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I due volti della bellezza – 1. Bon Iver a Ferrara

Bon Iver

Clicca sull’immagine per vedere le altre foto, orsù.

L’edizione 2012 di Ferrara sotto le stelle, un festival di cui spesso ho parlato in queste pagine, è stata particolare. La causa primaria della sua peculiarità è relativa ai terremoti di maggio, che hanno portato alla scelta di trasferire i live (quando non sono stati annullati, come nel caso della Gainsbourg) da piazza Castello al Motovelodromo e dal Cortile Estense al parco Massari.

Ma non è stato solo il terremoto a influire sulla manifestazione: ci ha messo lo zampino anche la crisi economica o, molto più prosaicamente, il fatto che la gente abbia meno soldi da spendere in genere.

I biglietti (che andavano dai 13 ai 30 euro), quindi, sono diventati irraggiungibili per molti, che hanno preferito le numerose offerte musicali dal vivo gratuite organizzate in varie città sulle quali la manifestazione “gravita”.

Il risultato è che quest’anno di Ferrara sotto le stelle si è parlato meno degli anni scorsi, si è sentito di meno nell’aria, forse è andata ai concerti meno gente di quanta se ne aspettassero gli organizzatori. Ciononostante, anche questa edizione mi ha regalato due concerti meravigliosi, una sera dopo l’altra.

Di Bon Iver mi sono invaghito (come molti) quando sentii il dolente For Emma, Forever Ago, qualche anno fa. Ho continuato a seguirlo, ascoltando e apprezzando i successivi ep e album, ma sono rimasto incuriosito soprattutto da un disco uscito nel 2009 che vede Justin Vernon insieme alla big band della sua scuola di Eau Claire alle prese con un repertorio che spazia dai suoi brani a standard di Ellington, Nina Simone e Ella Fitzgerald.

Avendo ascoltato Eau Claire Memorial Jazz I poco più di un anno dopo l’esordio di Bon Iver, sono rimasto colpito: che avevano a che fare le canzoni scritte nella fredda baita per dimenticare una ragazza con quel jazz? Ci è voluto il concerto di Ferrara per capirlo.

Sul palco del Motovelodromo, giovedì scorso, sono saliti nove musicisti: oltre a Vernon, due batteristi, un violinista, suonatori di fiati e un paio di polistrumentisti, per non farci mancare nulla. Davanti a ogni membro (a parte uno dei due batteristi) un microfono per la voce. Dalla traccia di apertura “Perth”, fino a quella che ha chiuso il bis, un’ora e mezza dopo, il live è stato un esempio perfetto di riarrangiamento polistrumentale e polivocale.

Le armonie di voce hanno coinvolto fino a otto musicisti insieme e, in genere, il ripensamento dei brani (originariamente così scarni e spogli) è stato incredibilmente fedele, nonostante coinvolgesse così tanti timbri e colori in più rispetto alle incisioni originali.

Il miracolo è stato che mai nel concerto è parso che qualcosa fosse di troppo, che una parte fosse messa là per impressionare il pubblico, che ci fossero trucchi, insomma. Non solo: Justin Vernon, vincitore di due Grammy, ha chiacchierato col pubblico, con modestia e ironia, come di rado capita di sentire.

Intendiamoci: non si è trattato di concioni infinite, ma di parole giuste al momento giusto, senza che queste sembrassero preparate ad hoc. E la musica: ha fluttuato da atmosfere personali e emotivamente struggenti a momenti di coinvolgimento totale, con un totale cambio di dinamica rispetto ad altri frangenti.

Insomma, un godimento, creato da musicisti fantastici che hanno trovato il modo giusto di proporre uno spettacolo (perché di questo si tratta) non negandolo, ma convogliandolo in maniera naturale, spontanea e comunque perfetta.

Una gioia assoluta, condivisa con i tremila presenti al Motovelodromo che è riuscito a diventare un posto intimo quasi come piazza Castello, dove era previsto si tenesse il concerto.

continua

“Ora so chi sono”: intervista a John Grant (novembre 2011)

John Grant

John Grant rimarrà per sempre associato a una mia grande dimenticanza: ancora oggi mi pento nel non avere preso in considerazione il suo Queen of Denmark a sufficienza, quando uscì. L’ho recuperato dopo, poco prima dello splendido concerto nella chiesa di Castenaso dell’aprile 2011. Da quel momento in poi, però, il disco e i ricordi di quel live mi sono rimasti in testa. Nel novembre del 2011 Grant è tornato a esibirsi in Italia, e ho avuto la possibilità di intervistarlo poco prima della sua data bolognese, insieme a LessTv, che ha fornito l’audio dell’intervista che state per leggere.

Grant mi accoglie disteso sul divano del camerino del Covo: indossa pantaloni e maglietta, e così andrà sul palco poche ore dopo. Sorride, è cordiale. Si scusa per la posizione, ma chiede di rimanere così. Io allora mi accomodo su una sedia all’altezza delle sue spalle e insieme sembriamo un quadretto “paziente-analista”. L’immagine non è peregrina, perché ancor prima che inizi a porre una domanda è lui che inizia a parlare.

“Non mi trovo a mio agio con la gente ricca”, confessa, “forse perché sono di estrazione bassa… o loro credono che lo sia.” Come molte delle frasi pronunciate dal cantante, anche questa è tanto sincera quanto pervasa di ironia: la profonda intelligenza e sensibilità dell’ex-Czars si manifestano in ogni sua espressione. “Sono stato in una scuola di ragazzi ricchi ed erano orribili: erano il male.”

Che mi dici di quando ti sei trovato in situazioni simili, anche di recente, quando hai vinto dei premi?
Non mi dà più fastidio, perché ora so meglio chi sono. Non che sia questo grande affare, ma… Adesso riesco a pensare più logicamente a tutto questo, e capisco che sono solo persone.

Parli spesso di un “ora”: a cosa si contrappone? Cosa c’era nel passato?
In realtà c’è stato un processo graduale negli anni, più che un “adesso” e “prima”. Ho superato la “questione dei ricchi” intorno ai trent’anni. Anche quando vivevo in Germania ero in mezzo ai ricchi, perché uscivo con molti studenti della facoltà di Legge, le cui famiglie erano sfacciatamente ricche. Andavo spesso in queste loro case e non avevo un bel vestito da mettermi. Questo mi metteva a disagio. Non avevo soldi per un vestito, quindi andavo in jeans e camicie scadenti. (fa una lunga pausa per pensare) Credo di avere cominciato a superare tutto questo una decina di anni fa, quando ho smesso con alcol e droghe per diventare sobrio. È stato più di sette anni fa.

Questa partizione è legata direttamente alle tue due fasi musicali?
Sicuramente. Quando ero negli Czars non riuscivo a esprimere vocalmente quello che stavo passando. Non sapevo dirlo a parole. (fa una pausa) Non credo di averci mai pensato prima d’ora, ma probabilmente è stato più facile parlare di me stesso apertamente da quando è morta mia madre. Perché penso che se mia madre fosse viva e ascoltasse il disco (Queen of Denmark, ndr) si arrabbierebbe molto. Non ci avevo mai pensato prima, mi è venuto ora. Non so se sia veramente così, sto pensando a voce alta. Mia madre è morta nel ’95 e noi avevamo appena iniziato. Abbiamo continuato per dieci anni. Davvero troppo…

In molte interviste sei apparso sicuro e tagliente nel giudicare il lavoro fatto con la band. Ma quanto del John Grant musicista, che suonava con gli Czars, c’è in colui che ha fatto Queen of Denmark?
La domanda è interessante. Diciamo che ora mi sento di più me stesso. Ero io anche quando suonavo negli Czars, ma era un periodo duro, bevevo molto… Non volevo avere a che fare con alcunché di serio, con il fatto che stessi crescendo o con la mia confusione sessuale. Quindi ho bevuto, mi sono fatto, ho scopato chiunque potessi avere a tiro, ho vissuto in maniera promiscua per dimenticare. Quindi, tornando alla domanda: ero lì, ma ero coperto da un sacco di merda. Sono la stessa persona, ma non ho più paura di essere me stesso: è più facile esserlo, per quello che so di me. Ammettiamolo: non posso sapere chi sono fino in fondo, ma ora ne ho un’idea migliore. Ripensare a quel periodo mi mette a disagio, perché è stato un momento doloroso.

