bologna

Giorni indipendenti: cronaca da un festival, tra il musicale e il mondano

A me i festival musicali, di solito, non piacciono. Troppi gruppi, pericolo di distrazione e di bulimia, tempi stretti. Ma quando mi è stato proposto di fare la diretta dell’Independent Days Festival per Popolare Network insieme a Elisa, non ho avuto dubbi e ho accettato. Insomma, due giorni di concerti gratis, con pass all areas, voglio dire… E quindi eccoci, alle dodici e qualcosa del 4 settembre, entrare nell’Arena Parco Nord.

Sabato 4 settembre

Da Ginsberg ai 3 allegri ragazzi morti. Scusa, Ginsberg.
Il primo personaggio che vedo lascia il segno. Un ragazzo dal capello lungo e luccicante (non ho voluto indagare se per eccesso di sudore, acqua o strutto) si aggirava per quella landa brulla e battuta da sole, con indosso un camice bianco. Si inginocchia per terra a caso, e urla: “Il re della poesia è Ginsberg!” Quando qualcuno gli chiede delucidazioni, si rialza, si calma un po’, poi chiede: “E lo sai qual è il re della prosa?” Si inginocchia di nuovo e urla, brandendo un libretto: “Jack Kerouac!”. “Forse è il figlio della Pivano”, ho pensato.
Sul palco si avvicendano i primi gruppi e, siccome la diretta inizia alle sei, ho tutto il tempo di guardarmeli. Di solito per non più di cinque minuti.
I Ray Daytona, però, sono simpatici. A parte la mia passione smodata per il garage (fans dei Fuzztones, a me!), è sempre bello vedere delle persone mascherate sul palco. Uno da martello, uno da chiave inglese, uno con la maschera antigas e uno… da uomo. Sì, sul palco dei Ray Daytona c’era un uomo con sopra un travestimento da uomo. Coi baffi. Forse l’omino sotto era sprovvisto di peluria facciale, chissà.
I Colour of Fire quando salgono sul palco si lamentano, perché il loro “Cheeao!” non è accolto dal pubblico come si deve. Quindi il cantante esclama, stupito: “Che razza di benvenuto è questo? Veniamo dall’Inghilterra!” In quel momento ho sperato che un siciliano lo minacciasse in dialetto stretto di salire sul palco e di spaccargli la faccia, se non la smetteva di dire cazzate e non iniziava a suonare.
E poi, I tre allegri ragazzi morti, che indossano maschere e fanno proclami. E la guerra. E la pace. E l’amore. E che due palle.

Gente, gente, gente, divertente (ma che bella situazione)
Avete presente le barzellette della Settimana Enigmistica dove si vedono i padroni dei cani uguali ai loro animali? Ecco, ai festival è così. L’Arena, sabato, era piena zeppa soprattutto di fan-sosia di Nick Oliveri. Omoni baffuti e con cappellino da camionista, che li vedi e sogni le grandi highway del Midwest. Poi li senti parlare e sono al massimo di Savona.
Stare vicino alla postazione mixer con il pass di cui sopra, inoltre, fa sì che si venga visti dal pubblico come degli oracoli, prodighi di saggezza e sapere. Mi è stata chiesta la scaletta circa settanta volte. E una quarantina di persone mi hanno chiesto “Ma i dEUS non suonano?” Ogni volta che ho confermato la triste notizia, le reazioni sono state da “Ah, vabbè, ma tanto piacevano solo a quello stronzo del mio ex”, fino al tentativo di suicidio. Dopo un po’ mi si avvicina un tizio e mi chiede “Oh, ma i Keane?”. Ho fermato un paio di fan dei dEUS che lo stavano per incaprettare.
L’altra gettonatissima domanda era: “Ma dov’è la tenda Estragon?” La mia risposta brevettata era un “là” accompagnato da ampio movimento del braccio, a comprendere tutto l’orizzonte. Ho smesso di indicarla quando uno mi ha chiesto se ci volesse la macchina, per raggiungerla.
Evidentemente il fatto che ci fossero due palchi non visibili l’uno dall’altro ha gettato nel panico tutti. In particolare una coppia, presumo piemontese, quarant’anni circa a capoccia. Lei mi approccia, da dietro le transenne, e mi inizia a chiedere dei due palchi, ma non chiamandoli “palchi”, bensì “situazione”. “Senti, ma in questa situazione qua suona Mark Lanegan? Ma quell’altra situazione dov’è?”. Ho ripreso immediatamente a sbracciarmi verso l’orizzonte e le ho fatto credere che Mark Lanegan fosse con i dEUS a bere pinte di Stella Artois a casa mia.
Dopo l’esibizione del suddetto Mark, si avvicina l’uomo della coppia. “Come ti è sembrato Lanegan? No, perché l’ho visto a Urbino, qualche anno fa, e mi sembrava meglio”. Io faccio la faccia del che-ne-so. Poi si avvicina, e mi sussurra: “Ma che c’è qualcosa che non va a Lanegan? No, lo chiedo a te, perché magari lo sai” e mulina la manina come per dire “birra e salsicce”. Io faccio la faccia di prima. “Ah, non sai un cazzo, eh?” E se ne va, con la sua compagna, verso nuove ed entusiasmanti situazioni.

Bloggerz (e non solo)
Poco tempo per stare con loro, peccato, perché finalmente ne ho visto qualcuno che aspettavo da tempo di vedere!

La musica che non conta e non riempie, quella che conta e ti fa saltellare, quella che commuove
Spiegatemi perché esistono The Libertines. No, veramente. Proprio come l’acqua fresca quando non hai sete. Mah, magari sono gretto io.
I Franz Ferdinand li avevo già visti, e li aspettavo alla prova del grande pubblico da festival, dopo l’abbraccio accademico virtuale del pubblico del Covo. Beh, ce l’hanno fatta anche stavolta. E voci fidate del backstage mi hanno detto che sono tranquilli, modesti e proprio tanto gentili e simpatici. Mando un sms a Karol, che dite? Quattro più, quattro meno…
E infine loro, i Sonic Youth. Ecco, quando hanno iniziato con “I love you golden blue”, ho maledetto il fatto di non potermi gettare nel pubblico, sbattendomene della diretta nazionale. Un’esibizione bellissima, con un inizio incerto su “100%” che l’ha resa ancora più preziosa. Sono andato ovviamente a fare una foto, durante “Teenage Riot”. Beh, vedete qua che è venuto fuori. Si può fotografare il rumore del feedback? Forse sì.
I Sonic Youth finiscono il concerto verso mezzanotte e qualcosa, noi abbiamo la diretta fino a mezzanotte e mezzo. Ma qualcuno dell’organizzazione non lo sa, quindi ci toglie la corrente prima. Le mie ultime parole sono state: “Allora, Elisa”. Bel titolo per una canzone. Mi chiedo se qualcuno ci abbia già pensato.

