Francesco Locane

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La logica delle predizioni

Da qualche giorno impazzano in rete i commenti (spesso aspramente critici) a un articolo scritto da Gino Castaldo su Repubblica nel giorno della Befana. Che cosa dice, in sintesi, il critico musicale? Che, essendo le classifiche 2011 dominate dal pop, il rock è morto e che, inoltre e quindi, la musica non ha più valore di protesta.

La tesi è alquanto pesante e dovrebbe essere ben argomentata: a mio avviso, tuttavia, non sempre ogni passaggio dell’articolo è chiaro. D’altro canto, ho letto ben poche critiche argomentate: spesso si è trattato di insulti gratuiti o di osservazioni negative mosse da un’identica mancanza di chiarezza.

Tentiamo quindi di capire cosa c’è che va e non va nell’argomentazione di Castaldo. Per farlo, ahivoi, bisogna essere analitici: credo che sia una qualità spesso mancante nel giornalismo di oggi e che è sicuramente rarefatta in questo piccolo “dibattito” recente.

Il primo errore che fa Castaldo è nell’identificare il rock come “genere” di un’ipotetica colonna sonora del “movimento”.

I giovani trovano luoghi e ragioni per nuove proteste, che si chiamino Indignados o Occupy Wall Street, ma curiosamente, forse per la prima volta nella storia moderna, non esiste una colonna sonora che racconti di queste nuove esperienze. Il rock? Latita, è assente, così come sta praticamente scomparendo dalle classifiche, lasciando il posto a un dominio pressoché assoluto del pop commerciale.

Seguiamo un ragionamento logico:

  • i giovani continuano a protestare ma
  • non c’è una musica che racconti questa protesta.

Subito dopo si introduce “il rock”, che quindi dovrebbe essere – a rigor di logica appunto – la musica che, secondo il giornalista, deve per forza accompagnare un movimento “politico” di qualche tipo. Primo dubbio: e perché il rock? Perché non il dub o il reggae delle rivolte inglesi a cavallo tra ’70 e ’80, perché non le posse della “Pantera” italiana, perché non certa disco che è rimasta legata ai giorni di lotta per l’affermazione dei primi diritti degli omosessuali? Non si sa.

Il problema, comunque, sta già nella questione dei generi: non leggevo “commerciale” in ambito musicale da anni. Cos’è il pop commerciale? Io, personalmente, non lo so. In fondo, se qualcosa è in classifica è per forza commerciale. Sarebbe, se no, come dire “un bestseller da poche copie”. Ossimoro. Ma la confusione di generi prevale poiché, dopo avere detto che c’è anche il rap in classifica, Castaldo conclude affermando che “in generale prevale l’imperativo della dance”.

Quindi il pop commerciale è la musica dance? E cos’è esattamente la musica dance, allora? Perché se è musica-da-discoteca in senso stretto (che ne so, la house), be’, non c’è neanche quella in classifica. Insomma, una gran confusione.

Dopo avere spiegato il fenomeno dei Coldplay (che sono “una bandiera rock” ma in classifica) affermando che il tutto si spiega con una pesante iniezione di pop all’interno della musica della band di Chris Martin (curioso però che nelle interviste il frontman definisca “pop” la sua musica), Castaldo abbandona le classifiche e passa ai Grammy Awards.

Lì, dice, ci sono voci femminili che spadroneggiano: niente da dire, è vero. Ma davvero Adele, Rihanna e Lady Gaga hanno tanto in comune, a parte il fatto di vendere ancora dei (tanti) dischi? Rimango dubbioso. Castaldo, però, allarga sempre di più il suo sguardo secondo una prospettiva temporale, e scrive:

I margini [del possibile successo del rock, Ndr] sembrano ridotti, come se il rock stesse diventando una riserva, da proteggere e magari conservare con cura, come un retaggio del passato. Ogni tanto arriva un acuto un segno forte (Springsteen, Radiohead, Arcade Fire tanto per fare esempi), ma i nomi in grado di contrastare la marea montante del disimpegno musicale sono sempre meno e più isolati.

Quanti concetti mischiati in poche righe: prima si parla di rock come retaggio del passato. Perché, il pop non lo è? Rinviamo, ancora una volta, quanto meno ai temi tirati fuori da Simon Reynolds in Retromania. E poi: perché pop equivale a disimpegno musicale? Che cosa vuol dire “impegno musicale”?

Sono concetti che davvero faticano a trovare un posto in un mondo in cui ha poco senso la cara vecchia distinzione tra musica classica e musica leggera: perché era in contrapposizioni come quella che si fronteggiavano la serietà e l’impegno da un lato e il “passatempo” dall’altro.

Radiohead e Arcade Fire si sono impegnati per Haiti, in modi diversi, ma a parte questo? E Springsteen? Dobbiamo ricordare la sua partecipazione a “We Are the World”? C’era anche Michael Jackson, in quel brano, anzi: l’ha scritto lui, ed è pop, il brano e l’autore. E i Poison? Per essere rock, lo sono, ma quando mai hanno preso posizione su qualcosa? E i Metallica? E gli Emerson, Lake and Palmer? Da rock progressivo a rock progressista?