Pensi che sia stato necessario attraversare quel periodo per conoscerti meglio?
Non so… Quel periodo è stato pura evasione, distrazione, non sapevo cosa stavo facendo. Quando mia madre morì, fu un brutto colpo, ma ero egoista: usai la morte di mia madre per attirare attenzione, per me stesso. E anche questo pensiero è doloroso, perché vuol dire che in quel momento non stavo realmente pensando a ciò che stava accadendo, a mia madre e alla sua morte, forse perché era troppo difficile. Comunque credo che elaborare quel periodo, parlarne, possa aiutarmi a comprendermi di più: tuttavia non so se ne sono completamente uscito. Quando mi stabilisco da qualche parte cerco subito un analista: è più facile parlare con un medico che annoiare a morte i tuoi amici, fino a farli dire “Non ce la faccio più, va’ in analisi”! (ride) C’è anche da dire che prendo antidepressivi da diciott’anni. Un po’ alla volta sto smettendo con tutte le medicine per la depressione, ma continuo a prenderne una, la più forte. È difficile smetterla perché ti fotte il cervello, quando non la assumi più: bisogna farlo quindi molto molto gradualmente. Sto andando da un dottore e insieme vogliamo cercare di capire chi sia, senza medicine. Le prendo da vent’anni, ma non ho mai avuto a che fare prima con un dottore che mi aiuti a comprendere il perché le prendo. Faccio queste cure da anni senza che nessuno controlli davvero i risultati ottenuti. Forse non so nemmeno cosa succede nella mia testa, e una volta che smetterò di prendere quest’ultima medicina saprò davvero chi sono. Non so che succederà, davvero: sarà interessante.

Queen of Denmark è molto autobiografico. Nei tuoi prossimi lavori continuerai su questa linea o il disco precedente è un romanzo a cui è stata posta la parola “fine”?
No, continuerò su quella strada. Nel nuovo disco ci saranno parti autobiografiche, nuovi stimoli e molta rabbia. Ci saranno molti “vaffanculo”, come in “Queen of Denmark”, ma anche più ironia; rabbia mista allo humor. Credo che solo dopo il prossimo disco potrò pensare ad altre cose, altre storie. Mi piacerebbe cantare in lingue diverse, e quindi potrei fare un disco sui posti dove sono stato: l’Italia, l’Islanda, la Svezia, la Danimarca… Amo la Scandinavia, ma l’Italia e la Spagna hanno qualcosa in più, perché ho passato molta della mia vita al buio, lontano dal sole e dalla luce. L’Italia è davvero un posto diverso, per questo motivo, dai Paesi del nord. C’è un modo diverso di vivere. Ancora non capisco bene l’italiano, perché ho passato qui troppo poco tempo, ma voglio impararlo. E poi c’è una bellezza tale che la mente difficilmente la comprende. Mi chiedo cosa voglia dire essere italiano, perché ho paura che avendo tutta questa bellezza intorno, qualsiasi altro Paese che visitiate sia poca cosa per voi. Oggi pomeriggio pensavo a Monica Bellucci, senza motivo, e mi chiedevo perché abbia dovuto lasciare Roma per Los Angeles: ho pensato però che Roma dev’essere una città difficile da vivere. Ho vissuto anche in campagna, nel Devon: stavo da solo in un piccolo cottage. Scrivevo, passeggiavo, guardavo film e programmi televisivi, studiavo lingue, le grammatiche: ho bisogno di cose come queste, ma anche della gente. La mia vita è in un momento di totale fluttuazione: non ho un posto mio dove vivere da due anni. Sono stato da amici, senza avere un luogo dove mettere i miei libri. Ho libri a Berlino, a Göteborg, a Londra, in Texas, in Colorado, a New York… Ho bisogno di un posto tutto mio dove tenere le mie cose. Negli ultimi due anni, con Queen of Denmark, la mia vita è cambiata completamente. E continuerà così, perché inizierò a registrare il mio nuovo disco alla fine di gennaio (2012, ndr) e si ricomincerà.

Qual è il tuo rapporto tra la tua nazionalità d’origine e tutti gli elementi prettamente americani di Queen of Denmark e le tante culture che hai studiato attraverso le lingue e i Paesi in cui hai vissuto?
Sono contento che tu mi abbia posto questa domanda, perché ti devo dire che amo essere americano e lo sono molto. Proprio il conoscere altri posti mi ha messo a mio agio con il fatto di essere americano. Quando ho lasciato il Paese, a diciannove anni, non ne potevo più: era difficile essere gay negli USA, e andando in Europa ho pensato che sarebbe stato più facile. Be’, non lo è, non lo è per niente. Anzi, in alcuni Paesi è anche peggio, e l’Italia credo che rientri tra questi. In Russia è peggio ancora. Comunque: quando cresci, ti viene insegnato che gli Stati Uniti sono il posto migliore dove vivere, ma appena ho messo piede in Germania sono rimasto assai colpito dalla bellezza, dalla storia, dalla lingua, dalla gente… Ci sono tantissimi posti dove si può essere felici e vivere bene, e questa per me è stata una grande scoperta. Non sono antiamericano: amo gli Stati Uniti, è bello viverci, c’è un clima rilassato ed è più facile fare quello che vuoi. In alcuni Paesi europei si sente molto il peso della tradizione sul futuro dei giovani: in Germania se vuoi frequentare il Gymnasium devi deciderlo molto prima. La direzione da prendere si stabilisce in giovane età, e credo che sia difficile per molti. Tuttavia ci sono moltissime cose che odio degli Stati Uniti. La politica è disgustosa, il sistema sanitario è vergognoso: ci dicono che sia il Paese più bello dove vivere, eppure non si prende cura della sua gente. Ci sono mendicanti e senzatetto a ogni angolo: è triste. Insomma, ci sono cose orribile ovunque. Londra, Londra sì che è dura. Cazzo, c’è dolore, povertà, una gioventù distrutta… Ci sono estremi di bellezza e disperazione: molte delle persone migliori che conosco vengono da lì, ma Londra è un casino, peggio di New York. Ho vissuto anche a New York, per tre anni, ma Londra è più brutale, è gigante, ti sfianca. Comunque, tornando alla tua domanda: sono contento di essere americano, ma non sono sposato agli Stati Uniti. Non mi piace il patriottismo, perché spesso è solo un altro modo per dire nazionalismo, per dire “Il mio Paese non sbaglia mai”, il che è ridicolo. Sono orgoglioso di essere americano, ma amo anche altri posti, parlare altre lingue, vedere altre bellezze… Sono nato per andare in giro per il mondo.

L’ultima domanda è banale: ci dici i tuoi cinque dischi dell’isola deserta?
Odio questo tipo di domande, perché sono difficili, ma in fondo mi divertono. Credo che mi porterei un disco di musica classica, gli Studi per Piano di Chopin. Stella degli Yello. E poi Touch degli Eurythmics, quello con “Here Comes the Rain Again”; Voulez-Vous degli Abba e i Kraftwerk, con The Man Machine.

