L’omino della caldaia
Per accogliere l’omino della caldaia esco prima dal lavoro e faccio le corse per arrivare a casa puntuale, ma lui è in ritardo.
“È mezz’ora che l’aspetto”, gli dico al telefono. Risponde che gli si è rotta la frizione dell’auto e che sarà da me al più presto. Ed effettivamente, non molto dopo la telefonata, l’omino della caldaia arriva.
Basso di statura, con la faccia buona da gnomo, entra e si scusa. “Poteva telefonare”, obietto, e lui mi dà ragione mentre si dirige verso il bagno.
È già stato a casa mia per riparare a un problema causato involontariamente dai proprietari precedenti, che sono stati letteralmente truffati da chi ha installato la caldaia nel loro appartamento, ora mio. In quell’occasione conobbi l’omino della caldaia, chiamato dai vecchi proprietari, che si era lamentato con me della disonestà dei suoi colleghi. Per provare la sua, quel giorno mi aveva consigliato di fare riparare la macchina che avevo, piuttosto che comprarne una nuova.
“Io le vendo, queste caldaie, sa”, mi aveva detto. “E le posso assicurare che quelle nuove non valgono la metà di queste. Le vendo, io”, aveva ribadito dopo avere diagnosticato un piccolo malfunzionamento. “Io, se vuole, non gliela riparo e gliene vendo una nuova, ma…” e aveva fatto un gesto con le mani, il volto e il collo, come per prendere le distanze da ciò che aveva messo sui sui piatti della bilancia. Come se mi stesse dicendo “Scelga lei”, anzi, con un modo di fare tutto bolognese “Scelga poi lei”. Ho scelto. Ecco perché è da me: deve riparare quel difetto minimo dalle conseguenze, però, un po’ fastidiose.
“L’ha già fatta pulire quest’anno?”, mi chiede.
Ho temuto questo momento da quando l’omino ha varcato la soglia: perché quest’anno la pulizia e il controllo dei fumi li ho comprati su Groupon, risparmiando un bel po’ di soldi sulle tariffe standard. E, tutto sommato, ricevendo un buon servizio. Evito di nominare il servizio di coupon, ma gli confesso che sì, tutto è già stato fatto. L’omino della caldaia mi guarda un po’ triste: “Lo facciamo anche noi, quel servizio”, mormora. E poi si rimette al lavoro.
Tutto va a meraviglia e l’omino della caldaia mi fa la ricevuta senza che gliela chieda. Incredibile. Quando vede sul libretto il timbro della ditte che l’ha controllataqualche giorno prima, dice “Ah, ma siamo amici, con questi”. E io mi immagino che ci sia una specie di guerra (fredda) tra tecnici caldaisti. Buoni da una parte, cattivi dall’altra. Si combattono silenziosamente, tra termostati e sonde. Ma anche solo guardando la sua faccia si capisce a quale schieramento appartenga il mio uomo.
Prima che se ne vada lo rassicuro: chiamerò lui il prossimo anno per la revisione. “Va bene”, dice l’omino scendendo le scale, ma non pare del tutto convinto delle mie intenzioni.
Io ci rimango malissimo. Mi sembra di avere tradito il mio panettiere di fiducia, o il barista dal quale vado ogni mattina per la colazione. Solo che io non ho alcun panettiere o barista da cui abitualmente mi servo. Mi rendo conto, però, di avere ora un caldaista di fiducia e, forse spinto anche dal senso di colpa, lo comunico a tutti quelli che incontro in quella giornata. “Ho un caldaista da consigliarti”, esclamo. Ma l’effetto che ciò suscita, come immaginavo, non è proprio lo stesso di quando ti dicono che ha aperto un nuovo bar dove servono cornetti eccezionali.
E quindi tra oggi e domani i muratori che mi hanno “accompagnato” negli ultimi quaranta giorni (numero quaresimale, me ne rendo conto solo oggi) dovrebbero levare le impalcature dal pozzo luce su cui si affacciano quattro quinti delle finestre di casa mia. Ieri li ho aiutati a rimettere a posto gli scuri e ho scambiato due chiacchiere con loro.
Arriviamo alla cena dell’ultimo giorno
per la tal sagra, al tentativo di battere il record di persone che formano una catena umana intorno a un lago. La coppia A ha invitato la coppia B a unirsi alla prova: lei-B quasi quasi ci stava. Si è poi parlato di traffico, di stile “rusticato” (di cui Maschio-A sapeva tutto), di orari di lavoro, di souvenir (seriamente), di educazione dei figli con annesse prove che alla fine si può anche stare senza cellulare. A quel punto il maschio-B ha detto che “Non si può tornare indietro” e ho avuto l’impressione che si riferisse alla scelta dei posti per la sera.