La mia è ovviamente una provocazione, ma dare un senso ai termini che si usano è importante, così come lo è non perdere di vista ciò di cui si sta scrivendo. E invece Castaldo…

(…) il popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato, sembra tornato a un’era pre-rock in cui la musica era soprattutto intrattenimento, magari licenzioso, qualche volta trasgressivo, ma pur sempre solo e soprattutto divertimento. Di nuovi gruppi rock ce ne sono, a centinaia, ma preferiscono un profilo più basso e aristocratico, nessuno di loro sembra volersi fare carico di essere portavoce di alcunché, tantomeno di esprimere nelle canzoni un grande respiro generazionale.

A questo punto necessitiamo di una cronologia, di un riferimento che divida l’era rock da quella pre-rock, che separi la musica-solo-per-passare-il-tempo da quella impegnata. Da sempre la musica è stata intrattenimento e altro.

Questi discorsi si sentivano anche negli anni ’90 (me li ricordo, c’ero), e pure prima: rimando a due bei post scritti da Scott Ronson che ha fatto delle interessanti ricerche d’archivio su come la musica di largo consumo (quindi pop) è stata trattata dai quotidiani italiani.

Sulla questione, invece, di “farsi portavoce di una generazione” il discorso è invece diverso e, per me, pieno di interrogativi.

Innanzitutto: pare facile, diventare portavoce di una generazione. Perché questo accada come un tempo bisognerebbe (semplicemente) tornare indietro di qualche decina d’anni, quando le canzoni venivano ascoltate di più, ce n’erano di meno a disposizione e, soprattutto, la coesione sociale (in senso ampio) era più forte. È difficile, di questi tempi, radunare le folle nelle piazze nonostante ci siano tutti i motivi per farlo, figuriamoci “dare loro una canzone”.

Poi: una canzone “portavoce di una generazione” è automaticamente “politica” e “di protesta”? E i giovani del movimento “Occupy Wall Street”, chi sono rispetto al “popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato”?
Gli esempi che Castaldo fa più sotto,

(…) come We shall overcome o Blowin in the wind, per rimanere alle vecchie posizioni anni Sessanta, ma neanche pezzi incendiari come London calling o come gli ultimi vagiti di rabbia espressi dal grunge (…)

sono per forza di cose appartenenti a un’altra epoca che non solo aveva suoni, modi, cultura diversi, ma che era completamente diversa. Sotto molti punti di vista (compreso quello che riguarda tutta la filiera produttiva della musica) i vent’anni trascorsi tra Dylan e i Clash sono molto meno pesanti di quelli trascorsi tra i Nirvana e il giorno d’oggi.

I cambiamenti (non il cambiamento) sono stati rapidi e tumultuosi: ma del resto buona parte dell’analisi di Castaldo è basata sulle classifiche di vendita, che ormai interessano sempre di meno anche i discografici più “mainstream”. Il punto focale sono i concerti, e in questo Castaldo ha ragione.

(…) Come se il calendario si fosse inceppato nella maglie del tempo, tra i tour più attesi dell’anno nuovo ci sono in programma molti eventi di riunione, con un ampio raggio che va dai Black Sabbath ai Beach Boys.
Parlando di rock si investe molto sui concerti, che ancora funzionano, soprattutto se si parla di nomi consolidati, meglio ancora se sono vecchie glorie capaci di risvegliare anche nel pubblico giovanile il sogno, ormai tramontato, di una musica capace di far fantasticare, di parlare una lingua nuova, di risvegliare il nostro orgoglio di cittadini del mondo, alle prese con le difficoltà del mondo reale.

Pur tralasciando la visione quasi taumaturgica della musica impegnata (tornando a una band citata che amo, gli Arcade Fire: giuro che quando li sento da solo o dal vivo mi sento “cittadino del mondo” – argh – quanto prima), è vero: concerti di tale portata richiedono soldi che gli investitori se la sentono di scommettere solo sui grossi nomi “sicuri”.

Ma questo accade comunque: è la mancanza di soldi dei pesci piccoli (tutti: dalle radio ai promoter ai gestori di locali) il problema, e non “la crisi della musica rock”. Un concerto di Springsteen, Bowie, McCartney, dei Coldplay, Rihanna o dei Muse sta da tutt’altra parte rispetto al resto, compresi i tour dei Ministri e del Teatro degli Orrori (che sono molto vicini all’essere dei rappresentanti generazionali), anche loro citati nell’articolo, ma che

(…) fanno una gran fatica a emergere dalla trama asfissiante del mercato, con le sue rigide regole di imposizione mercantile.

Tutta la cultura fa fatica a emergere. Soprattutto quella “nuova”. Il problema, ancora una volta, è generale: fa fatica a emergere il cinema medio/piccolo, in Italia, così come annaspano tutti i nomi non blasonati dell’arte e della fotografia, i piccoli festival (per quanto ce ne sono ormai troppi, soprattutto in ambito cinematografico), le compagnie di danza.