Domenica 5 settembre

Fashion Nuggets
La cara Bea non ne avrà a male se rubo il nome del suo blog per questa parte di post. Del resto lei l’ha rubato ai Cake, quindi… Si perpetra una catena di furti. Insomma, il pubblico del giorno indipendente numero due è spettacolare: ci sono adolescenti brufolosi e quarantenni che non si rassegnano, un po’ come molti dei gruppi in programma. E le magliette, di tutti i tipi, dai Metallica ai Thin Lizzy, dai Led Zeppelin ai Nirvana, dagli Ska-P a Piero Pelù. Ehm. Scusatea. Ma soprattutto non vedevo tante magliette dei Guns’N’Roses dal 1992. Incredibile quanto siano attesi i Velvet Revolver e soprattutto Slash. Sì, lo Slash che io e Elisa avevamo in programma di intervistare. Arriva un sms dall’organizzazione: “Niente domande sui GNR e sugli STP”. Io e Elisa ci guardiamo: “E mo’ che cazzo gli chiediamo?”. Ma in fondo stiamo per tornare indietro di dieci anni, senza neanche avere bisogno della DeLorean di Doc.

Slash: un simpatico quarantenne un po’ bolso
Quando veniamo chiamati dalla produzione del festival, io e Elisa siamo in fibrillazione. Slash, rendiamoci conto. Mica cavoli. Lo so, dimentichiamoci dello Slash Snakepit, tutti fanno degli errori. Mi viene in mente la mia compagna di scuola Silvia, perennemente in lotta ormonale e interiore tra le bellezze del chitarrista nicotinomane (tanto per citare una mania) e il biondo Axl. Stiamo per andare indietro nel tempo.
Per andare indietro nel tempo, però, ci vuole un’ora e un quarto di preparazione, durante la quale l’eccitazione si stempera in sentimento d’attesa e quindi in nervosismo. Intanto vediamo gli altri nel backstage. Appena vedo Slash penso: “Madonna, quanto è invecchiato”. Poi mi deprimo pensando che, poco prima, un ragazzino mi ha fatto la solita domanda della scaletta dandomi del lei. Nel frattempo mi siedo vicino alla truccatrice (?) dei Velvet Revolver, che sta appuntando una croce sul berretto militare che indosserà Scott Weiland. Il dialogo tra me e lei è surreale.
Io: “Posso sedermi qua?”
Lei: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Io: “Va bene, quando arrivano, tanto, devo intervistarli, quindi, per il momento, posso sedermi qua?”
Lei, dopo un minuto di pausa: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Per evitare il loop, mi siedo, e la guardo. Cuce questa croce sul cappello nero, e intanto tira su col naso. Ha gli occhi lucidi e il viso congestionato. Evidentemente ha pianto. Cosa nasconde nell’animo una costumista di un gruppo composto da vecchie glorie? Forse anche lei si è accorta, come me, che il tempo passa e non siamo più adolescenti?
I miei pensieri vengono interrotti dall’arrivo di Slash. Ci sediamo nel suo camerino, un’altra ragazza gli prepara un beverone energetico dal colore torbido, lui si siede, accende una sigaretta (Gitanes blu con filtro: e quando lo vedo che se la porta alla bocca penso solo “minchia”) e iniziamo l’intervista.
Slash è allegro e gioviale, parla con voce bassa e calda, sorride, ridacchia, non è avido di parole. Insomma: Slash è felice. Ed è lui a parlarci dei Guns’N’Roses, forse stimolato da una mia domanda un po’ rischiosa, su come è cambiato il pubblico in tutti questi anni.
Sei minuti intensissimi. Poi ci facciamo la foto che avete visto nel trailer, dove io ed Elisa lo imitiamo abbastanza bene, come si può notare.

Ecco l’intervista a Slash!

Kick Out the Jams
Avevo comprato il biglietto per il quattro, non per il cinque, senza pentimenti. Ma mi incuriosiva tantissimo sentire gli MC5, anzi DKT MC5, come si fanno chiamare adesso. Mi sono chiesto che tipo di operazione ci fosse dietro la reunion di un gruppo che ha fatto sì la storia del rock, ma che, in fondo, non è universalmente conosciuto. Ho risentito Kick Out the Jams, più volte, e non ne sono mai riuscito a cogliere l’essenza, in quel miscuglio di hard rock con influenze soul, ma dannatamente potente (adoro scrivere “dannatamente”). Alle 2005 di domenica 5 settembre 2004, quarant’anni dopo la loro formazione, ho capito. Ho capito che cos’è il rock-e-basta, dal vivo. Ho capito perché gli MC5 vengono da Detroit, come la Motown, ho capito vagamente che cosa doveva essere sentire quella musica nell’aria qualche decina di anni fa. Secondo momento in cui ho maledetto il mio lavoro (ballare “Kick Out the Jams” suonata da loro dietro un mixer è molto peggio dell’interruzione dell’amplesso) e decisamente miglior concerto della due giorni. Semplicemente splendidi.

L’oscurità senza fuochi d’artificio
Sono tamarri, fuori tempo massimo, commerciali e cantano in falsetto. Ma diciamolo: pur con tutti questi limiti, un paio di canzoni i The Darkness le hanno azzeccate. Quando una delle ragazze dell’organizzazione ci ha portato la scaletta della loro esibizione, e ho visto come finale prima del bis “Friday Night” e “I Believe in a Thing Called Love”, mi sono detto: “Ecco a cosa servono le prove denominate “Pyro” che ho visto su un foglio attaccato nel backstage”. E mi ha anche confortato che i case del gruppo fossero ventisei, ognuno grande come un’utilitaria. E invece niente: i Darkness hanno soprattutto usato le luci, il cantante si è cambiato d’abito solo tre volte, ha preso per il culo il pubblico e i Queen. E non è stato sparato neanche un fuoco d’artificio, niente. Che delusione.
Almeno, alla fine, nessuno ci ha staccato la corrente. Quindi abbiamo potuto salutare e concludere degnamente le nostre brave undici ore di diretta (che sono sempre meno, a vedere bene, del tempo che ci avete messo per leggere tutta ‘sta roba. Grazie.)