Gente che suona divinamente

Non è per sfiducia, ma se dovessi dare sempre ascolto a tutti quelli che mi dicono “Devi ascoltare/vedere/sentire la band X: è la cosa più incredibile del cosmo“, non avrei neanche tempo per mangiare. Come però feci per Springsteen, riconosco in questa sede che tutti quelli che mi hanno detto cose magnifiche dei Wilco dal vivo, avevano ragione da vendere.

Cliccando sull’immagine qua sopra potete leggere perché ho dato quattro stelle e mezzo su cinque nella recensione scritta per Jam di questo mese sul concerto tenuto dalla band di Tweedy all’Estragon ormai due mesi fa.

Di |2024-05-13T00:10:29+02:0014 Maggio 2012|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , , |0 Commenti

Narrare la tensione: intervista a Manuel Agnelli

Non sono mai stato un vero fan degli Afterhours, ma credo che gli album di Agnelli e soci siano tutti molto interessanti, che abbiano sempre qualcosa da dire, che siano mossi da un’urgenza che sempre meno si ritrova, in musica e non solo. Ho ascoltato Padania e ho pensato, ancora una volta, che era un disco degli Afterhours da riascoltare più volte, di cui era necessario leggere le parole e pensarci su, per poi, magari, parlarne con Manuel Agnelli. L’intervista su uno dei dischi più importanti dell’anno è andata in onda in Maps di venerdì e la trovate da ascoltare qua.

Qual è il momento in cui avete iniziato a raccogliere suoni, idee e parole di quello che sarebbe diventato il disco più recente degli Afterhours?
Un momento preciso forse no, ma un anno e mezzo fa mi è venuta in mente l’idea di fare un disco molto legato alla realtà sociale che ci circondava. Ci siamo interrogati molte volte sul ruolo che potevamo avere come adulti e come musicisti. Probabilmente abbiamo parlato di noi stessi molto a lungo e probabilmente continueremo a farlo, perché il punto di vista è sempre il nostro, ma forse adesso è arrivato anche il momento di parlare di quello che ci succede intorno. Non è stato un desiderio nato da un episodio o da qualcosa che avevamo visto in particolare: ma continuavamo a incontrare persone che ci raccontavano della loro realtà, che avevamo sotto gli occhi, come tutti in questo periodo. Il fatto di continuare a cantare di cose nostre, solo interiori, legate alla nostra interiorità cominciava a sembrarci un po’ meschino, lontano dalla realtà. C’è stato un periodo, a dire il vero abbastanza breve, in cui ci siamo sentiti dissociati da quello che ci capitava intorno ed è nato il desiderio di riallacciarsi alla realtà.

Raccontata così sembra che ci sia una continuazione della spinta, più musicale, che c’era dietro a Il Paese è reale
Sicuramente, anche se Il Paese è reale aveva una matrice più nettamente musicale, si stava parlando del nostro ambiente, della musica, di come venivano considerati certi gruppi e certi musicisti e un certo tipo di ambito. Qua, invece, si parla più in generale della nostra società, del sociale. Comunque si tratta di cose molto vicine: adulti e cittadini che prendono posizione per qualcosa in cui credono o che lo fanno perché non è solo un loro diritto, ma anche un loro dovere.

Hai detto che non c’è un momento esatto in cui è nato Padania, ma che ci sono state molte storie che vi hanno fatto pensare. Qual è un tratto di queste storie che ha fatto “traboccare il vaso”?
Il fatto che alcune storie erano così grandi e importanti da fare sembrare piccolissime le nostre storie, le nostre polemiche, o le piccole battaglie che combattevamo all’interno del nostro ambiente. Insomma, una volta che, da adulto, hai usato la musica e l’ambiente della musica per trovare la tua personalità, se non completamente te stesso, per realizzarti dal punto di vista interiore, diventa davvero – e lo ripeto – meschino chiudersi in questa torre d’avorio creativa e non guardarsi intorno. Ci sembrava tutto molto piccolo rispetto ai problemi reali che la gente vive. Da qui a fare un album come Padania il percorso è stato molto lungo, perché non abbiamo subito deciso cosa fare. Alcuni prendono posizione in maniera talmente netta, chiara e (perdonami la parola) retorica, che alla fine sono più dannosi che utili: la retorica non fa bene a nessuno di questi tempi, il “chi non salta è” fa più male che bene. Per cui arrivare a definire un discorso a livello estetico che poi potesse avere una forza e nello stesso tempo mantenere una sua sincerità non è stato semplice.

Riprendo ciò che hai detto sull’immediatezza perché il concetto ritorna in Padania, un album che “vuole essere disco” come e più di altri dischi degli Afterhours: insomma, mi sembra che Padania sia un disco da ascoltare “in ordine”…
Hai ragione: Padania ha un filo conduttore, che non è facilissimo da individuare, e che soprattutto magari non sarà lo stesso per tutti. Abbiamo cercato di fare un concept emotivo, emozionale, per cui questo filo conduttore è più emozionale che narrativo. Crediamo nel fatto che narrando degli eventi si possano suscitare delle emozioni molto profonde, ma il compito di un gruppo come il nostro è narrare la tensione. La tensione ha a che fare con il panico, con il disorientamento, l’odio e il rancore, ma anche con la gioia più ingiustificata: sono tutte cose che si possono raccontare, ma rischiando di perdersi l’emozione di queste cose. I pezzi invece più musicali, che non sono costruiti come una canzone, servono proprio a quello, nel percorso del disco. E poi c’è stata la convinzione di fare un disco, e non una serie di pezzi messi insieme su un album: perché noi crediamo ancora nella formula “album”, a dispetto di quello che si dice in giro sulla morte dell’album. Se ti guardi intorno, la musica che sta comunicando di più è contenuta in album che hanno una tematica forte e che sono piuttosto lunghi proprio in termini di durata. Rimanendo al nostro ambiente di posso parlare del disco dei Verdena o di quello del Teatro degli Orrori, che è un album lunghissimo che però alla fine ha un senso in quanto album: è una specie di libro, ti sta raccontando una situazione in maniera molto poco superficiale, proprio perché è analizzata in tante canzoni, quindi attraverso tanti aspetti.

Mi riallaccio a quest’ultima tua osservazione: hai parlato di un libro, che spesso è associato al romanzo e quindi a una densità, a una complessità, alle trame e alle sottotrame. Avete mai pensato a Padania come a una sceneggiatura, cioè come a una serie di storie che si dipanano tra le canzoni?
All’inizio sì, ma poi mi sono reso conto, come ti dicevo prima, che stavo razionalizzando troppo: stavo rischiando di fare un album molto cantautorale, di cantautorato rock, ma tant’è, e non era quello che mi interessava. Volevamo piuttosto spingere sul lato musicale, anche per amplificare il lato emotivo, che ci sembrava e ci sembra tuttora la cosa più importante. Questo non è un disco facile, ma allo stesso tempo vedo che sta arrivando nel modo giusto; non so se la gente lo capisca o meno, e non è importante: non so nemmeno se lo capisco io. Ma il contenuto emotivo, la tensione, arrivano: ed era esattamente quello che non volevamo perdere. Per cui siamo stati molto attenti a preservare la spontaneità delle cose che nascevano, quando erano molto forti: per questo ho scritto i testi in coda al lavoro. Non volevo condizionare la scrittura musicale con le parole e sulle parole, ma fare il contrario. Sono stato attento a metterci degli approdi, dei porti, dei ganci, chiamali come vuoi, più narrativi, che servissero a dare una chiave di lettura in forma canzone, come “Padania” stessa, come “Costruire per distruggere” o “La terra promessa si scioglie di colpo”, o “Nostro anche se ci fa male”. Sono pezzi più tradizionali per costruzione e un po’ più narrativi, perché se no l’album sarebbe diventato davvero troppo claustrofobico e schizofrenico. E il bianciamento tra le canzoni l’abbiamo trovato nel modo più vecchio che ricordavamo: facendoci delle scalette a orecchio. Abbiamo provato a seguire un ordine teorico, ma ci aveva frustrato: non riuscivamo a trovare una sequenza che funzionasse bene. Mettendole in fila, insieme, per gusto, paradossalmente abbiamo trovato una scaletta che funzionava molto bene, paradossalmente, anche razionalmente.