Chi è che non fatica? Chi fa soldi, chi va in classifica, appunto, perché ha avuto fortuna, perché rimastica ciò che è stato, perché vive di rendita. E questo accade da sempre: i casi in cui “reale valore” (o impegno?) e “consenso popolare” vanno d’accordo si contano sulle dita di una mano, soprattutto se il lasso di tempo considerato è breve.

I Beatles, tanto per tirarli sempre fuori, sono uno dei pochissimi esempi di innovazione e successo enorme di pubblico, sono stati cioè tra i pochi a innovare realmente (nel loro caso anche oltre l’ambito musicale) mentre scalavano le classifiche.

Eh già, perché una delle caratteristiche del “pop”, intenendolo come “roba da classifica”, è avere saputo attingere dalle aree nascoste (underground, off, come vogliamo chiamarle) e di ridigerire alcune cose (talvolta tradendole, ma mica sempre) per ridarle a un pubblico più vasto. In fondo è quello che ha fatto Bowie durante quasi tutto il corso della sua carriera, ma senza dubbio negli ultimi trent’anni. Allora Bowie è pop? O dance? O rock? Non sarà mica tutto?

Ma torniamo, prima di concludere, ai problemi concettuali. Castaldo afferma che il rock sia nato “sostanzialmente come moto di rivolta”. Ma quando? Come? Perché? Parliamo di rock’n’roll? Little Richard non mi è mai parso un “guerriero politico”: semmai è stata la diffusione come genere di intrattenimento del rock’n’roll che poi ha portato ad altro.

Oppure parliamo del “cambiamento” degli anni ’60? Ma le canzoni di protesta dell’epoca derivavano dal folk, a sua volta legato a tradizioni musicali ancora più antiche; e la musica psichedelica per lo più era poco “impegnata politicamente”. O ci riferiamo alle prime forti commistioni tra generi degli anni ’70 e ’80, come il rap? E proprio il rap e la cultura hip hop non sono stati “generi di rivolta” anche quelli? E il soul di Marvin Gaye, con il suo disperato e quasi cronachistico “What’s Going On”?

Proseguiamo. Con un azzardato passaggio logico, il giornalista sottolinea che alle manifestazioni suonano sempre i soliti vecchi: ma il problema non è del rock, è della generica distanza dei giovani dal pensiero politico. I musicisti citati (Patti Smith, Graham Nash, Lou Reed e anche Tom Morello) sono legati a un altro modo di pensare la politica, forse l’unico, che è quello della partecipazione, dello scendere in piazza, del mostrarsi, dello stare insieme. Ma siamo sicuri che davvero ci siano solo degli anziani a suonare alle manifestazioni?

Non proprio: direi che Merrill Garbus, più conosciuta con il nome d’arte di tUnE-yArDs, abbia meno di trent’anni, ed era in piazza insieme ad altri colleghi più vecchi e blasonati. Direbbe Castaldo che tUnE-yArDs non vende. È vero, così come è tutto sommato limitata (nel tempo per i suoi risultati e/o per numero di partecipanti) buona parte del movimento politico degli ultimi anni, dalla manifestazione in piazza all’occupazione, compresi i moti recenti citati nell’articolo.

Non è della fine del rock che dobbiamo preoccuparci, caro Castaldo, ma della sempre più decisa atomizzazione della società, dello scarso investimento culturale, della lontananza della politica (dei suoi rappresentanti, del suo linguaggio) dalle nuove generazioni. Il rock, qualunque cosa si intenda, non è morto: è vivo e lotterà insieme a noi, quando ci sveglieremo.

Magri bottini

Cara Befana,

di tutti i personaggi che popolano questi giorni (Babbi Natali, GesùGiuseppiMarie, Re Magi) sei di certo quella che ho sempre considerato di meno. Ma spiegalo ai miei genitori che (giustamente pieni di orgoglio anticonsumista) hanno sempre fatto finta che non c’eri. Ero abituato a non ricevere regali per la Befana a tal punto che mi ricordo con assoluta certezza quelli che ho ricevuto, o almeno di due ho un ricordo nitido.

Il primo è arrivato perché, probabilmente, in quel Natale passato coi cugini di Messina, c’è stata una specie di amnistia generale dell’austerity e quindi ho ricevuto l’ambito “veicolo superostacoli” di Big Jim. Ritrovarlo su e-Bay, con un prezzo accessibile e definito, non so se mi ha fatto bene o male.

Quello che mi ricordo di quel veicolo era la tremenda lentezza. Sì, d’accordo, era studiato per superare gli ostacoli, ma si muoveva come se ce ne fossero comunque, a prescindere che arrancasse su un terreno accidentato o se si facesse una passeggiata su un pavimento domestico tirato a lucido. Una specie di tartaruga, che probabilmente col senno di ora potrei trovare quasi rilassante, con il suo incedere ronzante.