Quando inizi a lavorare, le vacanze si chiamano ferie – Da costa a costa in pochi giorni

Prologo – Bologna, 12 agosto
Rimanere in città in agosto non è drammatico, su. Si fa amicizia con l’unico tabaccaio aperto nel giro di sei chilometri, anche se non si fuma, e si progettano fughe d’amore con la tristissima e sottopagata cassiera del supermercato vicino casa, che continua a dirti “Ma io ti ho già visto da qualche parte”, e pare brutto dirle “Già, cinque minuti fa mi aggiravo nella zona biscotti e ci siamo urtati”. E poi ci sono tante iniziative: concerti in piazza, cinema in piazza, teatro in piazza, arene estive, lotta nel fango nei parchi, combattimenti truccati di zanzare tigri.
Il problema è che ad agosto in città è la follia umana a farla da padrona. Non passa minuto che non accada qualcosa di grottesco. L’ultima sera a Bologna prima della settimana di ferie non ha fatto eccezione.
Decidiamo di andare a bere qualcosa praticamente sotto le torri. Al tavolo accanto al nostro tre individui intorno alla quarantina che bevono e scherzano tra loro. Ad un certo punto uno di questi si alza e, prima di andarsene, dà delle pacche in testa e delle strizzatine alle palle di quello che ha la faccia più da pazzo. Dopo la decima accoppiata pacca-strizzatina, il malcapitato si ribella, si alza di colpo, prende una sedia di plastica (la sua) e fa per scaraventarla sulla schiena dello strizzatore che se ne va. Il terzo uomo non dice una parola e non fa una mossa. Beve. Lo strizzato si siede. Beve anche lui. Poi si alza e viene verso il nostro tavolo.
“Avete una sigaretta?”
Gliela do.
“Ne avete una anche per il mio amico?”
Gliene viene data un’altra.
I due fumano e bevono, ma non si parlano.
Ad un certo punto il terzo uomo, diventato secondo dopo l’abbandono dello strizzatore, sbocca. Vomita a getto al lato del tavolo, schizzando anche l’amico, che si alza di colpo e inizia a pulirsi i pantaloni. Il vomitatore si alza, ma la sua forza interiore è troppo forte. Appena in piedi, via, un’altra vomitata. Tenta di allontanarsi, e lo fa con ritmo. Due passi, una vomitata, due passi, una vomitata. Nel frattempo l’altro, vedendo la situazione disperata, si dilegua senza dire una parola. Il vomitante riesce a raggiungere un vicolo buio con la sua folcloristica camminata e scompare, lasciando numerose tracce del suo passaggio.
Vedendo la scena mi viene in mente un’atroce possibilità: quello che ha fatto conoscere lo strizzante, lo strizzato e il vomitatore è stata solo la solitudine, il caldo e un tavolino fuori da un locale. Le persone che sono con me prima bocciano l’idea, poi ci pensano e rimangono in silenzio.

Epilogo del prologo. E. rimane a dormire da me, non intende affrontare la città folle e deserta. Appena arrivati a casa mia, le arriva una telefonata da P. E. ride come una pazza.
“Che succede?” le chiedo appena finisce di parlare.
“P. mi ha detto che ha appena visto uno con addosso solo mutande e cappello. Sta venendo da queste parti.”
Corriamo alla finestra, ma non c’è nessuno. Forse l’uomo nudo ma con cappello era già passato? O la follia aveva contagiato anche P.? (musica de paura).

Sarnano, 13 agosto
Il viaggio in treno da Bologna a Civitanova Marche prevede l’ormai rituale guasto dell’aria condizionata dopo circa mezz’ora. Il controllore dice con aria serafica che non c’è nulla da fare. Dà a C. la chiave multiuso per aprire dei finestrini, bloccati per l’ipotesi di aria condizionata. Con quello strumento magico, si può smontare un treno completamente. Il controllore si accorge abbastanza presto del potere che ci ha lasciato e viene a riprendersi il prezioso attrezzo. Da Ancona in poi ogni volta che il treno si ferma, si diffonde misteriosamente un odore di fogna misto a zolfo. Incurante dell’indizio luciferino un uomo sbotta e impreca contro le Ferrovie dello Stato (che è molto più bello come bersaglio che Trenitalia). Dopo qualche minuto scompare nel nulla. Si sente di nuovo odore di zolfo.

La casa di E. (che è un’altra E. rispetto a quella del prologo) a Sarnano è bellissima. Un’enorme casa dei primi del ‘900 immersa nel verde. Fa fresco. Si aprono le Olimpiadi, e penso che sono le settime da quando sono nato. Contare le età in Olimpiadi può essere svantaggioso, a volte.
Come dice Woody Allen, la campagna dopo un po’ mi fa venire l’orticaria, ma per qualche giorno va più che bene. Verde, fresco, insetti, pomodori, colline, cieloblù.
Tanto la prossima tappa è Roma. Grigio, caldo, insetti, giapponesi e americani, i sette colli, giallorosso.
Di sera andiamo a farci un giro nel delizioso paesino medioevale. Fino a che siamo in alto sulla rocca non incontriamo nessuno. Quando scendiamo, però, iniziamo ad incrociare famiglie e gruppi di tardoadolescenti molto, molto tamarri. E. si innamora di uno di questi: continua a dire che bello è bello, ma è anche tamarrissimo. Però è bello. Eccetera. Finiamo in una piazza dove c’è uno spettacolo che è una via di mezzo tra la pubblicità di una palestra, che si chiama – giuro – “PaleXtra”, e un saggio di danza. Sul palco si muovono legnose donne dai sei ai vent’anni, che pensano di fare del “funky step” la nuova arte espressiva del ventunesimo secolo. La scelta delle canzoni usate per commentare gli esercizi è pazzesca: “Superstar”, “Who wants to live forever”, un pezzo degli Inti Illimani, “Kiss Me Licia”. Andiamo a bere una birra, e affascino la cameriera facendo il verso del grillo.

