Gomito – Due Madonne
L’altra sera ero in anticipo per il concerto all’Estragon e ho deciso di non premere il pulsante per fermarmi al Parco Nord. Ho proseguito. Se si prende il 25 verso il capolinea “Gomito” e si passa il Parco Nord, si arriva al carcere, “la Dozza”, come viene chiamato. Alla fermata dell’autobus del carcere sono salite dieci persone: tutti maschi, per lo più nordafricani dall’aspetto e dal linguaggio. Ho pensato che per queste persone l’inizio del ritorno alla vita normale (per così dire) avveniva con l’emblema della quotidianità per milioni di persone nel mondo: il mezzo pubblico. Il 25 a Bologna parte dalla zona del carcere, passa dalla Stazione Centrale e prosegue attraversando il centro città, per arrivare alla periferia orientale e concludere infine la sua corsa toccando nuovamente la tangenziale: la linea descrive una sorta di “L”, la cui stanghetta orizzontale è parallela alla via Emilia.
Sono riuscito solo a scorgere i volti degli uomini saliti sul bus prima che superassero il posto dov’ero seduto e si sistemassero sui sedili: tuttavia in quel breve attimo in cui ho visto le loro facce, ho notato in esse uno strano misto di cattiveria, terrore e stanchezza. Nessun sorriso. Alcuni parlavano animatamente tra loro. Il vocio, però, si è spento presto: non mi sono girato, ma li ho immaginati tutti a guardare fuori dai finestrini una periferia che si accollava la responsabilità di essere il primo contatto con il mondo fuori dopo giorni, settimane, mesi o anni, chissà.
Dopo qualche minuto di silenzio, però, si è levata una voce. Un uomo stava parlando al telefono, in italiano, ma con accento straniero.
“Pronto!
E chi vuoi che sia? Non mi riconosci neanche? Sono tuo marito!
Sì, sì. Sono sul 25.
Sono uscito, sì, e sono sul 25.
Non piangere! Con chi sei?
Ah, è lì con te? Bene! Senti, ci vediamo alla Montagnola. Vieni in macchina.
Ciao.
Sì!
Ciao.”
L’autobus, intanto, aveva fatto il giro ed era tornato dove sarei dovuto scendere una decina di minuti prima: ho premuto il pulsante, le porte si sono aperte e richiuse e il 25 è ripartito, disegnando la sua “L” fatta di strade e gente, come al solito, dalle prime ore del mattino alle ultime della notte.









Arriviamo alla cena dell’ultimo giorno
per la tal sagra, al tentativo di battere il record di persone che formano una catena umana intorno a un lago. La coppia A ha invitato la coppia B a unirsi alla prova: lei-B quasi quasi ci stava. Si è poi parlato di traffico, di stile “rusticato” (di cui Maschio-A sapeva tutto), di orari di lavoro, di souvenir (seriamente), di educazione dei figli con annesse prove che alla fine si può anche stare senza cellulare. A quel punto il maschio-B ha detto che “Non si può tornare indietro” e ho avuto l’impressione che si riferisse alla scelta dei posti per la sera.
La seconda cena viene affrontata con il bagaglio di conoscenze del
Alle sette e quaranta del mattino udiamo dei suoni emessi dal bambino nostro vicino, ai quali presto risponde l’altro bambino, convincendo infine ad unirsi al chiacchiericcio i quattro genitori: i campani si sono svegliati.
“Non si finisce mai di imparare” e “Al peggio non c’è mai fine”: se dovessi riassumere l’ultima esperienza conviviale che ho vissuto, userei questi due modi di dire. Banali quanto volete, ma veritieri. Ma cominciamo dalla cornice: un agriturismo della campagna umbra nel quale ho passato il ponte appena trascorso. Ci spiegano che la cena viene servita alle otto e ci mostrano la sala da pranzo: un refettorio, con tavoli lunghi e sedie tutte intorno ad essi. “Siamo un po’ francescani nello spirito”, ci dicono. Siamo a due passi da Assisi: cosa si vorrà mai essere?
comportano allo stesso modo: ci sono gruppi di quattro o sei persone che chiacchierano amabilmente tra loro. Sono gruppi preesistenti, compagni di viaggio, o si sono formati spontaneamente? Molte coppie, però, hanno un’aria quasi penitenziale, mentre mangiano. Probabilmente l’abbiamo anche noi.