Il secondo mi è stato donato, se non ricordo male, perché ho rotto tantissimo le scatole: e giustamente mi è arrivato un bel robottino-roulette. Ho considerato pochissimo la roulette in quanto tale (forse dimostrando già un carattere pavido di fronte all’azzardo – giochi d’), poiché era evidente che si trattasse di una qualche potentissima arma il cui sparo aspettava solo di essere sonorizzato sputazzando qua e là.

Però, nonostante l’assenza di regali, il giorno della Befana (a meno di ponti come in questo 2012 appena iniziato) era davvero quello che si portava via tutte le feste. E quando non se le portava via per bene, lasciando qualche decorazione e alberello superstite in giro, erano traumi, come ho raccontato qualche anno fa su queste pagine.

Quest’anno, cara Befana, le feste sono state davvero rapide, seppure intense, e per me sono finite già da qualche giorno. Quindi non mi dai l’idea di esserti portata via un bel niente. D’altro canto non mi hai neanche mai portato nulla, quindi mi permetto di chiederti qualcosa io, visto che agli altri due personaggi bene in vista non credo, e – per rimanere nei detti popolari – tentare non mi nuoce.

Non ti chiedo un oggetto, però: più passa il tempo più penso che non ne abbiamo così bisogno. A parte i libri, i dischi, i film, qualche pupazzo-gadget, e l’indispensabile per cucinare e… Ok, abbiamo bisogno degli oggetti, ma io per ora sto bene così e comunque non ti chiedo nulla di materiale: nella calza (a questo punto immateriale anch’essa) ti chiedo di portare serenità a me e a tutti i miei cari, per questo 2012.

Mica poco, lo so: ma io ci provo. E ti assicuro che, se questa serenità arriva a tutti, il prossimo anno scriverò un post per celebrare il terzo regalo della Befana che ho ricevuto in vita mia: stavolta spero di non avere nulla da linkare su eBay, perché se fossi sul punto di dovere fare un’asta on line per avere un po’ di serenità, be’, cercherei di vincerla con ogni mezzo, usando anche il robottino e la temibile macchinona di plastica.

Finalmente tuo,
Francesco

Trattamento di fine rapporto

Un’immagine usata per una campagna della Volkswagen può assumere altri sensi oltre che l’imperativo “comprate le nostre auto”

Sul sito di Repubblica si parla dell’ultima indagine di EURES sui suicidi in Italia. I risultati (che possono essere scaricati qua) parlano di un nesso sempre più evidente tra aumento di suicidi (con un’inversione di tendenza rispetto al passato) e crisi economica. Insomma, la gente (soprattutto gli uomini) si uccide per motivi legati alla perdita dell’impiego, sempre di più. Questo dato (provato con cifre e statistiche) segna un ulteriore risultato tangibile di quello che succede in Italia in questo periodo. Ma davvero da questo periodo di crisi bisogna partire, quando si analizzano le relazioni tra un fenomeno di disagio sociale come il suicidio, e uno dei pilastri del vivere sociale, il lavoro, appunto?

Non solo, a mio avviso. Il punto è che è cambiato da tempo il rapporto con il lavoro e con il denaro, nel nostro Paese come in altri. Il meccanismo di creazione di bisogni (assai più antico della crisi economica ma ad esso strettamente legata), intanto, è sfuggito di mano sia da un punto di vista materiale (si produce troppo) sia psicologico, nel senso che è ormai impossibile “stare dietro” a ciò che è lì per essere desiderato. Nessuno, ovviamente, si toglie la vita perché non ha i soldi per l’iPhone, ma di certo alcuni oggetti (nonostante la crisi) continuano a essere venduti e quindi, prima ancora, bramati. Ci si arriva a indebitare, talvolta, per accessori.

Ma non è tutto: è importante pensare anche che si lavora molto di più, o meglio, si è costretti a lavorare più ore per portare a casa uno stipendio decente. Certo, ci si può interrogare su cosa sia il livello di decenza, senza parlare delle “soglie” fissate (ad esempio) dall’ISTAT, ma a prescindere dai bisogni di cui sopra si guadagna meno di prima. Ecco quindi lo scollamento psicologico (e il logoramento fisico) che deriva da un attrito tra desideri, potenzialità e tempo.

La mia storia lavorativa, abbastanza tipica nella sua atipicità, non è più lunga di dodici anni: ciononostante io stesso ho percepito, nel mio piccolo, la frustrazione che deriva (per esempio) dal non vedere raggiunti degli obiettivi minimi di indipendenza economica, sulla quale – a un certo punto, se si ha qualcuno alle spalle – è bene anche passare sopra, proprio per una questione di salute.

E quando mancano alcuni fattori e altri ben più gravi si sommano? Non me la sento di dire che la solitudine (c’è notoriamente una maggiore incidenza di suicidi tra gli uomini separati o vedovi), la mancanza di prospettive, la frustrazione e l’umana debolezza non siano probabilmente ragioni terribilmente sufficienti a uccidersi.