Sarnano, 14 agosto
Il Palio del Serafino è l’evento dell’estate. Le quattro contrade di Sarnano, Abbadia, Brunforte, Castelvecchio e Poggio, si sfidano su quattro prove. Il tiro alla fune, la corsa con le brocche, l’abbattimento del tronco, e la salita sul palo. La corsa con le brocche è l’unica in cui partecipano le donne. La brocca in realtà è un’orcia enorme che va messa sulla testa. Le donne corrono con ‘sta cosa piena d’acqua e il loro passo ricorda un po’ la danza del pinguino in amore. Dopo che il pinguino si è fatto sei birre medie. Il taglio del tronco è emozionante: due omaccioni per contrada prendono ad asciate un tronco. Vince a chi fa prima a buttarlo giù. Questa sono le uniche gare che prevedono che le quattro contrade gareggino insieme. Le altre competizioni sono fatte uno contro uno. Alla quinta tirata di fune e salita sul palo volevo travestirmi da tronco e farmi abbattere. Però la contrada a cui appartiene E. ha iniziato a vincere, e mi sono sentito anche io facente parte dello storico Poggio. Alla fine urlavo come un invasato e prendevo per il culo gli altri contradaioli, bullandomi della mia appartenenza da generazioni alla contrada vincente.
Tornando a casa mi sono interrogato sul profondo significato storico del Palio e delle competizioni. Mi sono immaginato rudi boscaioli all’opera sulle pendici dei monti intorno a Sarnano, donne che portavano preziosi orci d’acqua su e giù per le stradine del paese, ragazzini che salivano sugli alberi per mangiare fresche uova di rapaci. Ma il tiro alla fune: perché?

Sarnano, 15 agosto
Il giorno di Ferragosto arrivano alcuni parenti anziani di E. a pranzo. Per anziani intendo gente che ha visto tutte e due le guerre: Crimea e terza guerra di indipendenza. È un discreto tripudio di “la società va ad un’altra velocità”, “questa modernità” e “però Cavour era di un’altra levatura”. Dopo avere mangiato tantissimo, rimaniamo in stato di coma apparente fino a sera. Quindi rimangiamo, ma un po’ meno, perché il cibo del pranzo avanzato è quello che è.
Di sera, per darci una botta di vita, andiamo a giocare a minigolf. Sono cose che si fanno soltanto in vacanza, no? Entusiasmarsi per un mercatino di libri a prezzi duplicati, spendere milioni per l’affitto di mezzi di trasporto insoliti (canoe, pedalò, deltaplani), mangiare cibi fluorescenti e giocare a giochi stupidi. Il minigolf di Sarnano è complicatissimo. Un tripudio di scivoli, falsipiani, campi minati, buchi neri, spirali e varchi spazio temporali. Il tutto condito da bambini rompicoglioni che parlano in maceratese strettissimo, hanno l’aria minacciosa e mulinano in aria le loro mazze con indifferenza. Il minigolf, più che un gioco, è il prodromo alla follia. Quando la pallina non entra nel mulino dopo dieci tentativi, inizi a prendere a mazzate la maledetta costruzione in ferro, e tenti di mangiare la pallina, insultandola nel peggiore dei modi. Solo dopo ti accorgi che c’è una famiglia bellissima di stranieri che ti guarda. I loro occhi azzurri sono il netto opposto ai tuoi iniettati di sangue. Sorridi, segni “dieci” sul cartellino segnapunti, sputi con discrezione i pezzi di pallina che ti sono rimasti tra i denti, e ti riprometti, per l’ennesima volta, di smettere di bere caffè, di diminuire il numero di sigarette e di iscriverti ad un corso di yoga.

Roma, 16 agosto
L’autista che guida il pullman per Roma è il fratello tamarro di David Lee Roth. Capello lungo e biondo, camicia bianca aperta sul davanti, occhiale scuro, stivaletto pitonato a punta. E parla con forte accento maceratese.
Di sera vado a mangiare in un ristorante che ha anche il menù scritto in inglese. La pasta cacio e pepe diventa “pasta with many different cheese (sic) and black pepper”; le tagliatelle ai porcini diventano “pasta with special muschrooms (sic)”. Mi immagino orde di adolescenti americani che tornano in patria e raccontano che in Italia ci sono ristoranti che ti danno pasta con funghi allucinogeni. Però, siccome sempre di Italia si tratta, ti fregano, e non fanno effetto.
Di sera passo a rivedere il quartiere Coppedè, costruito dall’omonimo architetto negli anni Dieci del secolo scorso. Pare che questo Coppedè fosse anche un alchimista, e che abbia inserito particolari simboli e figure in tutte le abitazioni che ha progettato. Le case sono bellissime, e con le luci della notte sembrano provenire da un altro mondo. L’atomosfera fiabesca viene interrotta da alcuni ragazzi che tentano di uccidere un topo enorme. A colpi di casco. Sì, di casco, quello che si mette per andare in moto. Il topo scappa, e forse si rifugia nella sua tana nei villini delle fate. Solo lì può mettersi in ciabatte e leggere in pace il giornale.

Roma, 17 agosto
Tutti vanno a Roma per vedere il Colosseo, per entrare nella basilica di San Pietro, per mangiare pizzappepperoni. Ma pochi conoscono la grattachecca, in particolare quella di Sora Maria. Partiamo dalla grattachecca. Niente a che vedere con il cartone animato che sta all’interno dei Simpson, no. La grattachecca è un bicchierone di ghiaccio tritato condito con sciroppi di frutta e pezzetti di frutta. Quando è fatto bene. Se no, è una schifezza. Pare che il nome derivi dalla Sora Checca, una delle prime grattacheccare romane, che veniva incitata, appunto, a grattare il ghiaccio. Ma forse è una leggenda mertropolitana. La grattachecca di Sora Maria, come diciamo noi giovani, spacca. Non aspettatevi un negozio enorme, insegne o cose del genere. Si tratta di un anonimo baracchino su un marciapiede di una strada nel quartiere Prati. Quando Sora Maria è aperta, si riempie la strada, ma completamente, tipo folla che aspetta che si aprano i cancelli per un concerto. Ma alle tre donnine del baracchino (chi sarà Sora Maria, ci sarà ancora? Mah…) non importa. Veloci ed efficienti sfornano grattachecche di continuo, sorridono, fanno tutto con precisione e leggiadria. La grattachecca supermista è splendida: sciroppi e pezzetti di cocco, limone, frutti di bosco. D’estate è una meraviglia: è come farsi una doccia dentro, rinfresca le budella e fa tornare il sorriso.
Dopo averla comprata, sono andato a mangiarla seduto sui gradini di una chiesa di una strada vicina. Seduto a pochi passi da me, un uomo con un cane. L’uomo parla al cane come se fosse una persona, richiama la sua attenzione su un gatto che sta dall’altra parte della strada, predice le sue mosse e si compiace coll’animale, che, ad un certo punto, mi guarda. L’espressione che assume è umanissima ed univoca: sembra voler dire “che vuoi farci, il mio padrone è fatto così, abbi pazienza”.