Sono allora curioso di sapere come questo “metodo” sia stato applicato ai pezzi probabilmente più curiosi e inaspettati del disco: i due “messaggi promozionali”. Considerando quello che dicevi prima, sono una sorta di “satira dell’immediatezza”? Sembra che la ruvidezza acida che si sente in tutto il disco esploda in questi momenti…
Sì, è così. Non è facile da spiegare, ma intanto siamo comunque nell’epoca del messaggio promozionale. Qualunque cosa succeda, un bombardamento su una città del Libano, dei bambini rapiti o un’altra tragedia, alla fine ti arriva comunque il messaggio promozionale che spesso è anche in tema con quello che è successo: rapiscono un bambino e lo spot è sui pannolini. Si tratta di una satira, forse non pesante, ma Padania, comeconcept, vuole rappresentare anche questo tipo di situazione. Nelle foto promozionali abbiamo questi visi di cera, quasi inespressivi, come persone che non hanno né anima né sentimento. E nel disco, nel momento emotivo più alto, arrivano degli spot a rompere l’atmosfera, ma sono più simbolici che altro, funzionano in quanto tali più che per il loro contenuto. Tuttavia, il secondo, che parla della vendita di spazi promozionali su cd, il più cinico dei due, alla fine non era una brutta idea!(ride). Eravamo in dubbio se brevettare la cosa e alimentare ancora di più la provocazione: volevamo aprire un numero verde, con una segreteria telefonica, e vedere – facendo lo spot in maniera più seria di come è finito sul disco – quanta gente avrebbe creduto che gli Afterhours erano davvero disposti a vendere degli spazi pubblicitari sui dischi. Però poi abbiamo avuto un po’ paura… Paura della gente…

Paura dell’eventuale reazione o di come gestire le chiamate?
Di come gestire le chiamate… Insomma, parliamoci chiaro: la gente non sempre dimostra un grande umorismo. Anche nei nostri confronti, e la cosa talvolta mi fa un po’ male, non sempre c’è stata fiducia in quello che avevamo fatto. Quindi questa cosa poteva diventare davvero difficile da spiegare, alla fine, nel suo essere provocatoria. Ma la cosa che ci ha fatto più paura è che rischiava di fare passare in secondo piano cose molto più importanti del disco e quindi abbiamo deciso di ridimensionarla. Comunque le questioni della sintesi, della velocità è uno dei temi del disco, perché sono cose che stiamo soffrendo. Di certo la cosa è generazionale: il progresso avanza e la vecchia generazione soffre la velocità della nuova generazione. Certo è vero che la velocità delle comunicazioni di oggi, con la rete e altri dispositivi, ha abbassato le capacità di analisi delle persone, la pazienza che si deve avere per giungere a un concetto, e quindi la disponibilità delle persone ad ascoltare la musica. Ed è veramente un peccato: non tutta la musica deve arrivarti come un pugno in faccia, ma se non lo fa è perché magari ci sono delle cose da scoprire, ed è molto bello farlo, io sono abituato così. Per questo abbiamo fatto un disco del genere, che credo non sia molto immediato: ci piacerebbe che la gente andasse a scoprirlo, questo disco, magari con il tempo.

Faticare per ascoltare può portare a un ascolto più pieno e, eventualmente, a una critica più fondata: ma Padania arriva come una manata in faccia, anche solo dal punto di vista musicale. C’è un lavoro stratificato, sui feedback, sullo spessore del suono: è qualcosa nata in studio o già i musicisti hanno portato un’idea sonora di questo tipo?
No, è qualcosa che è nato in studio. All’inizio volevamo organizzare il lavoro come abbiamo fatto ultimamente, cioè suonando tutti insieme nella stessa stanza: così avevamo l’illusione di mantenere una certa naturalezza. Ma è una modalità che non sempre è funzionale: magari una soluzione che viene al momento è mediamente buona per quel pezzo, ma non è detto che perché l’hai trovata lì in studio sia la migliore. Spesso le cose migliori vengono fuori ragionando, riflettendo, cambiando, eccetera. Dopo un po’ ci siamo resi conto che le cose migliori venivano dagli spunti su cui ognuno lavorava a casa propria e poi portava in sala prove, per cui abbiamo deciso di continuare a lavorare così. Ognuno ha lavorato ai propri spunti da solo, per poi portarli in sala prove affinché gli altri potessero lavorarci a loro volta da soli. Per farti un esempio: se Giorgio Ciccarelli faceva un riff di chitarra particolarmente interessante, io poi a casa facevo un cantato sopra, lo strutturavo e lo passavo a Giorgio Prette, che a casa ci faceva una parte di batteria, eccetera. Il tutto senza essere nella stessa stanza. Secondo me questa cosa ha giovato tanto, perché noi tutti abbiamo provato a fare delle cose che forse non avremmo fatto davanti agli altri. Io stesso mi sono fatto tutte le voci in sala prove da solo, cosa che non credo avrei fatto di fronte agli altri, non sempre con grandi risultati (ride). Il settanta per cento delle cose che ho fatto, per fortuna, non sono finite nel disco, ma quel poco che hofatto mi soddisfa molto, perché è un po’ diverso da quello che avevo fatto nel passato. E così credo che sia per tutti gli altri.

Per concludere, torniamo da dove abbiamo incominciato. Ascoltando ciò che mi hai detto ho ripensato al concetto di impotenza dell’uomo protagonista della canzone “Il Paese è reale”, e il tuo menzionare lo smarrimento e il disorientamento hanno come relativo fisico la pianura, che spesso provoca queste sensazioni. Quanto spesso e come vieni preso anche tu da questo senso di smarrimento, impotenza e frustrazione che credo siano elementi di spicco dello spirito del Paese, non solo adesso?
Sì, hai detto bene: sono caratteristiche del Paese da tanto tempo a questa parte, e anche io ci casco molto spesso, devo dire. Nel nostro ambiente, poi, è molto facile essere presi dallo smarrimento e dalla frustrazione, non solo perché le cose fanno fatica a funzionare per tutti, ma anche perché c’è una mentalità veramente meschina: c’è tantissima invidia, c’è rancore, ma soprattutto c’è tantissimo immobilismo. E internet, che pure ha tanti vantaggi nell’ambito della comunicazione e che anche io uso tantissimo magari per riascoltarmi delle cose di catalogo, ha peggiorato questa situazione: tiene a casa le persone, non le fa essere presenti e sicuramente le rende più innocue, da un certo punto di vista. E invece di sfogare la rabbia e il rancore con le invettive che si leggono in rete tutti i giorni, non fa altro che alimentarle, perché nutre l’immobilismo e non provoca alcun tipo di reazione. Non sono l’unico, purtroppo, a provare queste sensazioni, adesso come adesso. Però sto anche vedendo delle reazioni molto importanti (e parlo sempre del mio mondo, quello della musica e dell’arte, perché non voglio fare il tuttologo): il Teatro Valle occupato a Roma, ma soprattutto il Teatro Coppola a Catania, un vero gesto di responsabilità civile. La gente è andata a ristrutturare gratuitamente un teatro per ridarlo ai cittadini, non per tenerselo e occuparlo per scopi personali. Io credo che la gente abbia ricominciato a capire che la partecipazione reale, quella fisica, è il futuro, per quanto possa sembrare una cosa preistorica. Quando ci sono state le amministrative a Milano, a detta dell’amministrazione stessa il momento della svolta è stato il concerto di piazza Duca d’Aosta, dove 25000 persone si sono trovate fisicamente insieme nello stesso posto e si sono rese conto che eravamo in tanti e valeva la pena comunque di provarci: da lì è stata una spirale positiva. Quindi credo che queste cose stiano tornando, che soprattutto la giovanissima generazione si sia resa conto che la partecipazione può essere una via di fuga dall’immobilismo e dalla rabbia e dal rancore che ne derivano.