Narrare il mistero: i racconti di Flannery O’Connor

Il volume Tutti i racconti di Flannery O’Connor mi ha accompagnato per sei mesi. Doveva essere una lettura estiva, e in effetti ho cominciato durante le vacanze questo meraviglioso viaggio di scoperta di una delle più grandi autrici di sempre.

Ma la lettura è stata interrotta da altre cose più urgenti, il libro è stato travolto da un’onda inaspettata sulle coste croate e, soprattutto, ognuno dei trentuno racconti che compone la raccolta (davvero mirabile per completezza, un po’ meno per la traduzione non sempre eccellente delle pur esperte Marisa Caramella e Ida Ombroni, che si lasciano sfuggire – tanto per fare un esempio – un’improbabile “arpa” per rendere il sostantivo “harp”, che sta per armonica a bocca) è denso e folgorante al tempo stesso.

La O’Connor racconta gli Stati Uniti meridionali degli anni ’50: una sorta di Paese nel Paese, dove la schiavitù tutto sommato è tollerata, sebbene si inizino a percepire i primi segni di cambiamento. Un Paese nel Paese agricolo, con pochi conglomerati urbani, che ha come controcampo quella New York vista sempre come un posto caotico, lontano, pericoloso, crudele e soprattutto senza dio.

Insieme, infatti, a campi, vacche e braccianti afroamericani, in ogni pagina di questi racconti c’è la religione a dominare la trama e i personaggi che la popolano. Molto spesso l’autrice mette a confronto la fede con la razionalità, creando una specie di ragionamento per assurdo: molti dei caratteri che troviamo nelle storie hanno infatti le migliori intenzioni nei confronti del mondo o di qualcun altro, ma sono lontani dalla religione, bollata spesso come una credenza dalla quale stare alla larga o, quanto meno, da osservare con sospetto.

Eppure, sebbene la O’Connor non faccia sconti sugli atteggiamenti bigotti o estremamente ortodossi degli uomini e delle donne di fede, ci mostra quanto e come la ragione possa fallire, e con essa le buone maniere, la rispettosità, l’0nore.

Ogni volta che si conclude la lettura di un racconto della raccolta si rimane davvero colpiti dalla violenza improvvisa che hanno alcune chiusure, resa ancor di più tale dalla maestria che la scrittrice ha nel portarci all’interno della storia. Raramente ho visto usare le parole (spesso declinate in fiammeggianti similitudini) in maniera così efficace: basta pochissimo e ci pare di conoscere volti, luoghi, sapori e odori.

Possiamo percepire la pigrizia e l’indolenza di alcuni personaggi, avvicinarci maggiormente ad altri, vivere con loro negli ambienti spartani ma rispettabili in cui questi agiscono. Nel giro di un paio di pagine abitiamo quelle case e riconosciamo i loro abitanti. Contemporaneamente a questa penetrazione si pone il problema dell’identificazione: come si diceva, la O’Connor non fa sconti a nessuno, ma sa che il suo lettore è tendenzialmente lontano dalle posizioni religiose.

A fatica, quindi, prendiamo le parti di chi “ragiona col proprio cervello” e proseguiamo nella lettura, fino alla conclusione, appunto, che la maggior parte delle volte è spiazzante. Dopo l’ultima parola rimaniamo immobili, talvolta agghiacciati, a riflettere su quello che abbiamo letto, ma soprattutto su quello che credevamo di avere compreso e che invece non abbiamo neanche intuito e ci viene il dubbio che esista qualcosa davvero al di là di ogni possibile comprensione.

“Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero. Naturalmente, può essere che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può anche essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza.” (dall'”Introduzione” di Marisa Caramella, in Flannery O’Connor, Tutti i racconti, Milano, Bompiani, 2009, p. VII)

No Reply

C’è un fenomeno che ultimamente mi stordisce: l’assenza di risposte nel campo della comunicazione mediata. Gente che non risponde a mail, sms, telefonate, chat, per circoscrivere la questione. Non gente che tarda nel rispondere, non gente che prima o poi ti richiama, e neanche gente che si scusa. Semplicemente gente che si fa di nebbia in corrispondenze (o tentativi di corrispondenza) che non hanno a che fare con la sfera dell’emotività profonda (cioè l’amore, campo minato), bensì del lavoro o anche dell’amicizia.
Perché accade tutto questo? Ancora non me lo spiego.

Mi hanno educato (perché di educazione si tratta, in fondo) a rispondere: se non rispondo io mi sento male. Considerando che la stragrande maggioranza delle mie corrispondenze avviene attraverso la GMail, regolarmente metto una stellina sulle lettere a cui devo rispondere ed è raro che lasci passare più di qualche ora per dare replica a un sms. Eppure non è che non faccia una mazza tutto il giorno: tuttavia credo che sia un dovere e una questione di rispetto per gli altri il dare pronta risposta a una sollecitazione di qualche tipo.

