fuoco sacro dell’arte. L’editoria è un’industria, con i suoi processi e le sue figure professionali: tra queste, l’editor.
Ora: Gordon Lish non era un fesso qualunque, così come non lo era Carver. E la riconoscenza che lo scrittore dimostra nei confronti dell’editor è evidente e giustificata. Dietro ad ogni buono scrittore c’è un buon editor, per fare una parafrasi. Lish è stato più che utile a Carver, c’è poco da fare. L’ha indirizzato, corretto, lodato: tagliando, aggiungendo, discutendo con lui ha fatto l’editor, punto. Ma è bene distnguere anche il lavoro dell’editor, che si gioca tutto nella misura e nel contesto. Paradossalmente, tagliare un romanzo del 60% è meno grave, a mio parere, che tagliare un racconto del 40. Perché il racconto è un organismo più delicato, più piccolo e fragile di un romanzo: bisogna andarci, insomma, coi piedi di piombo. Se no, tanto vale riscrivere tutto.
Torniamo alla storia: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore esce e spalanca a Carver le porte del successo. L’opera di Lish, per molti versi artificiale come ogni manufatto industriale seppur “alto”, ha funzionato, il minimalismo diventa nuovo canone (e permane come modello ancora oggi, il che ci dovrebbe fare riflettere). Qualche anno dopo esce Cattedrale, ed è un successo ancora maggiore: i critici notano che c’è maggior respiro nei racconti, e iniziano a “indagare” sulla figura di Lish. C’è anche un racconto che è ripreso pari pari dal libro precedente, ma Carver gli cambia il titolo e gli dà aria: per Cattedrale Carver agisce praticamente da solo.
Attenzione, però: Lish, su Di cosa parliamo fa due editing. Il primo, più leggero, è accettato da Carver. Il secondo, quello con le grosse cifre percentuali citate sopra, getta Carver in uno sconforto disumano, ben testimoniato dalle lettere in appendice al volume. Si parla di “paranoia”, per intenderci. Ho finito oggi Principianti, e, ancora una volta, Carver mi ha stretto l’anima e commosso fino alle lacrime. Ma l’ho sentito più vicino di quando ho letto per la prima volta Di cosa parliamo. I personaggi, sebbene risolti magistralmente in poche righe, sono ancora più veri., forse perché le righe invece di essere tre sono sette. I discorsi che fanno sono più reali, forse perché inframmezzati da digressioni e cambi d’argomento, sembra che palpitino sulle pagine le parole che vengono scambiate, e pare di sentire più di prima il vento che batte incessante sulle case dove sono ambientate le storie. Ma per capire di cosa si tratta, cos’è che rende Principianti un libro da leggere e rileggere, è necessario arrivare alle ultimissime pagine. In una lettera a Lish Carver scrive, a proposito della seconda revisione della sua raccolta, poco prima che sia pubblicata:

Lo voglio quel senso di bellezza e di mistero che [i racconti] hanno ora, ma non voglio perdere di vista, perdere il contatto con i piccoli nessi umani che avevo visto nella prima versione che mi hai mandato. In qualche modo sembravano essere più pieni, nel senso migliore, in quella prima revisione.
Raymond Carver,
Principianti, Einaudi, Torino 2009, p. 287. Traduzione di Riccardo Duranti.

Ecco, i piccoli nessi umani, che sicuramente lo stesso Lish aveva tirato fuori all’inizio del suo lavoro. Ecco cosa c’è in più in Principianti e Cattedrale rispetto a Di cosa parliamo. I nessi umani. Qualcosa che non è poco per nessuno, figuriamoci per Carver, che di questi nessi, tessuti in manciate di parole, ha fatto grande la sua scrittura.
Certo, il problema se mi ricomprerò o meno la discografia dei Beatles tra qualche mese permane.

Anch'io accecato (dalla luce)

From the screenIl sospetto deve venire: perché tutti (tutti: fan, appassionati, gente capitata lì per caso, uomini, donne, bambini) ti dicono che assistere a un concerto di Springsteen è un’esperienza che va oltre il concerto, avvicinandosi a qualcos’altro di più totale e magnifico?
Eppure sono andato a Milano, ieri, cercando di non avere aspettative, di non pensare all’amico Morozzi e alle migliaia di persone nel mondo che, come lui, investono immani quantità di tempo e soldi per seguire il Boss in tutte o quasi le tappe dei tour europei. Non ho pensato al mito, ai dischi, alle immagini che lo ritraggono. Sono entrato a San Siro cercando – più che altro – di non svenire per il caldo. Poi ho visto quante persone c’erano e ho vacillato.