Gotico texano: un’intervista a Josh T. Pearson

Josh T. Pearson esce dai camerini del Locomotiv Club di Bologna con pantaloni scuri, camicia scura aperta sul davanti e una pelliccia. È il 16 novembre scorso e fa freddo.

“L’ho comprata a Parigi per 20 euro”, mi dice. “È poco, non trovi? I ragazzi oggi non comprano cose così, perché è vera pelliccia. Ma…”, esita e mi guarda con due occhi profondi, ispirati e terribilmente tristi al tempo stesso. “Io sono del Texas”, conclude. E quest’affermazione in sé racconta già moltissimo di Josh T. Pearson e della sua carriera, iniziata sfortunatamente con i Lift to Experience, ma più che affermata grazie all’osannato (e ostico) debutto solista Last of the Country Gentlemen, uscito nel marzo del 2011. Un cristiano del Texas: quattro parole che aprono un mondo e un immaginario non sempre tranquillizzante, anzi. E il nostro, pur emanando una sorta di ancestrale e terricola sacralità, è garbato nei modi e acutamente ironico nella conversazione. Un vero gentiluomo del Sud, appunto, che non si vergogna a dire che per quanto possa affermare che il suono dell’album, interamente in acustico, sia volutamente rarefatto e intimo, dipende anche dal fatto che non poteva permettersi una band. “Gli studi costano un sacco”, dice meditabondo.

Cominciamo dall’artwork del disco e dalle foto sul tuo sito web: abbiamo fucili, nudità, ambienti rurali. Cos’hanno in comune tutte queste cose?
L’amore, direi. L’amore che ci rende tutti uguali, ci unisce, fa nascere i bambini. E la ragazza sulla copertina rappresenta quasi un ideale platonico di bellezza: l’abbiamo truccata per renderla quasi irreale, di plastica. Le foto con i fucili, invece, mostrano l’archetipo del vero uomo, rispettato e autoritario. Mi piacciono i concetti di amore, onore e rispetto.

C’è molta religione nei testi dell’album: si parla spesso di salvezza. Da chi o cosa bisogna essere salvati e come?
(ride) È una domanda difficile! Si può essere salvati da molte cose: dalla musica, per esempio, o da una persona, un’idea o una speranza. Ma si può essere salvati anche dal raggiungimento di un obiettivo. Io credo in Dio, negli angeli e in tutte quelle cose, sono un credente, un prigioniero del Signore. Non c’è niente che io possa fare, non posso fuggire. Vorrei poter cantare così forte da poter scardinare le porte, ma purtroppo le viti sono troppo strette.

C’è anche un lato più legato all’amore, al sesso, all’erotismo, al femminino. In particolare mi ha colpito un verso di “Woman, I’ve raised hell”, quando dici: Honey you are the Queen / But you had better leave or I will be forced to be King. Usi “force”, obbligare, e questa scelta mi trasmette un senso di minaccia nella canzone…
Ho faticato per un paio di mesi su quella frase. Non ero sicuro di usare la parola “forced”o “to see the return of a terrible king”. Mi piaceva la parola “forced” perché questo obbligo fa parte della nostra natura: non ne siamo contenti, ma fa parte del nostro essere animali, e non abbiamo alcuna opportunità per contrastarlo. È un istinto naturale che emerge. “Woman…” è una canzone d’amore, ma sarebbe stupido, da vigliacchi, affermare che nell’amore non si sperimenta anche la rabbia. Fa parte dei nostri limiti. Comunque ci ho messo un paio di mesi a lavorare su quelle parole e sono contento che qualcuno le noti e se ne sia interessato. Adesso dal vivo canto “see the return of a terrible king” e lo faccio perché mi piace come le parole rotolano sulla mia lingua.

Last of the Country Gentlemen è un disco profondamente statunitense, in molti l’hanno associato al concetto di “gotico americano”, ma ha anche legami con l’Europa, dove è stato registrato. Come si sono mischiate le tue radici texane con l’esperienza europea?
Be’, sono americano e ne sono felice. In trenta e passa anni l’America mi ha dato molto e non me la si può togliere da dentro… Sono legato all’idea di vastità e romanticismo di alcuni posti del Texas dove sono cresciuto. Però me ne sono anche allontanato molto: ho passato un paio di anni a Parigi, altri due a Berlino, forse uno a Londra, posti diversi tra loro, ma lontanissimi dai miei. Sono anche stato a New York, che non è così distante dal Texas, ma è una città rutilante e frenetica, a differenza delle metropoli europee. Mi piacciono perché c’è tempo per pensare e infatti in Europa ho avuto modo di riflettere sulla mia musica e sulla scrittura… Ma a proposito di “gotico”: chiamiamolo “gotico texano”: non che ci sia questa grande differenza, ma mi suona meglio (ride).

Il tuo sito è molto bello…
… ah, ma di quello si occupa l’etichetta…

Sì, lo immagino: ma penso che sia stato tu a decidere che, cliccando nella sezione intitolata “Bad news” si arrivi sul sito di Fox News. Uno è concentrato sulle tematiche del disco e trova, in maniera inaspettata e divertita, questo link…
(ride sorpreso) Ho chiesto loro di farlo e l’hanno fatto! Pensavo fosse divertente. Avrei potuto anche linkare The Economist e l’avrei trovato comunque buffo. Ma sai, alla gente piace prendere per il culo Fox News e quindi… ho giocato facile prendendomela con l’informazione di destra. Ma credo che negli Stati Uniti la sinistra sia più conservatrice della sua controparte.

Politicamente come ti collochi?
Proprio al centro. Per molto tempo non pensavo alla politica, sebbene leggessi The Economist ogni settimana, e lo faccio anche ora, specialmente in tour. Forse sono più vicino alle posizioni conservatrici in ambito fiscale, ma sono scandalizzato dal dibattito sull’assistenza sanitaria. D’accordo che è politica, ma è un vero prodigio che gli evangelici possano essere contrari alla gratuità dell’assistenza sanitaria. Proprio nel Nuovo Testamento si dice di donare i propri vestiti ai poveri, di porgere l’altra guancia… È stupefacente come riescano a convincere l’elettorato a votare in maniera contraria ai loro principi. Gesù è venuto per guarire i malati, per ridare l’udito al sordo e la vista al cieco… e questi li convincono del contrario. È un trucco messo a punto da gente malvagia… Ma sento che, non solo negli USA, le cose possono cambiare, c’è aria di rivoluzione, sebbene il momento non sia semplice. Lentamente stiamo diventando forse un po’ più intelligenti e aperti. O almeno, lo spero.