Un dovere che, tutto sommato, costa poco. Può anche succedere che venga richiesta una risposta elaborata che magari non è possibile fornire subito, per mancanza di dati o tempo: in tal caso mandare due righe dicendo qualcosa come “Ti rispondo appena possibile” può essere sufficiente, credo. Ma la maggior parte delle volte bisogna sollecitare e sollecitare ancora, perché venga rotto il silenzio che, spesso, permane.

Se dovessi mettere tutte insieme le mail, gli sms, le righe di chat, i saluti che ho mandato e che ancora non hanno avuto risposta, be’, sarebbe una bella accolita. Me le immagino, queste parole, come accumuli di asteroidi alla deriva nello spazio. Vanno, vanno, per forza di inerzia, fino a che non si consumano e scompaiono nel buio, nel silenzio, senza risposta.

Di |2024-05-13T14:48:08+02:0027 Dicembre 2011|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |9 Commenti

L’altro lato della lista

Da oggi sul sito di Maps escono le nostre liste musicali di fine anno, che ogni tanto ho anche riportato qua, sebbene io odi le liste: questa mattina è stata pubblicata la mia. Per arrivare ai dieci (più cinque) dischi dell’anno ho fatto una selezione di cinquantadue album. Un numero casuale che però mi ha fatto pensare a quanto sarebbe stato bello ascoltare per una settimana solo quei dischi, senza perdersi in altro. Pur avendo una mezza idea di “suggerire” qua un disco diverso del 2011 per tutto il 2012 (poco realizzabile) e un’altra mezza idea di stilare una classifica della musica che, per un motivo o l’altro, non ho potuto mettere in radio (come quel Felt di cui ho parlato qualche giorno fa) ho pensato che una cosa da fare subito, oggi, era compilare la colonna dei cattivi.

Ecco quindi il peggio del 2011 musicale: si tratta di opinioni del tutto personali che spesso hanno avuto a che fare con delusioni, più che con giudizi di valore veri e propri. Ma, visto che si tratta di dischi ascoltati e concerti effettivamente visti, gli elementi di queste liste mi hanno comunque, in un modo o nell’altro, fatto perdere tempo. E quindi, vendetta.

I peggiori dischi del 2011 (per come mi sono venuti in mente, senza un’ordine preciso)
1. Coldplay – Mylo Xyloto (Parlophone): perché davvero non si può sentire. Per dire che io Viva la vida lo salvavo anche. Qua e là. Ma questo, proprio, no. È una caramella al bitume andata a male.
2. dEUS – Keep You Close (Pias): perché non posso farcela a sopportare un altro disco più che dimenticabile della band belga. Mi fa soffrire troppo. Abbasta, pietà.
3. Hercules and Love Affair – Blue Songs (Moshi Moshi): perché se vuoi farci ballare, allora facci ballare. Non queste vie di mezzo poco convinte.
4. Ladytron – Gravity the Seducer (Nettwerk): perché non si è obbligati a fare uscire un disco, eh, se non si hanno pezzi buoni a sufficienza manco per un ep.
5. The Chemical Brothers – Hanna OST (Back Lot): perché è la prova che nomi grossi dell’elettronica (sebbene ultimamente non così brillanti) funzionano poco con le colonne sonore. A proposito: vogliamo un vero album dei Daft Punk.
6. Prefuse 73 – The Only She Chapters (Warp): perché, davvero, va bene tutto ma questo disco dove vuole andare?
7. Digitalism – I Love You, Dude (V2): ma come si fa a fare un disco insipido come questo dopo avere sfornato un capolavoro come Idealism? Meglio il disco di remix I Club You Dude.
8. Lykke Li – Wounded Rhymes (Atlantic/LL): perché è la prova di come io certe infiammanti passioni di certa infiammata stampa musicale non le capisca proprio. E non mi dispiaccia di non capirle.
9. Moby – Destroyed (Little Idiot): perché ho provato a difenderlo davanti a tutti, quando è uscito, ma poi mi sono ritrovato da solo con lui e gli ho detto “Sei irrecuperabile, vattene”.
10. Lou Reed e Metallica – Lulu (Warner/Vertigo): perché?

I peggiori concerti del 2011 (come sopra)
1. Gonjasufi (Link, Bologna, 20.05.11): perché Bob Marley e tanti altri suonavano e cantavano benissimo da strafatti, ma quando non c’è genio non c’è droguccia che tenga. Orripilante.
2. Iron and Wine (Locomotiv Club, Bologna, 12.02.11): perché va bene che vuoi arrangiare i tuoi pezzi, ma aspetta di avere sessant’anni e un contratto in un casinò di Las Vegas per deturpare anche i tuoi brani più belli.
3. EMA (Locomotiv Club, Bologna, 13.11.2011): perché se alcune cose del disco erano belle, ti devi portare dietro qualcuno che te le sappia suonare.
4. Adam Green (Vicolo Bolognetti, Bologna, 30.06.11): perché mezz’ora di concerto scazzato con la chitarrina beandoti del pubblico adorante, no, dai.
5. Godspeed You! Black Emperor (Estragon, Bologna, 26.01.11): perché avevo un ricordo talmente bello del concerto al Link del 2002 che non ce l’avrebbero fatta a sostituirlo, neanche con un concerto di pari livello, figuriamoci con uno così così.