Alle otto e cinquanta di ieri sera è successo qualcosa: Bruce Springsteen e la E Street Band sono saliti sul palco dello Stadio Mezza di Milano, hanno suonato una cover (“Summertime Blues” di Eddie Cochran, per la cronaca) e si è aperto un squarcio temporale che è durato tre ore esatte, praticamente senza pause. Senza. Pause.
Part of the audience (a very little part)Oggi mi è arrivata una mail da un ascoltatore che sapeva sarei andato al concerto, che mi chiedeva con che parole avrei descritto in onda la serata di ieri. Figuratevi qua, che posso fare, mettendo passo dopo passo le parole nero su bianco…
È stato incredibile. Non ho mai visto nessuno, e dico nessuno, spendersi sul palco in quel modo, essere disponibile col pubblico, prendere richieste, stravolgere scalette per essere vicino alla folla che è venuta apposta per vedere e sentire lui e la sua band. Ma soprattutto – e qui sta il segreto, miei piccoli lettori – non ho mai visto nessuno divertirsi così sul palco.
Eravamo 65000, ieri. Anche secondo la Questura (il Boss unisce gli animi e i conteggi). E abbiamo letteralmente vibrato a tempo. Avete mai visto 130000 braccia agitarsi in sincronia? Avete mai sentito come 65000 persone cantano “Born to Run”? Avete mai visto un sessantenne buttarsi per terra, urlare, suonare, incitare pubblico e band per centottanta minuti, risultando sempre sincero e credibile? Avete mai visto lo stesso sessantenne finire il concerto, uscire di nuovo, prendere una tinozza e una spugna, bagnare tutte le prime file del pubblico, risalire sul palco e fare un bis di otto canzoni, finendo con “Twist and Shout”?
Io, fino a ieri, no.

The BossNon è stato un concerto, è stato decisamente qualcosa di più. Tanto che vorrei comprarmi una Smemoranda apposta per segnare la data di ieri. E basta.
Mi unisco agli accecati. E anche io vi dico, o voi che non siete mai andati ad un concerto di Springsteen: andateci. Andateci. Non vi pentirete assolutamente, perché, una volta tanto, “quello che si dice” è vero, ma in più c’è la musica.

Bruce Springsteen and the E Street Band – Milano 25.06.08. Tracklist: Summertime Blues (cover) – Out In The Street – Radio Nowhere – Prove It All Night – The Promised Land – Spirit In The Night – None But The Brave – Hungry Heart [Tour Premiere] – Candy’s Room – Darkness On The Edge Of Town – Darlington County – Because The Night – She’s The One – Livin’ In The Future – Mary’s Place – I’m On Fire – Racing In The Street – The Rising – Last To Die – Long Walk Home – Badlands
Girls In Their Summer Clothes – Detroit Medley – Born To Run – Rosalita – Bobby Jean – Dancing In The Dark – American Land – Twist And Shout (cover) [Tour Premiere]

Ancora non ci credete? Toh, allora, vedere per credere. Due pezzi minori, “Because the Night” e “I’m on Fire”, freschi freschi da ieri…

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=KCrNcGlLgI4&hl=it]
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=f46DmRxGNco&hl=it]

You only give me your money

E così adesso molte canzoni dei Beatles potranno essere usate per spot pubblicitari. La prima sarà “All You Need Is Love”, per dei pannolini astutamente chiamati Lav (aaargh). Visto che ormai ci siamo, ecco qualche suggerimento per i pubblicitari che potranno fare man bassa del catalogo di Lennon/McCartney.

– “Come Together”: ottima per preservativi ritardanti per lui, stimolanti per lei;
– “Fixing a Hole”: come sottofondo per un silicone sigillante qualsiasi;
– “Tomorrow Never Knows”: va benissimo per un gruppo assicurativo (e qualcuno si è già preso “Here Comes the Sun”);
– “Mean Mr Mustard”: un bell’accompagnamento umoristico allo spot di una senape;
– “Strawberry Fields Forever”: confetture alla frutta;
– “Honey Pie”: soave musica per reclamizzare un lievito per dolci;
– “Drive My Car”: sembra fatta apposta per un commercial di una sprintosa piccola utilitaria destinata ai giovani;
– “The Word”: prima o poi il pacchetto Office-Vista uscirà? O è già uscito?
– “Eight Days a Week”: superassorbenti per cicli parossistici.

Tutto, basta che Berlusconi non si prenda “Taxman”. Ma forse no, visto che è di George Harrison.

(and my guitar gently weeps…)

Tema: "Le tue vacanze"

Sono stati giorni splendidi, oh, sì. Ecco quello che ho fatto:

  • dormito;
  • mangiato (da ricordare dello splendido tonno alla brace e delle salsicce incredibili);
  • bevuto (il Bordeaux, anche quello di qualità, costa pochissimo perfino in Corsica, e ho quasi imparato a fare i mojito);
  • andato al mare (se volete farvi del male, date un’occhiata al pur sempre valido A Pic in the Life o alla mia immancabile pagina di Flickr);
  • letto due libri: una raccolta di tre atti unici di Woody Allen, Sesso e bugie (qualsiasi cosa faccia Woody Allen mi fa stare bene e mi dà senso di familiarità, anche quando, come in questo caso e altri, non c’è nulla di nuovo) e una biografia di Frank Zappa che mi ha fatto capire, ancora una volta, che per comprendere il genio e l’opera di Zappa ci vuole una vita. C’è qualcuno di voi che lo conosce bene e mi dà delle lezioni?
  • sentito un bel po’ di dischi e musica: niente di nuovo, a dire il vero, a parte il programma della BBC per celebrare il quarantennale di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, andato in onda agli inizi di giugno. Hanno chiamato delle band britanniche (manco le migliori o le più in vista, a parte rari casi) e hanno detto loro: oh, se volete registrate una traccia del disco, ma, eheh, con i mezzi e gli strumenti di allora. Pare che molti abbiano gettato la spugna. Il risultato finale non è male, anche se sono davvero poche le cover degne di nota. Potete sentire il tutto in streaming qui;
  • giocato con la mia nuova macchina fotografica: in un giorno di pioggia ho realizzato il mio primo squallido filmino in stop motion, Reperibilità. Quindi pregate che il mio autunno sia soleggiato e molto impegnato. Sulla seconda caratteristica, però, potrei scommetterci.