Epilogo, Roma – Bologna, 18 agosto
(mi sono dimenticato di scriverlo allora, lo scrivo adesso) Di mattina mi sveglia un numero sconosciuto. Barcollo verso il cellulare, scusandomi col letto e promettendo un rapido ritorno. Dall’altra parte una voce inglese: ITV vuole ancora una volta un mio intervento in diretta, stavolta sulla bomba trovata a pochi passi dalla casa sarda di Silvio B. Rifiuto allegramente, dicendo che sono in una casa in campagna e che non so nulla del mondo. Mi sa che mi sono giocato il contatto con la reale rete televisiva… E arriva il momento di partire.
Lasciare casa di M. è sempre triste, ancora di più quando lui non c’è. Ma insomma, torno a Bologna, pensando alle belle cose che ho visto e a come sono stato bene. Sull’Eurostar su cui scrivo queste righe faccio conoscenza di due americani. Si chiamano Bob e Susan, nomi da “Indovina chi?”. Lui ha la faccia da sfigato-del-college cresciuto, ma non ha la faccia da nerd. Lei è una giovane donna un po’ bambolesca e, credo, vagamente rifatta. Ovviamente si parla dell’Italia, dell’undici settembre, di come vengono visti gli americani nel mondo. Lui ha una visione ingenua e buonista della situazione, lei lo contraddice sempre. Io do ragione a lei, un bel po’ più acuta del suo compagno. Legge un libro di Susan Sontag, o meglio, fa finta di leggerlo, perché appena lui dice una cazzata, lei interviene e lo atterra. Alla fine Bob arriva alla conclusione geniale che gli americani hanno avuto una storia diversa, quindi sono diversi. Susan aggiunge con un mezzo sorriso: “Sì, ma abbiamo grandi macchine e grandi frigoriferi e centri commerciali enormi.” Io le sorrido, sorrido anche a Bob. Poi penso che la percezione che hanno di me questi due americani è che comunque io sia rappresentato da uno con una bandana in testa.
E decido che voterò per Hulk Hogan alle prossime politiche.

A year in the life

Un anno fa pensavo di trasferirmi a Milano. C’era la prospettiva di un lavoro là. Milano mi appariva come una città ostile e inospitale, a meno che uno non abbia molti soldi. Attendendo notizie sulla mia nuova vita, progettavo piani di rapine a gioiellerie del centro e bevevo Bacardi Breezer. Nessun maledettismo. Ho detto Bacardi Breezer, non whisky liscio, insomma. Ogni volta che racconto del mio agosto 2003 passato in parte da solo a bere Bacardi Breezer, la gente mi guarda come se avessi confessato loro la mia zoofilia. Quella non l’ho mai confessata a nessuno. A parte ad un paio di veterinari. Pensavo che, una volta a Milano, facendo un certo tipo di lavoro, la cosa difficile sarebbe stata mantenere una certa abitudine alla scrittura. Come fare? Un blog, semplice. Avrei scritto quotidianamente di un giorno della vita di un non milanese a Milano. Che idea geniale, eh? In quel momento hanno suonato alla porta. Era Sting, che mi ha cantato An Englishman in New York. “Pirla”, mi ha detto poi, in perfetto italiano. Dopo un iniziale momento di smarrimento, gli ho rinfacciato che era stato lui a sciogliere i Police, e che dopo si era messo a fare dischi di merda. Se n’è andato senza salutare. Sono cose che capitano.
Invece sono rimasto a Bologna, ho lavorato saltuariamente a Milano, che mi è sembrata meno inospitale ed ostile di quanto pensassi, anche se ogni volta che la lasciavo per tornare a Bologna, mi trovavo attaccato sulla schiena un biglietto che diceva “Pirla”. Ho sempre sospettato che fosse Sting, non Milano, il colpevole di questo scherzo.

Sting che aspetta con ansia l'arrivo di un carico di Bacardi Breezer

Il 15 agosto di un anno fa faceva caldo. Caldo a Ferragosto. Ha dell’incredibile. E ho aperto lo stesso un blog, nonostante il mio veterinario me lo sconsigliasse. Perché mi piaceva l’idea che le mie parole si facessero dei giretti, di tanto in tanto.
In quest’anno le mie parole hanno girato un sacco, si sono trovate bene, talvolta sono state molestate, ma in generale sono state ricoperte d’affetto, e io di conseguenza. Per questo: grazie a tutti voi, davvero.
In quest’anno sono cambiato. Ho buttato via i piani di rapina, non bevo più Bacardi Breezer, e ieri mi è arrivato un messaggino di Sting. Adesso lo beve lui, è in difficoltà e vuole che io gli dia una mano ad uscirne.
Quindi me ne vado in giro con lui, tenterò di fargli aprire un blog. Ci si risente tra una settimana scarsa.

Per grazia ricevuta – karaoke version

Capita venerdì scorso di essere in piazza Santo Stefano intorno all’ora dell’aperitivo. Un palco davanti alla chiesa, e sopra, a fare il soundcheck, i P.G.R. Sigla che starebbe per “Per grazia ricevuta”. Adesso però si chiamano P.G.G.G.R. “Però Giovanni, Giorgio, Gianni Resistono”. Il numero dei componenti di quelli che erano i C.S.I. diminuiscono, che manco in Dieci piccoli indiani, però il nome diventa più lungo. Misteri.
Non ho alcuna intenzione di vedere il concerto dei P.G.R., la sera di quel venerdì. Credo di essere stato già abbastanza fortunato a vederli a Montesole il 29 giugno 2001. Avevo appena dato un esame tremendo e pesantissimo, era andato bene. E la sera le stelle, il fresco e un concerto che ho sentito e risentito, ma che non riesco a staccare dal senso di pace e beatitudine interiore che stavo provando. Poi avevo sentito il disco in studio. Qualcosa di tremendo.
E dire che, ai tempi dell’uscita di Tabula Rasa Elettrificata, ho visto i C.S.I. dal vivo quattro volte in pochi mesi.
E dire che, ai tempi dei C.C.C.P., ascoltavo decisamente altro, tipo le sigle dei cartoni animati e True Blue di Madonna.
Non mi interessa più ciò che fa Giovanni Lindo Ferretti, perché non trovo più una briciola di ironia. Loro, tanto per fare un esempio, non si prendevano sul serio, anzi. Quando hanno iniziato a farlo, le cose sono andate male, e infatti hanno smesso di suonare insieme.