Peggior Artwork del 2011
Potevo aiutarmi con le liste in rete, ma si tratta spesso di dischi che non ho mai sentito. Ma Tao of the Dead non è neanche male, copertina a parte.

Un’illustrazione che non troverebbe posto neanche nelle edizioni delle fiabe taroccate che si vendono nelle stazioni dei treni.

Il peggior video del 2011
In questo caso mi sono fatto aiutare dalle liste trovate in rete, ma guardate che roba:

Ah, ci credono veramente, gli Alternate Reality.

2.0

E quindi, per la prima volta dal gennaio di quest’anno (escludendo la pausa di agosto) non ho postato quotidianamente sul blog, anche perché ero impegnato a rimetterlo a posto.

Più di novecento articoli non sono uno scherzo, né dal punto di vista del tempo speso (in un frangente della mia vita in cui il lavoro mi ha letteralmente sommerso), né per quanto riguarda l’impatto psicologico di rileggersi interamente otto anni di post (per taggarli, associarli a categorie, eccetera) in ordine cronologico. Mi sono ovviamente divertito, arrabbiato, compatito, criticato e preso per il culo.

Ed è stato trasferito e salvato anche quello che chiamavo (ed è) “L’inutile fotoblog di A Day in the Life”: da Splinder è passato a Flickr. E anche il lavoro fatto su quel centinaio di foto è stato stimolante, dal punto di vista emotivo e psicologico. Mi sono accorto di fare una nuova psicanalisi (dopo le parole, usando le immagini) quando ho notato che, mentre mettevo a posto le foto, l’ora di lavoro era in realtà di cinquanta minuti e costava tantissimo.

Il tutto è accaduto in un periodo per certi versi logorante e di sicuro denso di cambiamenti dal microscopico all’internazionale; talmente esagitato che, se oggi fosse il 20 dicembre 2012, starei leggendo da un pezzo La religione Maya for Dummies, sottotitolo: “Un dio vale l’altro, ma intanto salvati il culo”. E invece no: tutto ciò è solo la preparazione per un anno che ci vedrà saltare come pop corn in una padella, ne sono certo. Speriamo almeno che, dopo, il film sia decente.

Comunque, ora posso dirlo, ecco a voi il nuovo blog. Oltre al solito profluvio di parole più o meno inutili e senza senso, ci troverete le interviste fatte nelle vecchie trasmissioni Sparring Partner e Monolocane e altro materiale audio.

Adesso si ricomincia cercando di essere un po’ più leggeri e sfrontati degli ultimi tempi. Ero più divertente, a metà anni 2000, ammettiamolo. Ma avevo un gusto pessimo nello scegliere le immagini da associare ai post. La nuova scelta stilistica (che attende i vostri pareri) è all’insegna della sobrietà e della maggiore qualità rispetto alla quantità. Insomma: una foto per post, anche non tutti i giorni, però un po’ di sostanza, per dio.

E comincio, quindi, contraddicendomi. Foto a parte.

Musica da camera

La musica da sentire per Maps è talmente tanta che ci si dimentica di quella che si vorrebbe sentire. Per fortuna ho passato un fine settimana praticamente da recluso, dedicato (tra le altre cose) all’alienante “restauro” del blog (sono arrivato al gennaio 2005, urrà): ne ho approfittato per ascoltare dischi passati in secondo piano, poiché poco adatti alla programmazione della mia trasmissione. Sebbene ne abbia sentiti diversi, uno solo ha veramente destato la mia attenzione: è il nuovo album di un giovane pianista tedesco, Nils Frahm, intitolato Felt, uscito da poche settimane per la Erased Tapes.

Felt è un pianista classico di formazione, ma che ha presto dimostrato un interesse per ambiti più sperimentali e ha incontrato sul suo cammino, come spesso accade, l’elettronica. Ma il punto di partenza e nucleo di Felt è di tutt’altro tipo: l’album nasce dall’esigenza del berlinese di non svegliare i suoi vicini mentre suonava di notte. Come fare?

Con lo stesso meccanismo che mette in azione la sordina, il pedale centrale che hanno alcuni pianoforti verticali: premendolo, un panno di feltro si interpone tra i martelletti e le corde. Il suono viene attutito, creando degli effetti di risonanza molto particolari, quanto spesso difficili da cogliere, a meno che uno non ponga i microfoni molto dentro al piano, avendo poi l’accuratezza di essere particolarmente delicati nel suonarlo.

Ciò è esattamente ciò che fa Frahm, portandoci letteralmente all’interno del suo pianoforte, tra gli scricchiolii dei tasti, i crepitii del legno e i fruscii che avvolgono l’ascoltatore tanto quanto le melodie delle nove tracce del disco.