La pazzia di Sir George

Sgombriamo subito il campo da equivoci: per me Love è uno dei dischi dell’anno. Non vi sareste mai aspettati un’affermazione così da uno che ha un blog con quel titolo e quel sottotitolo, da uno che ha iniziato ogni singola puntata di una sua trasmissione con una canzone diversa dei Beatles, eh? Ma ho i miei motivi. Oltre al fatto che i Beatles sono la più grande band mai apparsa sulla faccia della Terra. Ovvio.

Prima di tutto: Love è la definitiva consacrazione del genio di George Martin, prima che dei Beatles stessi. Sir George, il quinto Beatle, chiamatelo come volete: c’è lui dietro al risultato del disco. Insieme al figlio Gilles ha avuto in mano tutti (e dico tutti) i pezzetti di nastro che i Beatles abbiano mai registrato. Stiamo parlando di chiacchiericcio, cazzeggio, le linee vocali di un pezzo, una parte di chitarra di un altro, effetti sonori, fruscii, assoli di batteria, tutto. Considerate anche che i quattro, notoriamente prolifici, sono rimasti in studio per anni, da quando hanno smesso di fare concerti. Bene. Martin conosce perfettamente ogni pezzo di nastro: e grazie, li ha prodotti lui, ma non solo. Non era solo il produttore dei Beatles. Insieme a loro li sentiva crescere, comporre, provare e scartare soluzioni, modificarne altre. Dio solo sa l’emozione che lui stesso ha dovuto provare quando si è ritrovato davanti a quelle migliaia di ore di registrato. Però Martin è inglese, quindi avrà nascosto l’emozione e si sarà messo al lavoro. E già questo riprendere dei brani che sono scolpiti nella memoria di tutti e “sconvolgerli”, in qualche modo, non è qualcosa che ti aspetti da uno che ha ottant’anni suonati e che potrebbe tranquillamente starsene in poltrona a sentire la discografia dei Beatles urlando: “L’ho fatta io, ‘sta roba”. E invece no: si ricomincia. Risultato?
Quello che fa Martin con questo disco è dire a tutte le band del pianeta: toh. Un “toh” lungo ottanta minuti e passa. E’ banale, lo so, ma sentite dei passaggi di “Tomorrow Never Knows” e ci ritroverete tutto il neofolk, sentite la chitarra di “I Want You” che spazza via lo stoner, e certi ritmi che anticipano punk, punkfunk, funkpunk, *unk, e altro. Toh. Per non parlare di quello che Martin ha detto con Love ai “mashuppers” del globo (non riferisco, perché sarebbe volgare e quel gentiluomo di Sir George non apprezzerebbe): mischiare la linea di basso di un pezzo con la batteria di un altro, rallentando o velocizzando le tracce, in maniera perfetta e naturale, creando qualcosa di nuovo e riproponendo qualcosa di ben conosciuto, in un rimando continuo e fluido tra le due (o più) parti.

Già, mettendo mano ai pezzettini di nastro: ma in fondo queste erano cose che lui e la band, in studio, facevano sempre, di continuo. La ricerca sulla produzione, oltre che sui timbri e sulla forma canzone, ha sempre fatto parte dei Beatles: in Love è portata ai massimi livelli, viste anche le possibilità che la tecnologia offre oggi. Comprate la versione cd+dvd: sentire questo disco in surround è un’esperienza, davvero, anche senza drogarsi prima. Credo.
Non voglio arrivare a dire che “se i Beatles fossero tornati in studio” eccetera eccetera, no. Ma questo disco è corretto da un punto di vista filologico e, permettetemelo, “spirituale”: non è “muzak”, non ci sono pacchianate: Love è più divertente di un film, coinvolge e appassiona. E, in fondo, è “solo” musica dei Beatles.
No, non tutta, a dire il vero. C’è una singola cosa che non proviene dai nastri di Abbey Road, una sola. Un nuovo arrangiamento per archi per “While My Guitar Gently Weeps”. L’ha scritto George Martin ex novo. Ma del resto aveva scritto anche la partitura per il quartetto di “Yesterday” e il sestetto di “Eleanor Rigby”. Gli sono riusciti abbastanza bene. E sono sicuro che da qualche parte King George approva, ancora una volta.

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