Insomma, sono lì che bevo una birra con C. e intanto ascolto quello che fanno sul palco. Abbozzi di taranta (orrore!), una ragazza che si dimena goffamente su un palo sullo sfondo: non so se faccia parte della coreografia, oppure se si tratti di uno sfogo personale suo.
Ci avviciniamo, curiosi. E inizia un pezzo che credo faccia parte del disco nuovo. Credo. Perché mi ritrovo a cantare il ritornello di “Fuochi nella notte”, e ci sta benissimo. Io canto “Chi c’è c’è e chi non c’è non c’è” sulla musica, mentre Ferretti canta tutt’altro. Funziona.
Il sorriso che ho quando me ne vado dalla piazza, ciondolando la testa, è amaro, non ironico. A che servono i P.G.R., o come si chiamano, oggi? Non tutto ciò che deve accadere accade.

P.S. Questo blog, ultimamente, parla molto di musica. Ma presto ci saranno post sulle diete estive, sulle attività per gli anziani in città, su quando e come prendere il sole.
Ah, non c’entra nulla, ma è una cosa curiosa e divertente. È nato H.

Trecentosessantacinquesimo

Esco dalla radio con Federico. Sentiamo un botto mentre siamo sotto le Torri. Parlavamo della liberazione degli ostaggi, credo. Comunque ne avevamo parlato.
Dopo poco andiamo in piazza Maggiore, con Elena e Nico. Vediamo i Carabinieri che ci impediscono l’accesso alla piazza. Quando uno di loro vede Nico gli dice:
“Vieni qua, tu”
Nico va.
“Allontanatevi, voi”, dice il carabiniere.
Ci allontaniamo.
Il carabiniere fa aprire la borsa a Nico. Dentro c’è un pennello e materiale per fare attacchinaggio.
Solo dopo veniamo a sapere esattamente cos’è successo.

Alla mezzanotte del mio ventiseiesimo compleanno ero circondato da persone care, vicine e lontane. Fumavo una canna e ridevo.
A volte, quello che vince, è arrendersi al senso di impotenza, e lasciarsi andare, abbandonarsi solo all’affetto e al calore.

We'll always have Paris

Ebbene sì. Me ne vado per una settimana a Parigi. A cazzeggiare, eh, che di lavoro mica se ne parla.
Il mese di maggio si annuncia denso di impegni e appuntamenti.
Intanto vi ricordo che il 16 maggio c’è il Blogpark, a Bologna. Iscrivetevi, venite, partecipate.
Il 21 maggio c’è il Blogrodeo. Come sopra.
In mezzo, come al solito, farò blogdormite, berrò blogaperitivi, leggerò bloglibri. Argh.
Devo dire che, però, mi dispiace non essere in patria per il primo maggio. Non solo mi perdo la festa a Gorizia per l’entrata della Slovenia nell’Unione europea, ma non sarò al concerto dei Radio Dept. al Covo. Polaroidi ed Ink, siete stati grandi, veramente. Sono lì con voi con il cuore. E una baguette in mano. Fatemi sapere com’è andata.
Mi dispiace, insomma.
Ma, alla fine, ho sempre Parigi, no?

Trippin' (Back Home)

Quando torno nel piccolo posto nordorientale che ha visto le mie origini, una delle (poche) cose belle è vedere i miei amici. Passo una bella prima parte di serata parlando con M. ed S. di amicizia, sesso, politica, transumanza e amore (non in quest’ordine – e per quanto riguarda la transumanza: ognuno ha i suoi hobby). Poi S. se ne va, e vado a bermi l’ultimo bicchiere (citazione dotta) con M. Parliamo tranquillamente e piacevolmente solo di donne (ora capite che M. è maschio e S. è femmina, vero?) quando arrivano tre amici di M., completamente ubriachi. Si siedono al tavolo con noi, e uno, il più molesto di tutti, prende di mira me. Mi trovo per un quarto d’ora in una brutta esperienza da LSD. Tento di riportare il dialogo così com’è stato.
“Non sei di qua”, approccia lui.
“No, ma sono nato qua. Vivo a Bologna da anni…”
Come per magia, quando si nomina Bologna…
“E figa, ce n’è?”
Che palle. “Mah, ci sono molte ragazze carine”, abbozzo.
“E bevono?”
Rimango interdetto.
“Dico: i muli lassù (sic) bevono?”, precisa.
“Beh, beviamo, sì, andiamo fuori a bere.”
“Sì, ma i bolognesi bevono?”
Mi sembra di parlare con un agente dell’ISTAT.
“Io di bolognesi ne conosco pochi, a dire il vero”, rispondo, mentendo in parte. E c’è un attimo di pausa.
“Francesco, eh?” riapproccia lui.
“Mm.”
“Come DJ Francesco. Ti piace DJ Francesco?”
“Veramente no”, faccio io. Lui alza il pollice.
“E che musica ascolti?”
Ora, io, ad una domanda del genere non so mai cosa rispondere. Come quando mi chiedono quale sia il mio regista preferito. Preferirei mi chiedessero di colori preferiti, o se mi piace la pizza. Faccio il vago mugolando. A quel punto lui mi chiede in successione se mi piacciono: i Radiohead (sì), i Rage Against the Machine (sì), Ambra Angiolini (dico sì e lui alza il pollice), Guccini (no), De Gregori (qualcosa), De Andrè (“Lo conosco poco, dico io”: il pollice si abbassa), i Metallica (sì), i Ramones (sì), i Blink 182 (no, e il pollice si rialza).
“Io gli voglio bene, a Francesco. Quanti anni hai?”
“Ventisei”, dico io arrossendo, emozionato per l’amor appena suscitato.
“Trentasei?” dice l’altro amico ubriaco al mio fianco.
“Ventisei”, dico io. E lui continua a raffica, come il compare di prima, chiedendomi se mi piacciono alcuni dei suoi amici (di cui io ignoro l’esistenza), chiamandoli per soprannome.
Il mio amico, nel frattempo, parla di jazz con il terzo ubriaco.

Rivoglio Tette, Torri e Tortellini. Subito.