Grazie a Jonathan Clancy per la prima traduzione

L’elettricità

Quando ho avuto la conferma che Nada sarebbe passata da Maps non solo per un’intervista, ma anche per un minilive in studio, mi sono davvero emozionato: non mi aspettavo che una musicista con una carriera tale sarebbe venuta a suonare nel mio programma. Preparandomi, però, per l’intervista, ho riguardato e riascoltato molto della lunga carriera della musicista.

E in effetti ciò che l’ha sempre animata è stato uno spirito di indipendenza e di purezza sinceramente lontano dalle famigerate “scelte commerciali”, tant’è che mica le è andata sempre bene. Questo spirito, in scala minore, è un po’ quello che vorrebbe avere la trasmissione e a cui tende la programmazione della radio tutta. La sua presenza in onda, quindi, poteva avere ragione di esserci, così, fantasticandoci su.

Quest’introduzione per dirvi che quel pomeriggio di più di un mese fa alla fine è stato davvero bellissimo, e mi è rimasto dentro al punto tale da pervadere anche le sensazioni della serata, quando Nada e i Criminal Jokers hanno suonato in un Locomotiv sold out.

Quassù trovate il resoconto della serata, pubblicato nell’ultimo numero di Jam: un breve pezzo in cui non si accenna alle canzoni che vedrete e sentirete presto sul sito di Maps, ma di cui mi è rimasta una sorta di elettricità nell’animo. E capirete che quando è un set acustico a provocare queste sensazioni…

Qui non si sa
se restare nell’oscurità
o andare verso il futuro
in un mondo diverso
spinti da un vento leggero
come un fucile alla nuca
(Nada, “L’elettricità”)

Lui balla da solo

Le persone all’ingresso del locale sono gentili e lui entra, lasciandosi il gelo della sera alle spalle. In una mano un mazzo talmente infreddolito di rose che neanche lui ha il coraggio di guardarle, figuriamoci di venderle. Ma non si sa mai. Non ha fatto un euro quando credeva di ricavare qualcosa e si è trovato sulla strada di casa leggero, senza quasi più niente da vendere in giornate iniziate malissimo.

Il tepore di quel luogo lo abbraccia talmente stretto da farlo sorridere. E poi c’è un gruppo che suona. Non uno dei suoi che sì, bravi, i concerti del sabato pomeriggio, tutti a cantare le stesse canzoni, e c’è sempre quello che piange, però che palle. No, uno che fa musica tosta, rock. Però che strano: non c’è il cantante.
Viene quasi attratto dal palco, o forse dalla gente più fitta che è insieme fonte di calore e di guadagno, in quel momento. Ma in quello che fa c’è un misto di irrazionalità e abitudine che quasi lo stordisce. Sono tutti ovviamente rivolti verso il palco, come potrebbe mai pensare che qualcuno lo degni di uno sguardo? Non si girerebbe neanche lui per nulla al mondo, anzi: non lo fa proprio. Procede e, comunque, accompagna gesti a parole: “Amico, una rosa?”, o mostra svogliato la mano con gli accendini e i giocattoli.

La batteria incalza e gli ribatte dentro che sembra di essere al cinema e si trova nelle prime file proprio quando inizia a essere investito dal  basso perfettamente allineato al bagliore che proviene pulsante da un faro in alto. Solleva le braccia un po’, per mostrare rose e giocattoli, ma quando nessuno sguardo lo accoglie, decide di lasciarle sollevate e si accorge di ballare. La luce lo stordisce ed è insieme agli altri, da solo, per la prima volta.

Decide quindi di dare la sua parte: si ferma, mette la mano tra i capelli, preme un interruttore e le orecchie di Minnie che ha in testa si accendono. Mentre quelli intorno sono avvolti da un’intermittenza di tonalità fluorescenti che provengono dal cerchietto che indossa, lui balla, finalmente senza pensieri.

Al centro le orecchie di Minnie, sul palco del Locomotiv i Ronin (Bologna, 30.01.2011)

Di |2024-05-13T14:23:22+02:006 Febbraio 2012|Categorie: I Me Mine, I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , |3 Commenti

Grandi soddisfazioni

Conservo ancora gelosamente i primi cd-r che un musicista dagli occhi un po’ spiritati mi diede qualche anno fa. Sul primo c’è una foto ritoccata di Maurizio Merli che imbraccia un mitra. In alto a destra la scritta “Bologna Violenta”, tutto in maiuscolo, con font stencil. Con lo stesso carattere, in basso a sinistra, due iniziali, “N.M.”

Molti di voi sapranno che “Bologna Violenta” è il nome d’arte di Nicola Manzan, polistrumentista veneto, che riprendendo un titolo di un poliziesco italiano mai girato, ripensa uno dei generi più estremi della musica, il grindcore (se non sapete cos’è, mica è colpa vostra: ecco che ne dice Wikipedia). A questo promo (e a un altro cd-r chiamato Il concerto) è seguito un primo disco, Il nuovissimo mondo, pubblicato due anni fa dall’appena scomparsa etichetta Bar La Muerte.

Quel primo disco Manzan è venuto a farlo da me dal vivo in radio, e proprio oggi sul sito di Maps esce l’intervista fatta al musicista a proposito dell’ultimo Utopie e piccole soddisfazioni: il suono di Bologna Violenta si apre agli archi, in una combinazione più che interessante.

Lasciando perdere le utopie, comunque, è una grande soddisfazione per me unire un party di Maps alla presentazione ufficiale del nuovo disco di Manzan. Dopo il suo concerto, preceduto dal live degli ottimi Fast Animals and Slow Kids, ci saremo io e Alice di Urban Sherpa a farvi ballare. Il tutto domani, al Covo.
Astenersi deboli di cuore.

Dire no all’artismo

Caro Wayne Coyne,

innanzitutto tanti auguri per il tuo cinquantunesimo compleanno. Ti scrivo questa breve lettera, oltre che per festeggiarti, per metterti in guardia contro un pericolo che si potrebbe profilare all’orizzonte per te e per i Flaming Lips: il pericolo dell’artismo. L'”artismo” è l’atteggiamento per cui ogni cosa che si fa dev’essere considerata arte e che viene creata con questo intento. L’artismo non si manifesta subito, ma ci sono alcuni sintomi che dicono che l’organismo è sotto attacco di questo pericoloso morbo: il malato inizia a parlare di sé in terza persona, l’uso della parola “arte” e derivati nei discorsi del soggetto aumenta vertiginosamente, così come la lapidarietà delle sue dichiarazioni. Questi primi segnali non devono essere sottovalutati, perché in questa fase il malato può ancora essere guarito. Se però questi e altri sintomi sono trascurati, si precipita nell’abisso dell’artismo, e da lì in poi sono solo vernissage.

Tu e i Flaming Lips per me siete l’emblema di qualcosa che è totalmente opposta all’artismo: la geniale cazzoneria. La stessa che aveva John Belushi, mica robetta. Questa geniale cazzoneria la si percepisce ai concerti (ancora è vivida nel mio cuore l’euforia del live di Ferrara di qualche anno fa), ed è presente in molti dei vostri numerosi album, compreso l’ultimo, oscuro e meraviglioso Embryonic. Dopo il riuscitissimo doppio del 2009, però, è scoppiata la locura: il rifacimento di Dark Side of the Moon era solo l’inizio. Avete inciso ep con Neon Indian, Lighting Bolt e Prefuse 73. Non contenti, avete infilato dischi in confezioni stroboscopiche, e chiavette usb con mp3 in orsetti gommosi giganti, feti di gomma, teschi di gomma e pure in teschi umani. Avete stampato poster col vostro sangue. Ma non bastava: avete pubblicato anche una canzone lunga 24 ore.