La seconda cena viene affrontata con il bagaglio di conoscenze del
Alle sette e quaranta del mattino udiamo dei suoni emessi dal bambino nostro vicino, ai quali presto risponde l’altro bambino, convincendo infine ad unirsi al chiacchiericcio i quattro genitori: i campani si sono svegliati.
“Non si finisce mai di imparare” e “Al peggio non c’è mai fine”: se dovessi riassumere l’ultima esperienza conviviale che ho vissuto, userei questi due modi di dire. Banali quanto volete, ma veritieri. Ma cominciamo dalla cornice: un agriturismo della campagna umbra nel quale ho passato il ponte appena trascorso. Ci spiegano che la cena viene servita alle otto e ci mostrano la sala da pranzo: un refettorio, con tavoli lunghi e sedie tutte intorno ad essi. “Siamo un po’ francescani nello spirito”, ci dicono. Siamo a due passi da Assisi: cosa si vorrà mai essere?
comportano allo stesso modo: ci sono gruppi di quattro o sei persone che chiacchierano amabilmente tra loro. Sono gruppi preesistenti, compagni di viaggio, o si sono formati spontaneamente? Molte coppie, però, hanno un’aria quasi penitenziale, mentre mangiano. Probabilmente l’abbiamo anche noi.
Il giornalista generico di cultura contrasta, in effetti, quello che ho detto. Già, perché il GGC, chiamiamolo così, è inserito nella routine quotidiana degli appuntamenti culturali da-non-perdere. Entra in sala mollemente un quarto d’ora dopo l’effettivo orario previsto per la proiezione, ma tutti stanno aspettando lui. Ha quel posto di lavoro da trentacinque anni: può fare ciò che vuole. Scorre sinuoso tra le file delle poltrone salutando tutti, ma facendo cenni di assenso più intimi e misteriosi agli altri GGC che, bah, sono arrivati meno in ritardo di lui. Il GGC non si è ancora seduto e gli altri iniziano a spazientirsi: lui, allora, fa un cenno all’addetta stampa, le ricorda che hanno una partita a burraco in sospeso, e finalmente inizia la proiezione.
Il giovane stagista fiuta l’aria come un cerbiatto in pericolo: e lo è. È una farfalla nella stagione degli amori, oppure una talpa depressa, a seconda di quanto sia distante la fine del contratto (fotodegradabile) che ha firmato rinunciando a ogni diritto umano e civile. È alla proiezione per due motivi: per sbaglio o perché il caporedattore cultura ha avuto un ictus fulminante. Ma è la sua grande occasione: ha letto tutto sul regista, conosce a menadito la filmografia di ogni singolo membro del cast e non dorme da due giorni per l’agitazione. Ha la penna, il bloc-notes e ogni altro mezzo di registrazione immaginabile. È pronto per l’Intervista, ma deve prima guadagnarsi la fiducia (o anche solo una minima attenzione) dell’addetta stampa.
L’addetta stampa è come nei film polizieschi: nel senso che di solito c’è l’addetta stampa buona e quella cattiva. L’addetta stampa buona lo è a tal punto che dà una cartella stampa anche al giovane stagista, pensate un po’. Promette interviste di un’ora e mezzo. Poi passa a rassicurare altri giornalisti. E lascia il campo alla sua gemella cattiva. L’addetta stampa cattiva ha rispetto solo per gli ospiti (attori, regista, o chi per loro) e per il giornalista generico di cultura con il quale, forse, ha anche avuto una storia, o ci sono questioni di soldi di mezzo, o entrambe le cose. Ha un particolare gusto sadico, sfogato ovviamente soprattutto sul giovane stagista. Talvolta, addirittura, lo iscrive alla lista, in fondo, però. Così trova l’intervistato stanco e spossato per la sequela di domande identiche e fuori tema alle quali ha dovuto rispondere: al primo segno evidente di stanchezza o rottura di balle che l’intervistato esprime, l’addetta stampa cattiva irrompe sulla scena e interrompe tutto, anche dopo la prima mezza risposta. Caccia via il giovane stagista, poi si volta verso l’intervistato e sorride, sorride al punto tale che i suoi lineamenti si modificano, accostandosi molto a quelli dell’addetta stampa buona.
Quello capitato lì per caso ha due possibilità, a seconda dell’addetta stampa che incontra per prima. Se è quella buona, la sua ingenua domanda “Ma c’è un film gratis?” verrà accolta da un sorriso e da un invito a entrare. Se è quella cattiva, la risposta sarà glaciale al punto tale da lussare una vertebra del capitato lì per caso e, nello stesso tempo, fargli morire le piante del salotto. Talvolta quello capitato lì per caso, però, viene fatto entrare: in fondo è sempre una presenza utile, quando c’è il sentore che l’anteprima stampa possa venire disertata da molti.