Queste non sono del tutto minimali, come si potrebbe pensare: usando altri strumenti, nastri e registrazioni d’ambiente, Felt suona come un album ricco nella sua semplicità, talvolta commovente senza essere ricattatorio. Certo, Frahm sussurra e respira piano, ma c’è una precisa dinamica costruita dall’ordine delle tracce, tanto che la sensazione di essere in quell’appartamento berlinese cresce con il passare del tempo, o con lo scorrere della notte.

Fino a che, all’ultimo brano, “More”, il musicista osa e aumenta la forza del suo tocco: non gli importa se i vicini si svegliano, è quasi l’alba. E se davvero hanno dormito, non sanno cosa si sono persi.

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Viaggio nella memoria

Ci siamo. Tecnicamente è tutto a posto, per la migrazione dei post dal vecchio al nuovo blog: da domani, quindi, dovrò spulciarli uno per uno per rimetterli a posto. Mi piace cercare di fare le cose per bene. Sarà un lavoro lungo, ma probabilmente è l’unico che mi potrò concedere (oltre alla dovuta diretta della domenica mattina) nei prossimi due giorni, da tanto sono stanco.

Mi chiedo come sarà rileggermi in maniera attenta e attiva, scorrendo ciò che ho scritto negli ultimi otto anni: forse anche soltanto quello che ho deciso di scrivere è significativo. Il concetto della scelta di cosa “pubblicare”, in senso volutamente ampio, rispetto a ciò che rimane in testa, sul pavimento di una sala di montaggio o su appunti mai usati e poi magari buttati via o riposti in qualche cassetto, mi ha sempre affascinato.

Così come mi affascina questa specie di viaggio nella memoria che sto per accingermi a fare. Non fraintendetemi: in questi anni ho riletto alcuni post del blog per mio piacere o curiosità; qualcuno è diventato un racconto, qualcun altro è stato anche letto in pubblico. Ma la metodicità della prossima lettura, insieme alla sua totalità, mi fa riflettere sin d’ora.

Figuriamoci quando incontrerò il me stesso degli anni passati. Sì, le parole del me stesso: ma per me le parole possono dire davvero molto di una persona. Mi sbaglierò. E forse queste cose le ho già dette, addirittura scritte. Be’, lo scoprirò presto.

Di |2024-05-13T15:29:04+02:002 Dicembre 2011|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |2 Commenti

Parla come mangi

Ieri sera ero fuori a cena e ho ascoltato le ordinazioni dei tre uomini al tavolo accanto al mio. Come antipasto hanno ordinato una schiacciata. Uno di loro ha precisato “Con mezza porzione di prosciutto”, e quelle parole mi hanno quasi reso nostalgico. Non sentivo da molto l’espressione “mezza porzione”, ma il piacere di riascoltarla è stato spazzato dalla richiesta dei primi. “Una tagliatella al ragù”, ha detto uno dei tre alla cameriera. E il secondo ha rincarato la dose, chiedendo “uno spaghetto allo scoglio”. Di ciò che ha chiesto il terzo non ho avuto percezione, da tanto mi sono innervosito (eh, sono fatto così).

Perché la pasta, soprattutto la pasta, ora si nomina al singolare? Perché “uno spaghetto”, “una tagliatella”? Perché se no la zuppa (singolare) si sente assediata? Perché questa stupida moda sta prendendo piede, insieme alle altre perversioni che catalogo qua sotto “The Word”?

Sembra che adottare il singolare, anche in questo caso, “elevi lo status” del parlante esattamente come usare “piuttosto che” per stilare elenchi o simili. Ordinare “una tagliatella” è una variante colta dell’espressione “(delle) tagliatelle”, quindi. Ma non è tutto: in diversi ristoranti ho letto menù che riportavano voci come “La tagliatella al tartufo”, “Il maccheroncino alle noci” e cose del genere. Bizzarro il fatto che, in media, “La tagliatella” costi più delle “Tagliatelle”, a prescindere dal condimento…

Dovendo riassumere, quindi, si va dall’assai plebeo plurale indeterminato al nobilissimo singolare con articolo determinativo, in un’ipotetica scala della (finta) raffinatezza linguistica applicata alla gastronomia.
Ipotizzato, quindi, l’uso “distintivo” dell’aberrazione linguistica, avrà forse a che fare con la mania alla singolarizzazione (passatemelo) che invade ogni campo dove il gusto, qualsiasi cosa voglia dire, dovrebbe farla da padrone? “Il capello quest’anno si porta corto”, “L’occhiale in titanio non si vende più”: espressioni che ho notato numerose volte sulla bocca di tutti.

Rimango senza risposte, e spesso anche senza parole: ma penso sempre che queste, un giorno, si potrebbero vendicare. Attenzione, quindi: praticamente calvi, con un solo (corto: è la moda) pelucchio sul cranio come Charlie Brown, vi immagino aguzzare la vista oltre il monocolo in titanio per scorgere sul piatto la sottile linea rossa di ragù che orna la vostra tagliatella.

Di |2024-05-13T15:31:08+02:001 Dicembre 2011|Categorie: The Word|Tag: , , , , |2 Commenti
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