Dead Man Working

Oggi sono andato a fare un colloquio di lavoro per un piccolo quotidiano di Bologna.
Quando uno legge quelle guide stupide su come compilare i curricula e comportarsi durante le interviste, ci sono due consigli che vengono ripetuti sempre. Il primo è di ricordarsi bene con chi si ha il colloquio, e quindi avere bene in mente il suo nome e la sua posizione. Il secondo è quello di essere puntuali.
Arrivo alla sede del giornale con quindici minuti di ritardo e un panico mnemonico assoluto. Non solo non mi ricordo chi è la persona con la quale devo parlare, ma non ho la più pallida idea del suo nome. Evito di prendere fuori il giornale e consultarlo davanti alla segretaria come fosse un elenco: mi presento e dico che ho un appuntamento con il caporedattore. La ragazza fa una faccia perplessa, poi si dilegua.
“Lei ha un appuntamento con il direttore“, dice. Ed evita di fare commenti sul mio ritardo.
L’ufficio del direttore del piccolo quotidiano bolonnaise è spoglio da morire. Sopra di lui c’è soltanto una frase di Kierkegaard che dice: “Ormai la nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che egli trasmette dal megafono del comandante non è più la rotta da seguire ma la lista di ciò che mangeremo domani”. Del significato della frase colgo solo il senso culinario.
Sentendo parlare il direttore mi rendo conto del perché non mi ricordo che era stato lui a telefonarmi e che non avevo idea di quale fosse il suo nome: quando parla quest’uomo non si capisce nulla. Del discorso serratissimo e universalista che mi ha fatto ho solo colto due volte la parola “pugnetta”; una volta “Cofferati”; sei volte “soccia” e derivati; due volte “cazzo” (pronunciato, ovviamente, “casso”); una volta e mezza “merda” (la mezza volta è da intendersi come “meer”).
“Le ho portato un curriculum”, gli dico. Lo poggio sul tavolo, lui non lo guarda, ci mette la mano sopra e mi rendo conto che l’apprendimento per osmosi esiste, ma è imperfetto. Infatti mi fa le domande le cui risposte sono nel curriculum, e me le pone nell’ordine esatto in cui i dati sono elencati. Inizia con “Quanti anni hai?” e finisce con “Ma il computer lo sai usare?”.
Ancora, però, non mi ha detto che vuole da me, almeno credo. Glielo chiedo direttamente. Intuisco che hanno bisogno, fondamentalmente, di un tappabuchi nella cronaca bianca, nei mesi estivi. E io lo farei pure, il tappabuchi della bianca con i cinquanta gradi all’ombra della Bologna d’estate. Ma quanto mi darebbe, il direttore del piccolo quotidiano, e quanto dovrei lavorare?
La risposta che mi dà si traduce nel mio cervello in una cifra: tre euro l’ora. Netti, eh.
“Mi faccio sentire”, dico io.

Nota: non sono così preoccupato per la mia disoccupazione. Sapete, sono iscritto a tantissimi siti che offrono lavoro e mi mandano e-mail che iniziano con frasi come “Ottime notizie, Francesco: abbiamo le seguenti offerte per te”. L’ultima e-mail del genere mi offriva un posto come arredatore.

Altra nota: sì, sono un po’ negativo, oggi. Ma, d’altro canto, oggi pomeriggio ho visto questo.

Du' amici, una loopstation e 'na chitara

Sono tornato dal concerto di Damien Rice e, sinceramente, vorrei andarmene a letto. Solo che non posso, per colpa sua. Erano sette anni che non andavo in un fast food a mangiare, perché mi sono fatto convincere da F.? E non ho neanche l’Alka Seltzer a casa. Potrei farmi uno shottino di Mister Muscolo Idraulico Gel, ma credo che potrebbe forarmi l’intestino. Quindi farò finta di parlarvi del concerto, fino a che il rutto finale non mi dirà che il lungo processo di digestione è completato. Considerando che l’ultima esperienza con fast food e affini ha fatto sì che riuscissi a digerire questo in sole sette ore, il post sarà chilometrico.
Quando arriviamo io, F. e Whopper, il locale è già pienissimo. Facciamo in tempo a sentire Josh Ritter, musicista di supporto, che suona la sua ultima canzone senza microfono e con una chitarra acustica non amplificata. Ovviamente non si sente una mazza. “Forse l’ha fatto per avere intimità col pubblico”, dico io. “Forse è imbecille”, dice Whopper, che non accenna a muoversi dal mio stomaco.
Intanto ne approfitto per dare un’occhiata al pubblico. Si piazzano davanti a me un ragazzo e una ragazza. Altissimi, come è di rigore. Lei scrive messaggini come “anke tu 6 qui?” e li manda ai vari Klaudi, Katerine, Kiare, Karle della sua rubrica (sì, ho fatto il guardone). Il ragazzo alto le offre una canna, ma lei rifiuta. “Non mi faccio le kanne”, dice. “Peggio x te, kazzi tuoi”, pensa lui. “Kuesta me la fumo da solo. 6 proprio una stronza”.

Dopo avere sentito un disco intero di Nick Drake, entra finalmente Damien Rice, che attacca con una canzoncina in francese, che include parecchie volte la parola “chanson” (metatestualità, presumo). Ogni volta io e F. ci guardiamo e pensiamo “voilà, le garçon ancien c’est moi”. La canzone, peraltro, finisce con il verso “french wine and cheese”. E vabbè. Come se ogni canzone in italiano, o che parla di Italia, finisse con pizza e mandolini.
Va bene, esempio sbagliato.
Poi Mr Rice ci delizia con varie chicche dal suo album, una bellissima versione di “Volcano”, per esempio, alla fine della quale uno del pubblico gli urla (testuale): “You break!”, cioè “Spacchi”. Se non ci fossero i corsi della De Agostini, where we would go to end (dove andremmo a finire). Si palesa anche un altro esemplare del pubblico. Alto pure lui, e ti pareva, con maglietta bianca a maniche lunghe attillata, si muove e si muoverà per tutto il concerto come se sentisse musica-da-ballare, dalla disco al liscio. Insopportabile, ma apprezzabile per il suo rigore, la sua coerenza e il suo eclettismo. “Sei un fesso!”, gli urla ad un certo punto Whopper dalle mie viscere, con una certa arroganza. Io penso di sfruttare questo dono per dare una svolta alla mia vita e diventare ventriloquo professionista.
Ad un certo punto, però, Rice si ricorda di avere con sé una loop station…

Flashback. Casa Rice, Natale di molti anni fa.
“Damien, bello di mamma e papà, che cosa vuoi che ti porti Babbo Natale quest’anno?”
“La pista Polistil”
“E invece no, ti ha portato un sequencer”
“Cazz’è?”
“Un apparecchio che tu ci registri una sequenza e lui la ripete”
“Se lo vendo e mi compro la Polistil?”
“Vedrai che se un giorno farai il musicista ti servirà”
“Ma io voglio fare il parrucchiere”

Emblematica e lapidaria la frase che mi ha rivolto G. dopo sei minuti di loop: “Ha un po’ stracciato la minchia”. Io, F. e Whopper annuiamo.
Poco dopo, ecco arrivare la cover di “Hallelujah”, già di Leonard Cohen, rifatta a sua volta da Jeff Buckley. Una cover al quadrato, insomma. Il pubblico reagisce cantandola in maniera sommessa e composta. Io mi sento a disagio come se fossi alla messa di Natale, anche perché Whopper la canta stonato, apposta.
Il concerto continua, alternando momenti intimi altissimi e schitarrate un po’ fuori luogo, in cui però pare che Damien si diverta tantissimo.