Come si dice ne L’odio, “fino a qua, tutto bene”. Si sa: tu e i tuoi compari, Wayne, siete matti. Questa follia, divertente e genuina, sebbene sia cresciuta esponenzialmente negli ultimi tempi, non mi ha mai fatto pensare ad un possibile attacco di artismo. Fino a qualche giorno fa, quando ho ascoltato l’ep che avete inciso con Yoko Ono. Wayne, so cosa pensi: che io ce l’abbia ancora con Yoko per quella vecchia storia dei Beatles. No, non è così, e anni fa ho esposto il mio punto di vista. Il problema è che la Ono è una portatrice di artismo totale, colpita da esso ben prima del fatale incontro con John Lennon. Sono certo, infatti, che Yoko Ono sin da giovanissima mostrasse evidente lo scempio più tremendo che compie l’artismo sull’essere umano: lo rende certo dell’essere capace di tutto. Anche di avere capacità musicali e di rovinare un momento come questo (prego, favorire il filmato).

[youtube=http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=h9kgu71d81U#t=146s]

L’hai vista la faccia di quei due quando la nipponica ulula?
Ecco.
Facciamo quindi finta che questo ep sia un passo falso, e che il tuo prossimo passo sia con la band verso uno studio di incisione, ma non da soli. Sempre con la vostra sincera, sghemba, stramba, bizzarra e fantasiosa cazzoneria per la quale vi sono eternamente grato.

Tanti auguri ancora,
Francesco

La logica delle predizioni

Da qualche giorno impazzano in rete i commenti (spesso aspramente critici) a un articolo scritto da Gino Castaldo su Repubblica nel giorno della Befana. Che cosa dice, in sintesi, il critico musicale? Che, essendo le classifiche 2011 dominate dal pop, il rock è morto e che, inoltre e quindi, la musica non ha più valore di protesta.

La tesi è alquanto pesante e dovrebbe essere ben argomentata: a mio avviso, tuttavia, non sempre ogni passaggio dell’articolo è chiaro. D’altro canto, ho letto ben poche critiche argomentate: spesso si è trattato di insulti gratuiti o di osservazioni negative mosse da un’identica mancanza di chiarezza.

Tentiamo quindi di capire cosa c’è che va e non va nell’argomentazione di Castaldo. Per farlo, ahivoi, bisogna essere analitici: credo che sia una qualità spesso mancante nel giornalismo di oggi e che è sicuramente rarefatta in questo piccolo “dibattito” recente.

Il primo errore che fa Castaldo è nell’identificare il rock come “genere” di un’ipotetica colonna sonora del “movimento”.

I giovani trovano luoghi e ragioni per nuove proteste, che si chiamino Indignados o Occupy Wall Street, ma curiosamente, forse per la prima volta nella storia moderna, non esiste una colonna sonora che racconti di queste nuove esperienze. Il rock? Latita, è assente, così come sta praticamente scomparendo dalle classifiche, lasciando il posto a un dominio pressoché assoluto del pop commerciale.

Seguiamo un ragionamento logico:

  • i giovani continuano a protestare ma
  • non c’è una musica che racconti questa protesta.

Subito dopo si introduce “il rock”, che quindi dovrebbe essere – a rigor di logica appunto – la musica che, secondo il giornalista, deve per forza accompagnare un movimento “politico” di qualche tipo. Primo dubbio: e perché il rock? Perché non il dub o il reggae delle rivolte inglesi a cavallo tra ’70 e ’80, perché non le posse della “Pantera” italiana, perché non certa disco che è rimasta legata ai giorni di lotta per l’affermazione dei primi diritti degli omosessuali? Non si sa.

Il problema, comunque, sta già nella questione dei generi: non leggevo “commerciale” in ambito musicale da anni. Cos’è il pop commerciale? Io, personalmente, non lo so. In fondo, se qualcosa è in classifica è per forza commerciale. Sarebbe, se no, come dire “un bestseller da poche copie”. Ossimoro. Ma la confusione di generi prevale poiché, dopo avere detto che c’è anche il rap in classifica, Castaldo conclude affermando che “in generale prevale l’imperativo della dance”.

Quindi il pop commerciale è la musica dance? E cos’è esattamente la musica dance, allora? Perché se è musica-da-discoteca in senso stretto (che ne so, la house), be’, non c’è neanche quella in classifica. Insomma, una gran confusione.

Dopo avere spiegato il fenomeno dei Coldplay (che sono “una bandiera rock” ma in classifica) affermando che il tutto si spiega con una pesante iniezione di pop all’interno della musica della band di Chris Martin (curioso però che nelle interviste il frontman definisca “pop” la sua musica), Castaldo abbandona le classifiche e passa ai Grammy Awards.

Lì, dice, ci sono voci femminili che spadroneggiano: niente da dire, è vero. Ma davvero Adele, Rihanna e Lady Gaga hanno tanto in comune, a parte il fatto di vendere ancora dei (tanti) dischi? Rimango dubbioso. Castaldo, però, allarga sempre di più il suo sguardo secondo una prospettiva temporale, e scrive:

I margini [del possibile successo del rock, Ndr] sembrano ridotti, come se il rock stesse diventando una riserva, da proteggere e magari conservare con cura, come un retaggio del passato. Ogni tanto arriva un acuto un segno forte (Springsteen, Radiohead, Arcade Fire tanto per fare esempi), ma i nomi in grado di contrastare la marea montante del disimpegno musicale sono sempre meno e più isolati.

Quanti concetti mischiati in poche righe: prima si parla di rock come retaggio del passato. Perché, il pop non lo è? Rinviamo, ancora una volta, quanto meno ai temi tirati fuori da Simon Reynolds in Retromania. E poi: perché pop equivale a disimpegno musicale? Che cosa vuol dire “impegno musicale”?

Sono concetti che davvero faticano a trovare un posto in un mondo in cui ha poco senso la cara vecchia distinzione tra musica classica e musica leggera: perché era in contrapposizioni come quella che si fronteggiavano la serietà e l’impegno da un lato e il “passatempo” dall’altro.

Radiohead e Arcade Fire si sono impegnati per Haiti, in modi diversi, ma a parte questo? E Springsteen? Dobbiamo ricordare la sua partecipazione a “We Are the World”? C’era anche Michael Jackson, in quel brano, anzi: l’ha scritto lui, ed è pop, il brano e l’autore. E i Poison? Per essere rock, lo sono, ma quando mai hanno preso posizione su qualcosa? E i Metallica? E gli Emerson, Lake and Palmer? Da rock progressivo a rock progressista?

La mia è ovviamente una provocazione, ma dare un senso ai termini che si usano è importante, così come lo è non perdere di vista ciò di cui si sta scrivendo. E invece Castaldo…

(…) il popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato, sembra tornato a un’era pre-rock in cui la musica era soprattutto intrattenimento, magari licenzioso, qualche volta trasgressivo, ma pur sempre solo e soprattutto divertimento. Di nuovi gruppi rock ce ne sono, a centinaia, ma preferiscono un profilo più basso e aristocratico, nessuno di loro sembra volersi fare carico di essere portavoce di alcunché, tantomeno di esprimere nelle canzoni un grande respiro generazionale.

A questo punto necessitiamo di una cronologia, di un riferimento che divida l’era rock da quella pre-rock, che separi la musica-solo-per-passare-il-tempo da quella impegnata. Da sempre la musica è stata intrattenimento e altro.