Flashback. Casa Rice, un pomeriggio di inverno. Frastuono proveniente dal piano di sopra. Mamma Rice sale le scale inviperita e scopre il giovane Damien con una chitarra a tracolla, distortissima. Prende il distorsore e glielo rompe sotto il pesante zoccolo di legno irlandese.
“Quante volte ti ho detto che devi fare piano? Puoi suonare la chitarra, ma solo canzoni tristi e intime, arpeggiando con grazia”
“Ma io voglio fare il rocker, mamma”
“Un tempo volevi fare il parrucchiere. Io e papà ti abbiamo anche comprato la loop station apposta. Ingrato”

Prima dei bis la bella violoncellista (le violoncelliste sono tutte belle) Vyvienne fa una cover di “Seven Nation Army”. Mentre io mi chiedo il perché di questa idiozia, il pubblico è esaltatissimo e si agita a ritmo. Il danzatore di cui sopra, non ne parliamo: sembra Tony Manero. Whopper anche. Lo convinco a stare fermo promettendogli che, quando sarei arrivato a casa, mi sarei fatto una padellata di alici e burro fuso. Per nutrirlo.
Rientra Damien Rice, che, dopo un po’ di schitarrate e giochini con i loop, chiude con una bellissima versione di “The Blower’s Daughter”.

Il concerto, alla fine, mi è piaciuto, ma preferirei avere Damien Rice nell’armadio, in modo tale da poterlo tirare fuori quando sono triste, e farlo suonare per me nella mia stanzetta, così come lui suonava nella sua, dimenticandosi delle gioie del suono distorto e dell’abuso di loop.
Vado a prepararmi le alici. Le promesse sono promesse.

Viva la gente, la trovi ovunque vai

Martedì sono stato al cinema, obbligato a vedere per la trasmissione quella schifezza di Amore senza confini. Durante l’intervallo due signore, che chiamerò Iole e Gina (completamente a caso), intorno all’ottantina, chiacchierano sul film, arrivando alle seguenti conclusioni. Primo: per fortuna che ci sono i medici senza frontiere, ché loro (la Iole e la Gina) quelle cose non le farebbero mai. E ci credo. Secondo: la colpa è dei governi, che sfruttano il popolo. “Bisognerebbe dirglielo”. Mi vedo la Iole e la Gina ricevute, che ne so, da Pol Pot. O da Bokassa. Previa telefonata. Faccio esempi del passato, per evitare facili satire. Terzo: le mentine fanno bene alla bronchite. Bisogna portarle sempre nella borsetta, perché servono a frenare la tosse, molto fastidiosa a teatro. Quarto: alla fine il fascismo in Etiopia ha fatto del bene. La Iole ha qualche difficoltà a pronunciare la parola “tucul”, ma la Gina scandisce benissimo “negretti”.

Intermezzo.
Oggi ero in Sala Borsa, che, tra le altre cose, è anche una mediateca. Nel senso che ci sono CD, DVD, VHS e anche libri (ovviamente) in prestito. Scartabellavo con poca convinzione all’inizio della sezione “contemporanea straniera”, che comprende tutto, dai Kiss fino a Johnny Cash, passando per Ray Charles e la World Music, quando un ragazzo vicino a me mi dice:
“Oh, se ne vedi uno dei Nirvana…”. Per la serie: avvisami. Ma che siamo a fare la caccia al tesoro e siamo in squadra insieme?
“Guarda che i Nirvana sono sotto la N”, gli dico indicando una zona vaga alla mia destra. Lui mi guarda come se gli avessi raccontato una barzelletta in dialetto siriano. “Cosa?” “I Nirvana, dico, sono sotto la N”. Lui mi guarda come se non capisse dove c’è da ridere, nella barzelletta in dialetto siriano. “I CD sono in ordine alfabetico”, sussurro. “M?” fa lui, solo intuendo il raffinato gioco di parole della barzelletta. “N”, dico. “Nirvana. Là”. La zona indicata è sempre alla mia destra, ma il ragazzo, sconsolato, se ne va dall’altra parte verso la sezione “Umorismo dialettale siriano”.
Fine dell’intermezzo.

Stasera a Porta a Porta (è la seconda volta che lo vedo: ne parlo come se fosse un evento, perché lo è), c’è Berlusconi S. Quando parte la musica di Via col Vento (ma dico io, non potevano usare quella di un brutto film? Che ne so, la musica di Amore senza confini?), Silvio B. è inquadrato in controluce mentre legge fintissimo un opuscolo. Avete presente quando uno fa finta di leggere il giornale in modo tale da non dovere alzare lo sguardo per salutare qualcuno? Entra nello studio Vespa B., saluta quello seduto che, quindi, deve rispondere, e i due iniziano a duettare amabilmente. Bruno V. fa la parte di quello che deve mettere in difficoltà l’altro, che improvvisa un po’ troppo. Il pezzo inizia con la storia del lifting e Silvio V. dice che il presidente del consiglio deve apparire in forma, perché lavora dalle sette e mezzo del mattino fino alle due e mezzo di notte. La logica mi sfugge. Il richiamo a luci-mai-spente no. Poi parla di una dieta che ha fatto, per dire che il lifting, alla fine, non è stato poi decisivo. Bruno B. gli chiede che dieta abbia seguito, ma quella non si rivela, come il trucco (nel senso di gioco di prestigio, non di make-up: meglio precisare). A SBVB è bastato ridurre l’apporto calorico per qualche settimana in gennaio. Proprio come me. Con due differenze: intanto, non l’ho fatto proprio volontariamente. E poi, lo ammetto, io lavoro decisamente di meno.

Torna in cima