Questi discorsi si sentivano anche negli anni ’90 (me li ricordo, c’ero), e pure prima: rimando a due bei post scritti da Scott Ronson che ha fatto delle interessanti ricerche d’archivio su come la musica di largo consumo (quindi pop) è stata trattata dai quotidiani italiani.

Sulla questione, invece, di “farsi portavoce di una generazione” il discorso è invece diverso e, per me, pieno di interrogativi.

Innanzitutto: pare facile, diventare portavoce di una generazione. Perché questo accada come un tempo bisognerebbe (semplicemente) tornare indietro di qualche decina d’anni, quando le canzoni venivano ascoltate di più, ce n’erano di meno a disposizione e, soprattutto, la coesione sociale (in senso ampio) era più forte. È difficile, di questi tempi, radunare le folle nelle piazze nonostante ci siano tutti i motivi per farlo, figuriamoci “dare loro una canzone”.

Poi: una canzone “portavoce di una generazione” è automaticamente “politica” e “di protesta”? E i giovani del movimento “Occupy Wall Street”, chi sono rispetto al “popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato”?
Gli esempi che Castaldo fa più sotto,

(…) come We shall overcome o Blowin in the wind, per rimanere alle vecchie posizioni anni Sessanta, ma neanche pezzi incendiari come London calling o come gli ultimi vagiti di rabbia espressi dal grunge (…)

sono per forza di cose appartenenti a un’altra epoca che non solo aveva suoni, modi, cultura diversi, ma che era completamente diversa. Sotto molti punti di vista (compreso quello che riguarda tutta la filiera produttiva della musica) i vent’anni trascorsi tra Dylan e i Clash sono molto meno pesanti di quelli trascorsi tra i Nirvana e il giorno d’oggi.

I cambiamenti (non il cambiamento) sono stati rapidi e tumultuosi: ma del resto buona parte dell’analisi di Castaldo è basata sulle classifiche di vendita, che ormai interessano sempre di meno anche i discografici più “mainstream”. Il punto focale sono i concerti, e in questo Castaldo ha ragione.

(…) Come se il calendario si fosse inceppato nella maglie del tempo, tra i tour più attesi dell’anno nuovo ci sono in programma molti eventi di riunione, con un ampio raggio che va dai Black Sabbath ai Beach Boys.
Parlando di rock si investe molto sui concerti, che ancora funzionano, soprattutto se si parla di nomi consolidati, meglio ancora se sono vecchie glorie capaci di risvegliare anche nel pubblico giovanile il sogno, ormai tramontato, di una musica capace di far fantasticare, di parlare una lingua nuova, di risvegliare il nostro orgoglio di cittadini del mondo, alle prese con le difficoltà del mondo reale.

Pur tralasciando la visione quasi taumaturgica della musica impegnata (tornando a una band citata che amo, gli Arcade Fire: giuro che quando li sento da solo o dal vivo mi sento “cittadino del mondo” – argh – quanto prima), è vero: concerti di tale portata richiedono soldi che gli investitori se la sentono di scommettere solo sui grossi nomi “sicuri”.

Ma questo accade comunque: è la mancanza di soldi dei pesci piccoli (tutti: dalle radio ai promoter ai gestori di locali) il problema, e non “la crisi della musica rock”. Un concerto di Springsteen, Bowie, McCartney, dei Coldplay, Rihanna o dei Muse sta da tutt’altra parte rispetto al resto, compresi i tour dei Ministri e del Teatro degli Orrori (che sono molto vicini all’essere dei rappresentanti generazionali), anche loro citati nell’articolo, ma che

(…) fanno una gran fatica a emergere dalla trama asfissiante del mercato, con le sue rigide regole di imposizione mercantile.

Tutta la cultura fa fatica a emergere. Soprattutto quella “nuova”. Il problema, ancora una volta, è generale: fa fatica a emergere il cinema medio/piccolo, in Italia, così come annaspano tutti i nomi non blasonati dell’arte e della fotografia, i piccoli festival (per quanto ce ne sono ormai troppi, soprattutto in ambito cinematografico), le compagnie di danza.

Chi è che non fatica? Chi fa soldi, chi va in classifica, appunto, perché ha avuto fortuna, perché rimastica ciò che è stato, perché vive di rendita. E questo accade da sempre: i casi in cui “reale valore” (o impegno?) e “consenso popolare” vanno d’accordo si contano sulle dita di una mano, soprattutto se il lasso di tempo considerato è breve.

I Beatles, tanto per tirarli sempre fuori, sono uno dei pochissimi esempi di innovazione e successo enorme di pubblico, sono stati cioè tra i pochi a innovare realmente (nel loro caso anche oltre l’ambito musicale) mentre scalavano le classifiche.

Eh già, perché una delle caratteristiche del “pop”, intenendolo come “roba da classifica”, è avere saputo attingere dalle aree nascoste (underground, off, come vogliamo chiamarle) e di ridigerire alcune cose (talvolta tradendole, ma mica sempre) per ridarle a un pubblico più vasto. In fondo è quello che ha fatto Bowie durante quasi tutto il corso della sua carriera, ma senza dubbio negli ultimi trent’anni. Allora Bowie è pop? O dance? O rock? Non sarà mica tutto?

Ma torniamo, prima di concludere, ai problemi concettuali. Castaldo afferma che il rock sia nato “sostanzialmente come moto di rivolta”. Ma quando? Come? Perché? Parliamo di rock’n’roll? Little Richard non mi è mai parso un “guerriero politico”: semmai è stata la diffusione come genere di intrattenimento del rock’n’roll che poi ha portato ad altro.

Oppure parliamo del “cambiamento” degli anni ’60? Ma le canzoni di protesta dell’epoca derivavano dal folk, a sua volta legato a tradizioni musicali ancora più antiche; e la musica psichedelica per lo più era poco “impegnata politicamente”. O ci riferiamo alle prime forti commistioni tra generi degli anni ’70 e ’80, come il rap? E proprio il rap e la cultura hip hop non sono stati “generi di rivolta” anche quelli? E il soul di Marvin Gaye, con il suo disperato e quasi cronachistico “What’s Going On”?

Proseguiamo. Con un azzardato passaggio logico, il giornalista sottolinea che alle manifestazioni suonano sempre i soliti vecchi: ma il problema non è del rock, è della generica distanza dei giovani dal pensiero politico. I musicisti citati (Patti Smith, Graham Nash, Lou Reed e anche Tom Morello) sono legati a un altro modo di pensare la politica, forse l’unico, che è quello della partecipazione, dello scendere in piazza, del mostrarsi, dello stare insieme. Ma siamo sicuri che davvero ci siano solo degli anziani a suonare alle manifestazioni?

Non proprio: direi che Merrill Garbus, più conosciuta con il nome d’arte di tUnE-yArDs, abbia meno di trent’anni, ed era in piazza insieme ad altri colleghi più vecchi e blasonati. Direbbe Castaldo che tUnE-yArDs non vende. È vero, così come è tutto sommato limitata (nel tempo per i suoi risultati e/o per numero di partecipanti) buona parte del movimento politico degli ultimi anni, dalla manifestazione in piazza all’occupazione, compresi i moti recenti citati nell’articolo.

Non è della fine del rock che dobbiamo preoccuparci, caro Castaldo, ma della sempre più decisa atomizzazione della società, dello scarso investimento culturale, della lontananza della politica (dei suoi rappresentanti, del suo linguaggio) dalle nuove generazioni. Il rock, qualunque cosa si intenda, non è morto: è vivo e lotterà insieme a noi, quando ci sveglieremo.

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